mercoledì 18 marzo 2009

Il Testamento della Contessa

Mi sento sollevata: la fine del mio tormento sta per arrivare, ormai a stento ho le forze per intingere il pennino, ma su questa carta voglio lasciare il mio spirituale testamento. A voi, giovani pulzelle dico: gioite di non essere nate contesse, l’anima vostra ha speranza di salvarsi!

Voi non potete immaginare che tedia sia il far niente e restare sempre chiuse in questo Castello di Poppi, come una colomba in una gabbia dorata che si strugge, giorno dopo giorno, nel vedere attraverso le feritoie della sua prigione l’irraggiungibile paradiso del rigoglioso Casentino. Immagino la vostra incredulità, voi che avete la schiena spezzata dalla fatica e lo stomaco che brontola pieno solo di acquacotta. Eppure sono io che vi invidio e quante volte avrei voluto poter mangiare i picciarelli conditi con le briciole invece che con la nana, pur di avere il vostro incarnato rosato, il colorito di chi conosce la vita, invece di questa pelle diafana, morta come la mia anima.

Prima di restare vedova almeno avevo un ruolo, ero la moglie del Conte Guidi, ma alla dipartita del mio consorte – che nemmeno posso chiamar amato perché la noia ogni ricordo ha inghiottito – sono diventata semplicemente il fantasma di me stessa. Non giudicatemi in frette, ditemi voi se a trent’anni si può rinunciare a sentirsi vivi, a vestire solo di nero e restare sedute a guardare i giorni passare tutti terribilmente uguali. Ogni mattina quando vi svegliate, voi avete uno scopo, un motivo, ma io non avendone uno ho dovuto inventarmelo per illudermi di sopravvivere. Bastavano un corpetto stretto, un battito di ciglia in più e una frase di allusivo doppio senso e la notte stessa la preda prescelta veniva a farmi visita in questa Torre. Per ore ci si allettava con l’arte amatoria, ma poi la mattina successiva scattava la trappola: quando l’amante di turno stava per uscire dalla stanza si apriva un trabocchetto nel pavimento che lo inghiottiva scaraventandolo nell’abisso. Vi prego non pensate a me come una lussuriosa assassina, in realtà la faccenda è cominciata per caso.

Un giorno al Castello era arrivato un menestrello, un bel tipo dal fisico di buttero e una gran capacità di parlar in sonetti. Ci fu solo uno scambio di sguardi durante il suo spettacolo, ma quella notte stessa un colombo entrò dalla finestra aperta per l’afa della mia camera da letto con un biglietto legato al piede da una nastrino rosso. Nel biglietto era rimato l’invito ad andare alla torre: Telda, creatura stupenda, oso chiedervi solo una cosa: venite sotto la torre, ho una rosa da donare al vostro cuor.
Telda. Nessuno mi aveva mai chiamato così da quando ero diventata la Contessa Guidi. Ecco chi ero: Telda. E non potevo che amare colui che mi aveva fatto sentire nuovamente viva. Fu una notte d’amore indimenticabile, l’ebbrezza del piacere aveva irrorato di sangue ogni parte di me. Già sognavo la nostra fuga: solo con lui avrei potuto tornare alla vita!

Il tintinnio del cinturone dei suoi pantaloni, mi svegliò all’alba. Gli sorrisi ma lui non contraccambiò, allora gli chiesi come mai si vestiva così di fretta e lui scrollando le spalle recitò: L’amor casto, clorotico, cantato dai giullari, l’amor giurato a un solo a’ pie’ de’ sacri altari, l’amore, misticismo di un’anima ideale, non allettava i sensi della donna carnale. Ma nelle notti insonni , lunghe, irrequiete, le bruciava nel sangue d’un altro amor la sete, amore che converte due amanti in un ossesso, che nasce ingigantisce e muor dopo un amplesso.
Il gallo non aveva cantato e già lui mi lasciava, ero stata solo il trastullo di una notte. Mentre si avvicinava alla porta sentivo che si stava nuovamente portando via la mia vita. Così per rabbia, gli scaraventai contro il candeliere e lui da provetto saltimbanco schivò, ma una botola si aprì nel pavimento e il mio menestrello sparì. Solo dopo essermi ripresa dallo spauracchio intesi che il salto del bell’imbusto aveva azionato una vecchia trappola che pensavo fosse solo leggenda.

Da quel giorno una voragine si aprì nella mi anima e così iniziai a riempirla, notte dopo notte, nel mondo che già avete inteso.
Mi scuso se per colpa mia avete perso figli, fratelli, amici, ma nel caso fossero stati mariti, forse dovreste ringraziarmi. Così sapete che mi hanno rinchiuso qui a morire di fame per giustiziarmi, i miei cari parenti; pensano forse di farmi dispetto, già ero morta: ora smetterò solo di respirare. Sia del Diavolo questa Torre! Dal finestrino intravedo il Castello di Romena. Chissà in quale piano mi avrebbero messo nella prigione di Romena? Sempre che pretendere di vivere sia un reato. La candela ha finito lo stoppino, mi abbandono il mio destino. Le ultime forze le voglio spegnere immaginandomi vestita di iuta a pascolar chianine puzzolenti e mugolanti, con solo un pezzo di Marocca nella bisaccia.

La sottoscritta contessa Telda, vedova Guidi, dichiara che la felicità è nelle briciole.

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Racconto partecipante alla seconda edizione di © Philobiblon (2007)