martedì 7 marzo 2023

Il borgo senza peste

Il borgo senza peste di Peter Hubscher

“Cosa fai lì? Siediti”.
Brusco come sempre, il padre priore mi indicò lo sgabello. Zoppicando a causa della gamba ferita durante la crociata, si diresse verso lo scranno che dominava la sala.
Sedutosi, batté impaziente il bastone sul pavimento per richiamare la mia attenzione e mi ingiunse: “racconta”. “Reverendo Padre” iniziai, “come sapete la peste già da due anni avanza portando morte.” “Sì, questo lo so” rispose “ma della tua indagine cosa mi dici?” “Come mi avete chiesto” iniziai,” ho trovato il borgo dove dicono la peste non alligni. Intorno i villaggi e le campagne sono stati percossi dal castigo divino, ma lì non vi è morte. Vi racconterò i dettagli. Ora sappiate che il prete del borgo mi ha confermato che malgrado la scarsa fede e la vita peccaminosa e il poco rispetto per la Santa Madre Chiesa, gli abitanti godono di buona salute.”
Il padre priore si fece attento. Continuai pesando le parole “Il prete mi ha raccontato di un uomo e della sua compagna che con suggerimenti hanno evitato il diffondersi della epidemia. Il prete del borgo che avevo incontrato l’anno prima al pellegrinaggio di santa Agata, ritiene sia un negromante e la donna la sua strega, ma i villici dicono essere persona gentile e sapiente nelle cure mediche. Già da anni e prima della pestilenza con erbe mediche e pomate e infusi curava le loro malattie. Richiesti se questo uomo avesse chiesto di commettere atti sacrileghi o rinnegare Cristo, i villici, hanno risposto che no, anzi che era in buoni rapporti col prete, curando che venisse data l’estrema unzione a coloro che non aveva guarito. Mi sono annotato i suoi consigli contro la peste.”
“Padre Germano” il priore puntò il bastone verso la porta che, leggermente socchiusa lasciava intravedere un paio di sandali. “Se avete da commentare, prego non state nell’ombra come un ladro, ma venite avanti e dite la vostra opinione”. Padre Germano alto, magro, barbuto e con gli occhi da folle, iniziò a inveire “Ma che storie sono? Nessuno può curare il morbo. Questa è la giusta punizione per i nostri peccati e per essi tutti dovremo morire. Chi si oppone o crede nei rimedi terreni è contro Dio e di per sé eretico.”
“Padre Germano, ascoltate” rispose il priore “potreste avere ragione, ma ora andate. Curare i malati è opera di misericordia e io vedo che muoiono i peccatori e anche i santi”. Padre Germano prima di uscire si girò verso di me e sibilò:” Anche tu, peccatore che ti diletti di scrivere e copiare testi di lussuria invece di dedicarti solo ai Vangeli, morirai e la tua carne sarà putrida come la tua anima. Saranno cibo per le bestie e Satana.”
Padre Germano chiuse la porta e sentimmo i passi allontanarsi.
Vedendomi sconvolto, il priore mi disse di non preoccuparmi, che padre Germano era un esagitato e che a parer suo aveva frequentato troppi eretici. Non feci commenti e raccontai in quanto avevo appreso.
Descrissi dapprima la natura dei luoghi. Dall’alto del monte una cascata dava origine a un profondo e tumultuoso ruscello che si era scavato un profondo alveo. Questo ruscello ribollente di limpide acque, facendo una curva scorreva in basso alla collina parallelo alla vecchia strada romana diventando fiume. Alla sinistra della cascata, una foresta cupa e densa di alberi si inerpicava verso i monti. Alla destra, circondato da pascoli dolcemente digradanti, si ergeva il borgo.
Un ponticello di legno, proprio sotto la cascata, collegava il borgo con la foresta, mentre un sentiero con ampie curve digradava dal borgo al ponte in pietra. Opera anche lui degli antichi romani. Ponte che si collegava alla strada.
“Parlami della gente!” mi interruppe il padre priore. Gli risposi che potevo dire poco, quasi niente. Stimavo in cento case la grandezza del borgo. Con due chiese e un piccolo oratorio nascosto nel folto del bosco. Una torre era stata costruita sul ponte, chiudendo così con un cancello in ferro la strada che portava dal ponte alla strada romana. Se, non veniva aperto, non si poteva varcare il ponte. Mi venne rifiutato l’ingresso a e alle mie proteste mi venne risposto di aspettare, che avrebbero chiamato il prete. Mi venne indicato di attendere presso un gruppo di costruzioni, da dove un uomo di carnagione scura, mi contemplò senza parlare. Finalmente arrivò il prete. Un omino sparuto che mi parlò attraverso il cancello, ingiungendomi per prima cosa di stare lontano almeno cinquanta passi. “Per via della peste” aggiunse. “Non è arrivata e non la vogliamo.”
Osservai che non avevo visto nessuna cappella e nemmeno una croce a protezione della strada.
“A cosa serve?” Mi rispose il prete segnandosi. “Qui metà della gente è albigese o bogomila e l’altra metà è pagana. Chiedono protezione agli spiriti dei boschi e non alla Chiesa”. Gli chiesi allora come agisse. Sorrise amaramente dicendo che pregava in una chiesa vuota e cercava di farsi amare. Chiesi se avesse avuto aiuto dai confratelli e mi rispose che l’ultima visita di religiosi, benché accompagnati da guardie, si era risolto con un massacro e i corpi erano stati gettati nel fiume. In ogni caso ora avevano costruito la torre sul ponte e l’ingresso al borgo era vietato agli stranieri.
Gli esposi il vostro desiderio su come evitare la peste e che questa richiesta era fatta in nome dell’amore per il Cristo e che avevate timore che se la peste fosse arrivata, morti i monaci, il tesoro di libri del convento sarebbe andato perso. Il prete mi disse che il Vecchio e la sua aiutante avevano organizzato la protezione del borgo e preparato le medicine in caso di arrivo del morbo. Chiesi di parlare col Vecchio ma ottenni un diniego. Allora come da vostra istruzione gli dissi che forse il mio priore conosceva il Vecchio e io avevo una prova da consegnare per il riconoscimento. Pensavo di dargliela così mi avvicinai al cancello e gli tesi quella sottile cintura nera attaccata a una scatoletta, che mi avevate dato.
Il prete mi sembra recitasse una orazione poi disse di consegnare la cintura a Ghiorghian che era l’uomo moro che avevo visto.
Questi mi disse di gettare la cintura nell’erba da cui la raccolse con un forcone per gettarla in un grosso pentolone posto sopra un fuoco. Sentivo il borbottio dell’acqua che si scaldava. Avevo timore che distruggesse la cintura, ma non osai parlare. Questo Ghiorghian buttò nell’acqua una manciata di polvere gialla che dall’odore capii essere zolfo e un cucchiaio di sale. Lasciò bollire tutto per il tempo di un Pater Noster immergendo anche il forcone nell’acqua bollente. Poi sempre usando il forcone, mise il cinturino in un paniere e lo portò al cancello.
Notai allora che il cancello sino alla altezza della pancia di una persona non aveva aperture. ‘Non ci passerebbe neppure un topo’ pensai. Invece da una finestrella venne calata una fune a cui venne legato il paniere contenente la scatolina e il cinturino. Il prete disse di attendere che sarebbe andato dal Vecchio per chiedere un incontro. Era passata da poco il mezzogiorno e sarebbe stato di ritorno al mattino seguente. Avrei potuto dormire presso Ghiorghian. “Armeno ma cristiano” aggiunse.
Al mattino seguente, il prete mi portò la risposta. Sì, il Vecchio aveva riconosciuto il segno. Sì, potevo vederlo ma avrei dovuto fare la quarantena e sottopormi alle purificazioni. Potevo dimorare nelle case dell’armeno, e a lui obbedire. Il cibo mi sarebbe stato portato dal borgo.
Per sei settimane fui alloggiato in una capanna. Fortunatamente fu un mese di giugno asciutto.
Il mio solo compagno fu un muratore proveniente da Orléans. Aveva sentito della pestilenza in arrivo e saputo che il borgo voleva erigere un muro a protezione, si era presentato. Qui prima di farlo entrare lo avevano messo in quarantena. Quella sera, Ghiorghian l’armeno, mi istruì sulla quarantena.
Dovevo tenere pulita la capanna. I rifiuti di cibo o altro dovevano essere portati alla grande fossa. Per i bisogni era da usare la grande latrina. Le feci e le urine grazie a un canale che prendeva acqua dal ruscello a monte del ponte, venivano scaricate nel fiume a valle del ponte. Anche i rifiuti del borgo grazie a un canale finivano nel fiume a valle del ponte. Anche altre cose aveva stabilito il Vecchio. Proseguì a illustrare Ghiorghian. Il muratore intervenne dicendo che dapprima si era ribellato, ma riflettendo (sic dixit) le aveva trovate giuste. Ogni giorno dovevamo lavarci sotto un getto di acqua che un tubo di legno che grazie a una noria a tazza che la prelevava dal l’acqua fiume prima del ponte . Ci venne dato un pezzo di sapone duro che puzzava di zolfo.
Una volta alla settimana dovevamo immergerci in una fossa riempita di acqua bollente in cui Ghiorghian gettava un pugno di zolfo e una manciata di foglie di menta e degli spicchi di aglio. Lavarci bene immergendoci più volte con il corpo e anche con la testa. Inoltre, dovevamo prima di entrare nella fossa raderci completamente.
Nel frattempo, i nostri abiti che dovevamo lavare giornalmente, venivano avvolti in una rete e bolliti in acqua con zolfo. Mi ero risentito di questi rituali che avevo definito quasi stregoneschi. Ghiorghian mi fece bere un vino molto forte a cui aggiunse una goccia di spirito di vita (ipse dixit) e quando mi calmai spiegò che erano misure contro la peste. Egli stesso ne era stato malato e il Vecchio con le sue cure gli aveva salvato la vita. Nel suo paese, sostenne, la peste era conosciuta da moltissimi anni ed era mortifera. Lui venne abbandonato infetto dal suo padrone arabo presso Aleppo e sarebbe sicuramente morto se mosso a pietà il Vecchio che passava di lì con una carovana non lo avesse curato. Mi mostrò le cicatrici dove il Vecchio aveva inciso i bubboni. Perciò lo aveva seguito e ora su suo ordine controllava chi arrivasse. Risposi che a parte lavarsi, ci avrebbe protetto la Divina Provvidenza e che però non avevo visto nemmeno una croce. “Si” rispose “ma neppure un topo”. Mi resi conto che nel campo erano collocate moltissime trappole per topi e che moltissimi gatti circolavano anche nei prati vicini. Ghiorghian mi raccontò quello che sapeva sulla peste e che io riporto qui. Sostiene che la peste non dipende da congiunzioni di pianeti o fumi pestilenziali o malefici. Nel suo paese sanno che la malattia si diffonde dove ci sono topi. Le loro pulci saltano sugli uomini e li infettano e poi gli uomini si infettano l’un l’altro. Le pulci seguono le carovane e nascoste nei tessuti mordono gli uomini. Ma prima uccidono i topi. Per questo i nomadi quando vedono dei topi morti, abbandonano subito il posto e fuggono lontano. Per questo il Vecchio fa fare quarantena e lavaggi, per uccidere le pulci.
Dopo 40 giorni, potei varcare il cancello. Mi attendeva una donna non giovane, grande e di nobile aspetto.
Quando mi posò la mano sulla spalla mi ritrassi. “Non sono una strega ma la compagna del Vecchio” disse sorridendo. Mi ingiunse di seguirla badando però a camminare solo sul sentiero. Il sentiero era bordato da erbe profumate mescolate a piante di aglio. Spiegò che serviva a tenere lontano insetti, vermi e pulci o zecche.
Passai il ponticello e seguii la donna su una lunga scalinata che portava verso un fitto bosco. Vagammo per il bosco il tempo di due rosari, poi arrivammo ad una radura in cui una casa a due piani in legno si offriva alla vista. Un uomo anziano mi accolse. “sono il Vecchio” disse indicandosi e mi invitò a sedere.
La donna ci portò del vino e pane. Porgendomi la coppa e il piatto, il vecchio sussurrò qualcosa in una lingua che non compresi. Dopo che ebbi bevuto e sbocconcellato del pane, mi invitò a sedere e raccontare lo scopo del mio viaggio.
Gli parlai delle vostre richieste e delle vostre preoccupazioni e sfacciatamente, D-o mi perdoni, lo pregai di chiarirmi cosa avvenisse nel borgo.
Il Vecchio mi disse che mi sarei fermato per la notte lì e sarei ripartito al mattino, sì d’ avere tempo per ascoltare. Visto che avevo con me calamaio e penna, mi invitò a trascrivere quanto diceva.
Mi disse di essere giudeo di nome Abramo nato ad Aleppo e poi aver vissuto in Spagna e Francia ed essersi ritiratosi in questo luogo per sfuggire alla cattiveria degli uomini. Sul cinturino che mi avevate dato da consegnare, mi racconto questa storia. Erano di un tephillim, cassetta di legno che i giudei fissano al braccio con un cinturino per dire le orazioni. Molto tempo prima, raccontò il Vecchio, era servito a salvare una vita. Vidi che il Vecchio voleva raccontare. Con gli occhi gli feci cenno di proseguire. Mi disse che durante la crociata del 1319 contro Granada la Mora, un giovane cavaliere aveva salvato sua moglie dalla violenza e per punizione i militi spagnoli gli avevano squarciato la gamba. Lo aveva salvato. Stava pregando, così tolto il tephillim del braccio, aveva stretto la coscia col cinturino per fermare l’emorragia. Gli aveva avvolto il manto da preghiera intorno alla gamba ferita, poi essendo medico, gli aveva dato succo di oppio e ricucito lo squarcio con il grossolano filo che usava la moglie per cucire. Aveva regalato il cinturino al cavaliere dicendogli che se avesse in futuro avuto bisogno di lui, glielo mandasse.
Gli risposi che adesso capivo perché voi padre priore zoppicavate e avevate in astio i crociati.
Gli ripetei che volevate delle medicine contro la peste in arrivo perché temevate per i nostri corpi ma anche per la distruzione della biblioteca. Abramo rispose che chi salva un libro salva il mondo. E mi istruì.
“Devi sapere” iniziò “che dove sono nato, la peste è frequente ma i nostri corpi sono abituati e perciò è meno mortale, ma per voi è morte sicura.”
“Vedi questo borgo che mi ha accolto e che ha deciso di seguire i miei consigli per difendersi dal morbo?”
“Ho fatto costruire delle fogne così i liquami vanno diretti al fiume, ho fatto fare fossi per i rifiuti che vengono coperti di calce e poi bruciati. L’acqua pulita arriva alla fontana tramite un canale all’uso romano che la preleva alla cascata. Una volta alla settimana, il venerdì, come usiamo noi giudei, li faccio lavare tutti con acqua della fontana e con sapone di zolfo. Gli abiti li faccio lavare in acqua bollente con zolfo. Questo per uccidere pidocchi e pulci. Perché sono questi che con il loro morso diffondono la peste. Siccome le strade del borgo scendono verso il fiume, faccio portare l’acqua con zolfo al sommo e poi la faccio scorrere verso il fiume. Le pulci le portano i topi. Per questo siamo sempre a caccia per ucciderli. Hai visto quanti gatti abbiamo? Almeno uno per casa. Il topo morto lo raccogliamo con un forcone dal lungo manico e lo buttiamo in un bidone di latte di calce. Poi lo bruciamo. Importante stare lontani. Se qualcuno è sospettato di essere infetto, seguendo quello che dice la Bibbia, valutiamo le sue ulcere e lo mandiamo nella casa dell’isolamento, quella che sta prima del ponte.
Se le ulcere dopo quattordici giorni sono scomparse, lo riammettiamo nel borgo. Così si evita il contagio.” Annotai tutto con cura.
Rilevai che questo era per evitare il contagio, “ma se uno si ammalava cosa fare?” chiesi.
Sorrise. “Secondo alcuni dei vostri preti” disse “dovreste confessarvi, pregare, e attendere l’inevitabile castigo di Dio”. “Ma”, soggiunse “se non sbaglio il vostro messia vi ha imposto di curare gli infermi.”
“Domani mattina ti farò vedere quali medicine e rimedi possono essere utili”. Era calata la sera e abbiamo pregato ognuno nella sua fede e poi cenato. Dopo cena raccontò della Siria e di Aleppo dove è nato e come è arrivato in Spagna. Un bicchiere di vino fu il viatico per un buon sonno.
Al mattino seguente mi svegliò per farmi assistere alla pulizia di un bubbone. “Non è di peste, ma la cura è la stessa. Si apre e pulisce e spesso si guarisce. Importante mai toccarlo e meno che mai toccare il pus.”
Fece portare dalla donna due catini. In un pieno di acqua bollente versò sale e zolfo, l’altro era pieno di latte di calce. In quello pieno di acqua bollente mise delle lame di ferro. Il contadino aveva un bubbone enorme all’ascella e si lamentava fortemente. Abramo lo fece spogliare e si assicurò che fosse stato lavato e rasato intorno al bubbone. Poi mi disse che gli dava una bevanda per addormentarlo e non fargli sentire dolore. Aveva mescolato succo di mandragora cinque gocce, un cucchiaio di decotto di malva, un cucchiaio di decotto di foglie di salice, un cucchiaio di succo di papavero, con un bicchiere di vino.
Stese il malato sul tavolo e messosi dei guanti di una stoffa sottile, seta penso, bagnati di acqua di vita, intinse un pennello nel latte di calce e spennellò un punto del bubbone. “A lungo” disse “finché la pelle diventa lucida ed è pronta a rompersi”. Prese un ferro dal catino, ne sfregò la punta con l’acqua di vita e la passò sulla brace. Poi incise, avvicinata una ciotola al bubbone face sì che il pus colasse nella ciotola. Prese un altro ferro e fece alcuni tagli sul bubbone finché non colò anche sangue fresco. Allora prese una manciata di muschio, la intinse nell’acqua in cui riposavano i ferri è pulì la ferita. La donna gli porse un piccolo quadrato di pelle di rospo e delle foglie di salice e della muffa verde da una mela. Lui coprì la ferita con l’impacco di foglie e muffa tenuto fermo da una striscia di tessuto. Ecco come si fa, disse per i bubboni. Ebbe pietà e visto che non riuscivo a scrivere ordinatamente tutti i rimedi, mi preparò la descrizione per voi che allego alla storia. Mi ricordo che aveva elogiato le virtù del decotto di foglie di salice che propriamente preparato poteva curare quasi tutto.
Ci salutammo e la donna mi riaccompagnò al ponte. Qui mi fecero uscire e ripresi il cammino verso il convento.
Notai che c’erano veramente tanti gatti. Ecco reverendo priore, questo è il racconto del mio viaggio che ho debitamente messo in scritto. Ecco la distinta delle medicine compilata dal Vecchio, e questo rosario che gli avevate donato e che lui vi restituisce perché ora ne avete più bisogno voi.”
Come ho già detto, Padre Germano nascosto dietro la porta ci aveva spiato. Poi era intervenuto e inveito contro noi. Quindi se ne era andato infuriato.
Il padre priore contento per quanto avevo fatto mi permise di andare a visitare la mia vecchia zia a un giorno di viaggio dal convento. Avevo deciso di prendermi una settimana per stare con lei, ma voci che parlavano dell’avvicinarsi della pestilenza mi indussero ad anticipare il rientro. Quando arrivai al convento, incontrai il padre custode che con una sporta in spalla usciva dal portone. Con le lacrime agli occhi, mi mise al corrente degli avvenimenti.
Padre Germano, quel fanatico, aveva ottenuto un mandato scritto dal papa che autorizzava la rimozione del nostro priore per sospetta eresia. Autorizzava anche la eliminazione di tutti i libri salvo i Vangeli, breviari e opere dei Padri dalla nostra biblioteca. Ordinava la distruzione del mio resoconto in quanto i rimedi erano forniti da un negromante giudeo e dalla sua strega. Per questi si dava incarico a padre Germano, nuovo priore, di cercarli e portarli di fronte alla Inquisizione. Il convento avrebbe combattuto contro la pestilenza con la forza della preghiera e Dio avrebbe deciso chi dovesse morire. “Vai via!” Mi disse il padre guardiano, “ti aspettano per portarti di fronte all’Inquisizione.”
Così, ora vivo nascosto nelle montagne della Savoia. Ho barattato il saio per una veste di pastore e cerco di ricordarmi quali cure mi aveva spiegato Abramo. Se non posso guarire gli ammalati almeno regalo loro l’illusione di essere curati. Il vecchio e la bimba che mi aveva presentato come nipote, mi guardarono con occhi tristi. Erano fuggiti per sottrarsi alla pestilenza.
Mi rivolsi al confratello che me li aveva portati: “questa è tutta la mia storia fratello Mattia. Che il Signore vi protegga. Ora dormite che domani all’alba dovrete partire.”

giovedì 23 febbraio 2023

Una storia d'amore

Una pagina di The Dream of The Road
 Una storia d'amore

La mia relazione con il Medioevo iniziò quando ero all’incirca a metà della terza media. Feci la sua prima conoscenza dopo che la mia compagna di banco, per dimostrare ai professori quanto era brava e volenterosa, si imparò a memoria per filo e per segno la traduzione italiana del poemetto The Dream of The Rood. Per carità, non chiedetemi dove l’avesse trovato. Credeva che fosse una specie di Divina Commedia inglese, ma le fu presto chiaro che non lo avremmo mai studiato in nessuna materia, che non le sarebbe servito con nessun professore e che non poteva nemmeno scriverci sopra la tesina. Così non trovò niente di meglio da fare che ricopiarlo sul mio diario durante un’ora buca.
Anche a me fu subito chiaro che era un poema pesante, ripetitivo, antiquato e sconosciuto ai più. Ma io avevo un carattere diverso: per me, questa era un’opportunità. Il testo medievale divenne il mio rifugio: una poesia scritta per me, che solo io conoscevo, che solo io potevo leggere e rileggere. Un mio mondo inaccessibile dove rifugiarmi, e dove sognare. Sognavo di vedere anch’io una strana croce e di sedermi ad ascoltare la storia della sua vita (possibilmente un po’ più allegra, ma ugualmente ottimista), e di diventare la depositaria di grandi segreti della storia umana.
A partire da Il sogno della Croce, iniziai a frequentare il Medioevo. Ascoltai ogni lezione reperibile di Alessandro Barbero, guardai Vikings dal primo all’ultimo episodio, lessi voracemente Le cronache di fratello Cadfael, I pilastri della Terra e Il nome della rosa. Cercavo sul dizionario una parola su due, ma non importava. Il Medioevo era affascinante, avventuroso, poetico, vivace, sempre pieno di storie da raccontare, allo stesso tempo carico di sovrastrutture mentali e spontaneo come un bambino. I suoi gesti erano densi di affetto e di significato, le sue parole calibrate e potenti. Si sforzava di continuo di interpretare la realtà, ma ne era un fedelissimo osservatore. Era un grande idealista, sebbene spesso mancasse della praticità necessaria a compiere le sue imprese. Anzi, non era raro che fallisse negli obiettivi che si prefiggeva e che invece riuscisse in imprese grandiose che non riteneva nemmeno importanti. Nonostante un catastrofismo cronico che gli faceva credere di essere ormai alla fine del mondo, le sue azioni erano impregnate di iniziativa e vitalità. Nella sua bidimensionalità stilizzata, non gli mancavano mai né le vesti sgargianti, né i capelli dorati, né il sorriso semplice, né soprattutto le guance rosse.
Quando iniziai il liceo, eravamo arrivati a trascorrere più tempo insieme che separati. Passavamo pomeriggi a leggere in biblioteca, serate a guardare film e serie TV, fine settimana con gli amici ad assistere a festival, rievocazioni, spettacoli di sbandieratori e via dicendo. Era un idillio, un sogno bellissimo e soltanto mio, proprio come quello dell’anonimo narratore di Il sogno della Croce.
Finché non si ruppe. La prima crisi seria della nostra relazione avvenne quando partecipai a un concorso letterario a tema storico. Mi iscrissi con entusiasmo e senza pensarci due volte, accantonando per un attimo la gelosia che di solito mi rendeva assai riluttante ad esternare eccessivamente la mia travolgente passione (insomma, il sognatore non aveva ascoltato la Croce in mezzo a una folla di persone, no?). Tanto, si trattava solo di un racconto, e io ero anche bravina a scrivere. Eppure, quella volta mi bloccai. Ogni volta che mettevo in scena un nuovo personaggio – un cavaliere in partenza per la Crociata, un mercante alla ricerca di identità, un vassallo che presta omaggio a più signori, un laico che impara a leggere – mi chiedevo: ma avrebbero davvero pensato questo? Avrebbero agito proprio così? Questo dettaglio appartiene alla mia vita o alla loro? Non starò forse mettendo le mie idee nella loro testa? Avevo creduto di conoscere il Medioevo a un livello di grande intimità, ma mi sbagliavo. C’erano molte cose che non sapevo. E se mi avesse nascosto qualcosa? E se la Croce avesse rivelato la sua vera vita a qualcuno che non ero io? Questo dubbio mi riempiva di angoscia.
Ma non è forse vero che in ogni vita e in ogni storia, d’amore e non d’amore, ciò che non uccide fortifica? Nel frattempo ero cresciuta, e potevo permettermi di approfondire a un livello più serio. Passai ad autori come Huizinga, Bloch, Le Goff, Pastoureau, Cardini, Frugoni. Pur senza abbandonare le rievocazioni (mai!) e le rivisitazioni trash e poco fedeli per il grande e il piccolo schermo (anche quelle, come farne a meno?), aggiunsi qualche gita ad abbazie, musei, borghi, cattedrali. E piano piano imparai ad accettare che il Medioevo era sì un’epoca di crociate, eresie, economie viziose e inquinamento olfattivo, ma a parte questo aveva anche… dei difetti. Più che difetti, anzi, erano veri e propri squilibri mentali. Ad esempio, perché diavolo aborriva l’accostamento del verde e del giallo? Perché la sua emotività era così sregolata? Dove pensava che stesse l’utilità di scomunicare in massa le cavallette? Inoltre, si credeva di essere al centro dell’universo ed era pieno zeppo di pregiudizi. Memorabile poi la storia dell’ascia e della sega: secondo lui, l’ascia è uno strumento buono perché attacca direttamente, agisce con la forza, è maschio; la sega invece gioca d’astuzia, come le donne, e nella sua lentezza ruba il tempo che è proprietà di Dio. Assurdo ragionatore e maledetto maschilista! E io che pensavo che almeno un po’ di rispetto per me in quanto donna lo nutrisse… Invece, sentite cosa fa affermare a Dante nel De vulgari eloquentia (parafraso): chi è stato il primo a parlare? Secondo la Bibbia (fonte già discutibile, ma passi), Eva. Ma Eva era una donna, quindi per forza è stato Adamo!
Sì, faceva ridere… ma questa in fondo è una grande qualità in un partner.
Lo amavo sempre di più.
Dopo il liceo, con grande sorpresa di tutti gli amici, parenti e conoscenti, non mi iscrissi a storia. A me invece non stupiva affatto: va bene che il nostro amore era solido, ma portare il Medioevo in una facoltà piena di spasimanti era una zappata sui piedi. Io, pur godendo anche dei momenti di compagnia, ricercavo sempre l’intimità del sogno: ero convinta che i segreti fossero svelati solo a un poeta in ascolto, nel silenzio. Il Medioevo era il mio mondo, mio e soltanto mio, fin da quell’ora buca della terza media. Per di più, il Medioevo era troppo, troppo vivo per me per poter accettare di confinarlo in un’aula. Così mi immatricolai a Beni Culturali, in modo da tenerlo comunque sempre in vista.
Fu una scelta che si dimostrò non solo azzeccata, ma anche in perfetta sintonia con i progetti del Medioevo per il futuro. Infatti un giorno – in faccia a tutti coloro che pensavano che il mio fosse un amore non troppo corrisposto – il Medioevo mi propose il matrimonio.
Avvenne per bocca di un frate. A quel tempo avevo iniziato a frequentare la chiesa di San Francesco, da poco restaurata. Era un gioiellino gotico aperto solo durante le funzioni religiose, e per questo non me ne perdevo una. Mentre tutti gli astanti mi scambiavano per una ragazza pia e devota, io studiavo attentamente ogni singolo mattone. Studiavo con gli occhi quando ero là, e studiavo a casa su guide e opuscoli. Studiai così tanto che la mia passione traboccò da me, esondando dagli occhi, dai gesti, perfino dai capelli quando non la lasciavo uscire dalla bocca, finché una domenica mattina, finita la Messa, un frate di cui ormai avevo fatto conoscenza non mi abbordò e mi disse: «A breve apriremo la chiesa al turismo e cerchiamo guide volontarie. So che studi Beni Culturali, ti andrebbe?»
Risposi di sì.
Il frate mi donò un anello col rosario.
Il matrimonio cambiò tutto, perché un matrimonio sterile e chiuso in se stesso è come un affresco imbiancato, come un castello disabitato, come un sogno al risveglio se non viene raccontato. Mi ero preparata per spiegare ai visitatori l’evoluzione nel tempo della chiesa, i vari artisti che dedicarono agli affreschi le loro mani anonime, i principi architettonici che reggevano la struttura. Ma una parte di me voleva solo dire loro: «Chi ha iniziato quest’opera sapeva che non l’avrebbe vista finita. Ma si è fidato delle generazioni future, e ha iniziato un progetto più grande di se stesso»; e ancora: «Chi ha costruito questa chiesa non era un architetto, era una comunità. C’era chi progettava, chi finanziava, chi solo sbozzava le pietre, ma tutti partecipavano»; «Considerate la pazienza di chi ha posto mattone su mattone, ed è arrivato fin qui»; «Osservate i contrafforti, quanto sono possenti: quanto valore dato alla materia, al lavoro dell’uomo, portato qui, offerto a Dio come strumento di riscatto!». Volevo far respirare loro la spiritualità nell’aria, far vivere loro il percorso dal buio alla luce avanzando verso l’altare, volevo che leggessero le figurine degli affreschi come una lingua, e che si facessero raccontare…
Dovetti ammetterlo: desideravo che ciascun visitatore diventasse un poeta-sognatore e ascoltasse dalla Croce la propria storia. Altrimenti, la mia guida non avrebbe avuto un senso.
Divisa tra quel fortissimo istinto all’apertura e la mia solita gelosia, quella sera rilessi Il sogno della Croce. E alla fine trovai:

“Ed ora ti ingiungo, o mio caro,
che tu racconti questa visione ai mortali,
che tu riveli con le parole che questo è l’Albero della Gloria
su cui Iddio onnipotente soffrì
per i molteplici peccati degli uomini
e per l’antica azione di Adamo”.

Non ebbi più dubbi. Fino ad allora avevo sempre trascurato quella parte, tutta presa dal fatto che mi (lo) stesse chiamando “mio caro”. In quel momento però non lessi altro che l’invito, l’ingiunzione. Avvenne con estrema naturalezza. Tutto cambiò, e tutto rimase uguale. Fu come quando un tintore estrae un tessuto dal suo calderone maleodorante, e quello in un attimo muta colore. Una magia, sì.
Quel volontariato divenne un lavoro. Dall’unione fra me e il Medioevo nacquero innumerevoli nuovi appassionati. La condivisione riesumava nuove storie, e le storie creavano nuova condivisione. Conseguii ogni sorta di brevetto da guida in ogni singola regione. Continuai ad accompagnare visitatori e turisti, poi classi, scuole, club, gruppi di stranieri, perfino gente proveniente da luoghi che in una mappa T-O avrebbero dovuto trovarsi nell’altra pagina.
Quando infine andai in pensione, sapevo che non avrei mai conosciuto del tutto il Medioevo. Però avevo la certezza non solo di amarlo, ma anche che lui non mi avrebbe mai abbandonata. Perché era dovunque: nelle fondamenta delle case e nelle costellazioni, nel patrimonio culturale e in quello genetico, nella guerra e nell’amore, nelle bandiere e nelle staffe, nella puzza di letame e nel profumo del pane.

di Akeesandra Visioli
 
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Racconto partecipante alla diciassetesima di © Philobiblon (2022)