giovedì 3 febbraio 2011

Giric, l'erede

“Vi fu una volta un cavaliero 
D’ alta casta e di gran core
Sanza mèta che insieme un finto scudiero,
Giunse in una città tutta spaurita
Che era entro di sé inaridita e oltraggiata
Chi fu allora il complice di tale sorte?
Disse con l’ardor che la giustizia move..”
Non c’è mai stato un motivo per cui una persona non debba aiutarne  un'altra Era solito dire nelle sue mille avventure …
Si è sempre detto che essere cavalieri è una condizione, è un titolo, un rango, è ricchezza ed onore. Nel senso profondo del termine essere cavalieri è tutt’altro, è una scelta di vita. È il momento in cui decidi dove schierarti e come farlo. Il resto è solo vagabondare tra terre lontane in seno all’avventura. Nessun cavaliere ha una mèta; i cavalieri che si sono accasati e sposati, divenuti poi conti impalmando dame di gran classe, non sono mai riusciti a carpire il ruolo di veri cavalieri. La vera essenza, la vera natura di un guerriero è essere libero. Nessuno di loro ha una mèta definita.  L’obiettivo comune è di temprare il loro spirito.
Giric era, invece, alla ricerca di un obiettivo proprio:  la pace del suo regno ed essere libero. Ci sono dei figli sulle cui, proprie, spalle gravano gli errori dei loro padri; altri, invece, accettano qualsiasi cosa il destino gli porga; altri ancora fanno tesoro delle proprie cose. Giric era un principe, anche se si era sempre considerato solo un cavaliere. Suo padre era il re di Parkoz un piccolo paese confinante con altri stati ben più grandi e sotto continue congiure.
A Parkoz vivevano belle donne, era un paese molto ricco e prospero e soprattutto regnava la pace.
Questo è quello che si diceva a corte almeno…
La verità era che il paese si trovava in preda ad una grossa rivolta, i contadini non riuscivano a mangiare e la gente stava morendo lentamente, deperita.
Seguendo la propria indole ed erigendosi forte della sua giusta causa, Giric partì per le terre di confine dove le rivolte erano in corso, facendosi carico della tristezza della gente.
Giunse a BretonVille, la città più importante tra le terre di confine. Le terre erano devastate, così aride che nemmeno le lucertole spaziavano in tale desolazione.. In quel momento  un ricordo della sua infanzia gli assalì  il pensiero, mentre correva tra i giardini e le bancarelle di Barbara la capitale di Parkoz, dove è il palazzo reale, mentre la tata lo chiamava:
“Principe Girc, vi prenderete un accidenti continuando a sguazzare nelle fontane d’inverno, allora il re mi caccerà da palazzo”.
Il ricordo scomparve in un attimo, come una fulgida luce, come un passo di un cavallo al galoppo. Al suo posto torno l’orrore di una città in rovina.
Il principe Girc decise di intraprendere la sua missione  da solo; ma, in realtà, solo non era, aveva uno scudiero, sempre propenso a  non fare le proprie faccende, egli era solito chiamarlo Sgua. Nel suo pellegrinare lo aveva raccolto e salvato dalla fame, dopo che non si ebbe più notizia della sua famiglia in seno ad un attacco dei predoni, Sgua vide in Girc una guida. Egli gli promise che avrebbe ritrovato la sua famiglia; vagando per il paese con lui c’erano più possibilità.
“Dove ci meniamo Girc, che io non reggo più?”.
Sgua non sapeva che Girc era un nobile principe e che aveva abitato a Barbara quasi la sua intera vita tra i lussi più sfrenati.
“Ante ogni cosa, bisogna riposare cambiare aria  e trovare da mangiare”.
“Veggo una casa. Andiamo a cercare Ospitalita”.
Lungo il viale dei pini c’era una piccola casa di legno, il principe Girc decise di sceglierla per la notte.
“Sento odore di letame invece che salmastro  odore di pini. Che diavolo, sono tutti secchi, neanche boni per le pigne!”.
“Ci siete sopra al letame Sgua! Impara a menare  li piedi in posti migliori”.
Picchiarono sull’uscio, dopo aver insistito un bel po’ aprì loro la porta una giovane donna, i suoi occhi erano azzurri, era vestita di verde e aveva un fermaglio tra i capelli fatto di rose…
“Chi vu siete Foresta?”.
 “Mi chiamo Girc cerco un posto per la notte e da mangiare”.
“Mi piacerebbe calmare gli spiriti delle vostre budella ma qui non ci si ha da sostentarsi, c’e poco da spendere e da mangiare, mio padre è là nel letto e ne muore.. Ha bisogno di mangiare… Non ce la fa più non potrà resistere per molto”.
Girc aveva sempre avuto un cuore sensibile. In quel momento vide le lacrime scrivere il volto della pulzella. Sentì un impeto, sbatté contro la porta e si recò nelle altre stanze. Lì vide con i suoi occhi la condizione della gente di Breton Ville,
“Parkoz è questo il tuo volto più veritiero?”. Dopo averlo fissato per pochi secondi chiese al vecchio il suo nome ed egli  rispose: “Il nome, l’’ultima cosa che ci è rimasta ma non ne abbiamo il diritto, siamo solo dei numeri per poter pagare le tasse e produrre e poi morire di fame, mentre il Re Ducan ci sfrutta e ci usa come degli stracci. Chiamami Cinqua, che è il nomigliolo dei miei cinquant’anni”. Girc si chiese come mai il vecchio dicesse quelle parole e cosa avrebbe pensato se avesse rivelato la sua identità di principe ereditario, un giorno re che avrebbe amministrato dal palazzo reale di Barbara l’intero regno. Giric era stato mandato in quelle terre proprio perché erano anni che il re non percepiva un centesimo, chiedendosi se fossero ancora abitate. “Ehi vecchio, stareste  meglio se mangiaste qualcosa?” Il vecchio non rispose mentre sua figlia ormai era completamente persa tra le lacrime; la luce della speranza aveva illuminato quella casa e loro ancora non lo sapevano.
“Sguà, muovete il vostro deretano in fretta, andate a prendere la borsa della spesa sul cavallo”. Sgua non replicò e portò una sacca con alcuni formaggi, pani e verdure. “Mangiate vecchio, poi mi saprete raccontare di più sulla situazione e sul vostro re”. Il vecchio cominciò a mangiare con le lacrime agli occhi, come se fosse caduto il cielo in petto al mondo, come se si fosse ripreso la vita dopo la morte, una sensazione che solo un uomo affamato può provare, anche la figlia prese a sostentarsi tra le lacrime, le lacrime di contentezza di chi non sarebbe rimasto più solo. Gli unici a non mangiare furono loro, del resto ne erano consapevoli, la loro vita era anche questo.
Tra i ringraziamenti di cuore, Girc e Sgua, il fetente scudiero, rimasero a dormire in quella casa dopo aver fatto del pavimento il loro giaciglio. Quella notte il vecchio si alzò, per svegliare il principe, circa dieci volte per dirgli grazie, finché lui non lo ebbe cacciato dopo una giustificata scocciatura.
L’indomani Girc ed il suo scudiero vollero fare un giro per il paese per scorgere la situazione più da vicino, per sentire il respiro affannoso della gente.
Fu strano, ogni persona denutrita, disperata ed impaurita che viveva in quel paese non faceva altro che lamentarsi per aver pagato le tasse. Chi non contribuiva alle finanze dello stato veniva recluso e privato di tutti i suoi beni, che venivano venduti ai signori oltre il confine.
Gli venne spontaneo chiedere, con la giustificazione che solo una persona che si pone una retta domanda può: “Popolani, a chi pagate le tasse? Chi si occupa di amministrare il tesoro, quale tesoro? ”. I popolani risposero: “Il governatore Moro.”. Fu una strana notizia, le casse del regno dovevano essere amministrate da gente che aveva un legame stretto con il re, gente che era di sangue reale. Realizzò dunque che il sedicente governatore Moro fosse un impostore. Impostore da cacciare.
Era il suo dovere, il dovere di erede del regno dare la caccia al governatore e riappropriarsi di ciò che gli era proprio, non poteva comunque farlo sotto la sua vera identità di principe successore, da poiché i popolani credevano che la stirpe reale era colpevole di tale reato, doveva quindi inventare uno stratagemma per far cadere Moro senza rivelare nulla ai popolani. Considerando lo spessore della sua impresa capì che doveva ricorrere all’astuzia, non poteva avere contatti mandando a chiamare un esercito, atrocemente dubitando che suo padre glielo avrebbe concesso. Doveva avvalersi allora solo di sé, delle sue forze e di quelle di Sgua. Decise allora di valutare la situazione dall’interno e per questo doveva essere in qualche modo arrestato.
Giunto in centro al paese la fortuna fu dalla sua parte, gli scagnozzi di Moro, nonché l’esercito reale ai suoi ordini, gli imposero di pagare il pedaggio, questo volgeva a suo favore. Per un attimo pensò che se avesse svelato alle guardie reali la sua vera identità, avrebbe potuto concludere il piano più in là.
“Straniero, tutti i viandanti che pestano il suolo di Breton Ville, per ordine del re, devono pagare una tassa di pedaggio, per calcare le nostre sacre terre”.
“Messere, io non possiedo dineri, né so se una mia misera orma di giovane mortale valga alcunché o  quanto possa valere… posso dare qualcosa, in cambio, a voi che più vi serve, più consono alle vostre sacre terre”.
Girc prese la sua borraccia recante lo stemma reale e la svuotò per tutta la piazza, sugli alberi e dovunque la sua testa gli dicesse di farlo. Le persone attonite, con il volto stupito da tale nobile gesto, si inginocchiarono chinando la testa ed anche le guardie avevano compreso il suo agire. Era certo che quello straniero viandante non fosse una persona qualsiasi. Quella era la cosa di cui quella terra aveva più bisogno, l’acqua, la cosa più pregiata in un arido deserto quale si presentava Breton Ville.
“Se pensiate che siano i soldi la cosa  più preziosa che esta terra chieda, allora guardatela con gli occhi dei saggi e non con gli occhi dei ciechi., Avere gli occhi non significa riuscire a vedere, voi tutti non siete liberi, non riuscite nemmeno a dire il vostro nome, che cosa ve ne farete dei miei soldi? Atti a comprarvi  un nome novo? O esta dignità che voi non possedete?”.
Benché il suo discorso fosse commuovente, fu ad atto denigratorio e i  profeti non erano mai piaciuti a Breton Ville; non era come nelle strade di Barbara dove vigeva la libertà d’espressione e si accalcavano filosofi, frati intenti a predicare la fine del mondo ogni giorno. A Barbara si poteva tutto. Per quanta nobiltà d’animo la gente avesse, chi non pagava le tasse finiva in galera.
Giric venne steso. “Qui non ci sono mai piaciuti i profeti! La legge è uguale per tutti e tutti devono pagare, chi non paga non serve e può anche morire di fame in galera”.
Quando il principe ebbe il suo risveglio nelle segrete, la testa gli faceva un gran male ma finalmente poteva controllare la situazione dal di dentro, che risultò peggiore di quanto avesse creduto. Le urla che provenivano dalla sala delle torture erano dolenti per il suo cuore. La sua cella era piena gente, in quattro metri quadrati c’erano 8 persone, tra cui anche dei bambini e delle mamme, le vedove delle vittime di Moro.
“Oh, per tutte le strade piene di buche!”.
In quel momento pensò che doveva agire in fretta, tante altre persone si trovavano in quelle condizioni, se non peggio; allora, tra gli sguardi rassegnati di quelle anime ormai senza speranza, disse: “Quale è la prima cosa che fareste per non restare più in questo posto?”. La gente non fiatò, finché una madre, con la figlia in braccio ormai morente, disse: “Darei il cuore per lei”. Il principe rispose: “Presto le cose cambieranno, saremo tutti liberi e felici per quanto possiamo esserlo”. Chiaramente non bastavano le parole a convincere quei derelitti che la persona che si trovavano davanti li avrebbe liberati. Uscire di prigione per Giric è stato da sempre un gioco da ragazzi, suo padre lo aveva spesso punito mettendolo dentro e tutte le volte lo avevano ritrovato fuori dalle carceri a correre con Lampo, il suo destriero, per le praterie sconfinate di Barbara. Giric si mise a ridere con sfrontatezza, finché dal di fuori non si sentì chiamare da quell’incapace di Sgua.
“Finalmente siete arrivato! Voi siete lo scudiero più fannullone che un povero cavaliere come me possa mai avere avuto nella sua breve vita.”.
“Troppi complimenti, mi fate diventare rosso, Giric”.
“Dovete fare una cosa per me. Ricordatevi, tra due ore  tornate qui, in questo punto e accendete una miccia, la miccia che troverete.”.
“Quale miccia? Avete perso lo senno?”.
“No, perdo la pazienza con voi, voi insistete. Fate come ti dico e portate Lampo, dopo procurate di accendere la miccia che troverete, inoltre dovrete chiamare tutta la  popolazione con la promessa di darle  da mangiare”.
“Va bene, eseguo! Del resto noi facciamo questo, facciamo le cose impossibili.”. Chinò il capo, rassegnato a venire sempre spaventato dalle situazioni perigliose e disse: “Perché non sono lo scudiero di un bel principe ricco e biondo?” cosa che  gli costò uno sguardo truce da parte del suo compagno.
Con la promessa di un prossimo ritorno di Sgua, Girc decise di passare all’azione. Mise una mano negli stivali e ne tirò fuori un grosso gancio, che infilò nella serratura della porta aprendola. La gente era così stanca che non si accorse di nulla o forse era troppo rassegnata. Tentò di chiamarli. “Ehi, quando aprirò questa porta, siate veloci, uscite dalla cella e mettetevi in quell’angolo oscuro”. Le celle erano dei posti talmente tetri, che spesso la gente calpestava i propri bisogni senza rendersene conto; il fetore delle carceri era qualcosa di repellente. Il cigolio della porta attirò una delle due sentinelle, che si trovava vicino alla sala delle torture, mentre gli altri carcerati tremavano paurosamente nell’ombra. La guardia si avvicinò e chiese: “Dove sono tutti gli altri?” aveva un tono goliardico. La risposta non tardò ad arrivare, con fare regale e supponente: “Siete cieca stupida guardia, qui non c’è nessuno!”. Lo scagnozzo si protese per mettergli le mani addosso e per controllare dove fossero finiti, dato che la luce della torcia del soldato non copriva l’intera cella per scorgere con attenzione. Non appena la cancellata fu aperta la guardia fu aggirata. In pochi attimi di secondo la torcia venne spenta e venne usata per spezzargli il collo. Un particolare colpì il cavaliere in quel momento, sul braccio sinistro non era presente lo stemma della famiglia reale…
Nella sua mente affiorò un ricordo di quando, una volta finito l’addestramento a Barbara, nelle caserme di palazzo veniva di rito inciso il tatuaggio raffigurante lo stemma reale. Tutti i soldati provenivano dalla capitale, da poiché il paese era così piccolo che l’unico centro d’addestramento per le armi si trovava nella residenza del re Ducan, dove egli stesso era stato educato fin da quando aveva 6 anni, epoca in cui non riusciva nemmeno ad impugnare una spada in mano.
“Voi non muovetevi finché non ammazzo l’altra guardia”. Le persone che fin allora avevano solo subito, mostrarono nei loro occhi una luce di speranza.
Non fu difficile far fuori anche l’altro sgherro, che era impegnato a torturare i detenuti che si erano ribellati contro Moro. Quando le carceri furono ormai vuote e quindi accessibili, Giric condusse i prigionieri malconci in salvo… “Ora dovete nascondervi e rimanere in piazza fino all’alba, andate dove trovate più gente, non fate domande”. Tra mille ringraziamenti, il guerriero senza macchia decise di salire ai piani superiori dove vi erano i pezzi da novanta, tra cui il generale che lo aveva picchiato; le guardie non furono un problema. “Questi incapaci non riuscirebbero nemmeno a fare la guardia ad un ossicino” disse sottovoce. Si nascose dietro una tenda e bussò forte contro le pareti  spaventando il  generale, che con timore andò a vedere cosa c’era al di là della cortina. Giric lo sorprese spezzandogli il collo. Ora non gli restava che il gran capo.
Nella stanza dove  si trovava vi erano dei sacchi di esplosivo, che sarebbero serviti ai cannoni, Giric ne prese due muovendosi malamente dopo essersi ferito nello scontro con il generale. Quando arrivò dal governatore Moro fu sorpreso da ciò si trovò di fronte, un nano codardo e vigliacco. “Vi prego, mio signore risparmiatemi”. Girc rispose: “Io sono stato tra la vostra gente. Essa vi ha pregato, vi ha implorato di risparmiarla  tra le lacrime;  invece voi e le vostre finte guardie vi siete fatti scudo di mio padre per i vostri fini, avari e nauseabondi. Il mio nome è Girc, ve lo dico solo perché voi possiate sentire solo il vostro ultimo nome”. Urlando, continuò : “Sono Girc Abbandrake, della stirpe dei Ventimiglia, ma oggi sono solo un cavaliere ed il tuo boia”. Detto questo sparse l’ esplosivo in giro e lo fece passare fin sotto le carceri e l’armeria, sistemando al fine la miccia. “Vi saluto governatore del diavolo”. Dopo averlo ricoperto di soldi fuggì al secondo piano, con un salto fu in sella al suo cavallo Lampo e si allontanò facendo il giro in direzione della piazza.
Nel frattempo Sgua aveva radunato tutti gli abitanti della cittadina, centinaia di persone chiamate in due ore dicendo “Chi vol lo pane, venga con me!”. Erano le cinque del mattino, l’alba, quando Sgua accese la miccia. Come una scia luminosa, tra i gli scongiuri di Moro, si consumò la sua sorte. Appena la scintilla arrivò agli esplosivi il piano superiore della torre saltò in aria nello stupore generale più totale; una sola persona aveva posto fine alla tristezza, alla sofferenza ma del resto era quello che Girc faceva da sempre. La gente notò uno scintillio tra le prime luci della mattina illuminata di rosso. “Che cosa è? Sono soldi!”. I soldi di Moro, con i quali era saltato in aria, ora piovevano dal cielo. Tra la commozione e la felicità della gente che si accalcava giunse Giric. Con la coda dell’occhio notò il vecchio a cui aveva dato da mangiare, corse da lui, lo afferrò per le spalle ed urlò: “Vecchio, ora dite il vostro nome. Voglio sentirlo urlare”. Il vecchio, libero da ogni umiliazione, costrizione e remora, disse: “Edgar,  mi chiamo Edgar!”. Dopo, nessuno seppe più trattenerlo dal guaire. La gente era felice e meravigliosamente libera. Quel giorno venne ricordato negli anni avvenire come “Il giorno della pioggia di denari”.
Tre giorni dopo, Moro venne ritrovato a venti metri dalla torre con un cannone addosso ma ancora vivo. Poco importava, avrebbe passato la vita in un letto o in galera, avrebbe inseguito la sorte dei suoi condannati. Dopo l’ incessante festeggiamento e dopo  aver banchettato con tutto il ben di Dio che vi era nella torre, una settimana dopo, a giorno inoltrato, Giric e Sgua partirono per la città di Sassoniera.  Così decise Il principe. Le ultime parole che la gente di Breton Ville ricorda di quell’impavido straniero furono “Ricostruite la città, e non abbiate paura di dire i vostri nomi, da poiché io li riscattai”. Lasciò la cittadina dopo aver rifiutato una dozzina di proposte di matrimonio dalle donne del villaggio. Proposte che furono raccolte tutte quante dal suo scudiero dongiovanni, ancora ubriaco per la festa.
Al momento della partenza il principe non poté non pensare alla capitale, al luogo in cui era nato, Barbara, ed a quando l’avrebbe rivista, quando avrebbe rivisto i suoi amici ed i suoi parenti ma fece in modo di non pensarci più del dovuto; nulla, ora come ora, doveva distrarlo dal suo dovere: portare la speranza nelle terre più sfortunate del suo, in un prossimo futuro, regno. Lui era l’erede.
Oggi Breton Ville viene ricordata come uno dei più grandi centri abitati del regno. Prospera e fiorente, piena di belle donne, dove sono nati i più grandi filosofi e gli eroi più ardimentosi.
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Racconto di Danilo Zezza partecipante alla quinta edizione di © Philobiblon (2010)