venerdì 21 settembre 2012

"Fuorvianza e degrado a Maddalena" di Danilo Zezza

Maddalena, qual virtù quale indole
Poté farsi scudo della tua interna fede?
Qual luci e qual cieli vollero il disfacimento
de li tuoi sacri templi?
In quali abissi le virtù dei tuoi civici decaddero?.
Quale fu la mano che diede la distruzione allo tuo clero?
Dove fu, come poté la vostra cerchia essere così corrotta?
Fede poté credere in alcunché sanza spiegazion assodata.
Da poiché io a te giungo, e dalla meraviglia che eri…
Io soffoco lo sdegno, e te cedo lo passo…

Parkoz, come il mondo, era costantemente in evoluzione. Alcune città conoscevano una nuova era, altre invece erano dirette verso il regresso. Il declino delle virtù degli uomini che hanno bisogno di credere in qualcuno, qualcosa, che spesso è corrotto, l’ingenuità delle genti è da sempre fonte di profitto per ladri e impostori. In realtà non ha molto senso ciò in cui credi, l’importante è che la tua fede sia condivisa, una menzogna in bocca ad un bugiardo è reato, in seno ad un intero popolo diventa una verità sacra. Questo è ciò che era successo alla città di Maddalena; il clero aveva traviato tutto, non esisteva luogo in cui non ci fosse degrado e corruzione. Il momento in cui capisci dove e come una cosa è successa è l’attimo di transizione dello spirito verso la decadenza dei sentimenti. Come un’anima umana in preda al decadimento morale la città stava per marcire. Nessuno avrebbe fatto nulla per impedirlo. 
Maddalena era uno dei più grandi centri ecclesiastici dell’intero regno, il cuore della città contava oltre cinquecentomila abitanti, quasi più popolosa della capitale Barbara, che raggiungeva i cinquecentotrentamila. Al suo nucleo epico sorgeva la cattedrale di Bartolomeu il più grande profeta e santone che sia mai esistito a Parkoz.
Nato a Breton Ville, Bartolomeu aveva preso i voti a Maddalena. Lì dove poi si sarebbe suicidato in preda all’imminente paura di una futura fine del mondo. In quel punto dove una volta era terra incenerita, in mezzo alle colline, nacquero dei fiori a formare la sua immagine di morto. Il popolo crede che Bartolomeu avesse salvato il mondo sacrificando la sua vita, intorno alla sua effige, ora impagliata, di uomo che prega, venne costruita una cattedrale.
Giungevano da tutto il paese per vedere l’effige di Bartomeu il grande profeta. Si diceva che ad ogni ricorrenza della sua morte la statua si muovesse o lacrimasse dando dei segni,  spesso interpretati come divini e premonitori dai chierici dell’istituzione.
Il problema era che la statua aveva incominciato a muoversi un po’ troppo spesso, dando segni un po’ troppo assurdi, ma la folla interpretava il tutto come un disegno da seguire ed un carro da trainare.
Se da un conto la gente ha bisogno di credere, sperare quando è in difficoltà, dall’altro è possibile che la fede possa venire manipolata da individui apparentemente illuminati.
Il cielo era grigio il giorno in cui Giric e il suo fedele giunsero in quella cittadina pervasa da una fede malata. Qualche goccia che bagna le labbra di una graziosa fanciulla, un movimento tenue un respiro profondo, l’aria era umida…
«Diletto sta per piovere, pote la pioggia lavare tutto il male che il mio core or ora sente?»
Il rumore della pioggia è lieve appena, mentre le nuvole rombano decise. Le gocce si portavano appresso il loro scroscio, di lì a poco sarebbero cadute incessantemente.
Disse Sgua,colui che dovrebbe essere lo scudiero: «Signor mio Giric, dovemo trovare riparo, oppure meniamoci in qualche casa, vene di Diana!»
«Sgua, mille volte vi dissi et equamente ancora, non porgetemi la vostra sozza lengua quando imprecate, che dovemo trovare riparo lo intesi anco io, andiamo sotto lo ponte con il vostro cavallo, che forse è un somaro.»
Al solito infastidito dal fare regale del suo presuntuoso padrone, Sgua sistemò gli spadoni e si incamminò con il suo cavallo sotto il ponte delle sirene stonate.
In attesa che la pioggia si fosse fermata, il principe cavaliere ed il suo compagno ne approfittarono per riposare con il braccio sotto guancia, come rassegnati, sfatti e annoiati da tale fenomeno. Speranzosi di una luce prossima.
Rimasero sotto il ponte delle sirene per oltre un’ora, quando ormai la pioggia si rese sopportabile, si diressero verso il centro, dove vi era la  cattedrale ed il palazzo della città.
Non avevano ricevuto nessuna notizia riguardo al loro intervenire, solo un messaggio di recarsi sotto il palazzo della città il giorno prestabilito. Aggiornamenti sulla questione una volta avvenuto l’incontro. La lettera era indirizzata a Giric il vagabondo. 
Le vie della città erano colme di ceppi spinosi sporchi di sangue, c’erano delle persone che portavano grandi massi sul collo e le ragazze pregavano incessantemente in maniera maniacale. Quel bisbiglio denotava un forte attaccamento alla fede. Il tutto doveva essere normale in una città molto religiosa ma la via da seguire non sempre è quella giusta, bisogna sondare con attenzione l’origine della fede. Il popolo tutte queste cose non le sa e spesso la fede sconfina nella follia. Essendo una città religiosa l’esercito era ai comandi del clero, agli ordini del Sacerdos in Aeternum, il primo sacerdote, la cui prioritaria occupazione era fare le veci della città. Egli aveva una forte influenza anche sui politici più potenti a Parkoz.  
Lo spettacolo non fu dei migliori ma tutto questo poteva essere giustificato, rispettando l’indole di un paese. 
La pioggia cessò di picchiare sui loro volti e la luce dopo il grigio cielo illuminò le chiese di Maddalena. 
«Sgua, anco tu vedesti? Dopo una cosa trista come la pioggia, viene lo cielo colorato, ed ete come l’anima umana che essa sa riprende dopo le cose difficoltose ad intra di sé.» 
«La pioggia ete un mezzo, mio signore, un mezzo per dare alla terra quello ca della terra già fu.» 
«Semo giunti a luogo mio diletto, ora aspettamo segni.»Disse Giric, dopo essere sopraggiunto a destinazione, non una parola su quanto avevano visto nella città, da nessuno dei due. Dalla folla si sentì un fischio, era un segno che dovevano proseguire da quella parte, Giric tirò le redini di Lampo e proseguì per quella strada che si addentrava nel buio di una via senza uscita. Pensò tra sé ed il suo ego, che potesse essere una trappola, dopotutto non sapevano nulla di chi avesse mandato il  messaggio e perché, ma tutto sommato la preoccupazione scomparve, nessuno avrebbe dato la caccia a loro due usando stratagemmi così stupidi. 
Era sera inoltrata quando il messaggio arrivò legato ad un piccione alla vecchia maniera, sulla carta i caratteri quasi illeggibili con una grafia tremolante. Sgua lo lesse:«Giric cavaliero di gran core, Maddalena invoca a grande voce il vostro aiuto, noi vi aspettiamo tutti i giorni alli dodici battiti fronte a palazzo della città.»Sgua non si fidò dall’inizio. Fu un mistero come fosse arrivato quel messaggio a Giric in persona e come avesse fatto il piccione a trovarlo. «A ben anco Sgua, hanno legato tanti messaggi a tanti piccioni esta spiegazione ete credibile.»Sgua voleva ignorare il messaggio ma Giric lo raccolse. 
«Mai nessuno pote le orecchie tapparsi a chi a gran voce lo chiama. Siete mai stato a Maddalena?» 
«No non fui mai attratto dalle vocazioni.»
«Ora avete uno motivo per esservi e poi anco noi non sapevamo dove andare, ora avemo una mèta.»
Seguendo quel sentiero e quel cavallo notò che i piedi del suo cavaliere erano corti ed esili, allora totalizzò che poteva essere una ragazza. Lui non poteva vedere il volto, ma chi le stava davanti sì. Da quelle parti pellegrinava un frate, che la scorse distintamente, in un attimo la afferrò per un braccio e la tirò giù da cavallo, fu troppo veloce perché Giric potesse intervenire. Il frate urlava: «Ego te salvo la tua anima, ego te salvo dal male.» Ora il volto era riconoscibile.Era proprio quello che al cavaliere era parso. L’uomo di Dio voleva fare del male a quella ragazza, ora assolutamente visibile sotto il mantello lungo. Gli occhi della pulzella in pericolo pieni di paura e rassegnati fecero scendere il cavaliere da cavallo. Il passo che lo portò a recarsi vicino al frate fu breve. Giric era disarmato ma con le mani agguantate. Il frate appena chino sentì il suo corpo volare all’indietro per sette metri. Sgua l’inutile, assai lontano si affrettò ad arrivare puntando una spada sul collo del frate. Giric aiutò la ragazza a rialzarsi. Dopo afferrò il fratacchione per la gola. «Voi, brutto sudicio maiale, vi ammazzo se non la smettete.»Sarebbe incorso nella sua ira. Notò con molta repulsione entro di sé che molte persone avevano osservato senza dire o fare nulla, una cosa del genere nel suo paese natale sarebbe costata la scomunica ed il linciaggio. Allora ebbe il sospetto che quelle cose accadessero tutti i giorni, i popolani erano solo dei mezzi per i religiosi che li avevano talmente tanto monopolizzati ad una schiavitù mentale, che ogni cosa persino la più ripugnante se fatta da un frate o un padre religioso corrispondeva a cosa giusta. Essendo un nobile cavaliere di grande morale non poteva sopportare questa situazione. Il frate fu legato e picchiato da Sgua fu esortato a dare spiegazioni.
«Ete uno mio diritto, Dio me lo permette.»Ripeteva in continuazione. La presunzione e la follia di quel frate urtavano i nervi al principe che con una mano stringeva la ragazza appena adolescente.
Le persone che sembravano prese da fede maniacale ebbero un certo piacere nel veder picchiare quel frate. Queste cose accadevano tutti i giorni. Maddalena aveva conosciuto la ragione propria.
Dopo che Giric ebbe calmato la ragazza ella spiegò per bene quello che stava succedendo in quel posto, la chiesa era molto lontana dagli insegnamenti dei grandi profeti. Aveva abusato ed usato i suoi poteri e come se non bastasse aveva fatto credere di essere nel giusto. La gente si riunì intorno a Giric, aveva la consapevolezza di essere convincente. Il frate che aveva ormai il capo chino aveva smesso di ripetere la stessa cosa. Così dopo aver accolto il principe la folla gli diede da bere. Essi non sapevano di trovarsi di fronte ad una delle persone più potenti di tutto il regno e che in un'altra circostanza si sarebbero dovuti inginocchiare. A Giric queste cose non piacevano, non gli piaceva camminare su petali di rose, lui era uno di loro.
«Un regno non esisterebbe sanza un popolo, così come io non avrei ragione di essere quello che sono, fui soltanto fortunato.»Disse a suo padre prima di partire. Aveva accettato la sua condizione, ne era consapevole ma non avrebbe accettato di non poter sfruttare il suo talento ed i suoi insegnamenti. «Padre non me ne vogliate, ego mi meno in posti lontani, ove di me si ha un gran bisogno, ove le ossa io mi vorrei fare, per poter al meglio regnare.»Erano questi gli anni migliori della sua vita.
«Dite meco. Dicetemi cosa succede a voi ogni giorno.» Quasi nessuno ruppe il silenzio sinché la ragazza che Giric aveva salvatospiegò la situazione e il motivo per cui richiese il suo intervento.
«Tre anni or sono questo era uno posto di culto, credevamo nello profeta Bartolomeu, lo nostro vecchio sacerdos era un omo giusto et bono. Egli donavaci la virtù della fede e se un religioso compiva atti che adogne persona potevano sembrare truci, pagava con la propria veste e veniva punito come ogne omo che face lo briccone. Purtroppo ello venne a mancare nel giro de tre soli se aggravo e avvenne lo suo trapasso. Ora chi fa le veci di codesto paese eteuno uomo malvagio, li preti e li frati fanno di noi quello che vogliono, se avemo solo da mangiare per noi non potemo mangiare, vengono li frati e dicono che lo Padre Eterno gli ha detto che li dovemo sfamare, tante volte loro mangiano e noi guardiamo affamati. Se avemo li soldi li dobbiamo dare a loro, se avemo anche l’onore di essere femmine lo dovemo dare a loro, loro abusano e si prendono ciò che vogliono e quando vogliono. Da quando Lisanti fu nominato sacerdos tutto lo popolo è schiavo e non abbiamo più on…»Prima che avesse finito di dire onore, Giric levò la mano in cielo dicendo «Oh»era il suo modo per dire non lo pensare nemmeno. «Parlatemi di Lisanti. Li religiosi, li preti che commettono oscenità non vengono puniti?»Come aveva pensato i chierici erano intoccabili. Tutto era loro permesso, il perché non tardò ad arrivare. «Lisanti ha emanato una bolla, che protegge li preti da qualsiasi reato essi possano commettere, lo perché sono uomini di Dio» Il frate ormai immobilizzato fu stordito da Sgua. I cittadini rientrarono nelle loro case, qualcosa stava cambiando, era inevitabile non intuirlo.
I preti erano intoccabili, perché si facevano scudo della loro falsa fede, non esitavano a commettere qualsiasi nefandezza, il posto era occupato da questi piccoli uomini in gonnella. Il problema della città era grave, non poteva essere risolto da un solo individuo, non un uomo qualsiasi, i fratidovevano essere puniti e Lisanti cacciato via per aver portato la città al degrado. Come si fa a combattere coloro che credono di essere nel giusto ed andare contro la casa di Dio? Giric concluse allora che la fede poteva essere combattuta solo con la fede stessa. Lampo tremava, nitriva, persino lui di fronte a tale condizione era innervosito. Come combattere la fede di migliaia di persone? Giric e Sgua portarono con loro la ragazzina, che ormai si sentiva sicura, trovarono riparo nella sua casa, dove c’erano anche le due sorelle ed il padre. Sua sorella più grande aveva un bambino,avuto dopo una violenza subita da un chierico, che la fece scomunicare come tentatrice. Giric sentì tutte le follie commesse dei religiosi che erano potenti e ricchi. La falsità aveva impestato l’anima della gente.
«Ego ve domando grazie per l’ospitalità. Ditemi come avete fatto a trovarmi?»
«Qui a Maddalena avemo li piccioni con un olfatto sviluppato.»Detto questo la ragazzina prese un pezzetto di stoffa del mantello di Giric, che aveva conservato in un cassetto. Era lo stesso pezzo di mantello che gli fu strappato durante la permanenza a Breton Ville, dove sconfisse da solo il mal governo. Le gesta di Giric venivano raccontate per il paese, che ripeteva in continuazione che un giorno Giric l’eroe vagabondo l’avrebbe salvato. La ragazza lo aveva chiamato per questo, facendo annusare un piccolo drappo di stoffa al piccione viaggiatore che aveva trovato con facilità il padrone del mantello.
«Noi vi imploriamo aiuto Giric, solo voi potete salvare questa città dalla rovina.»Non ci sarebbe stato bisogno di implorarlo, anche se prendere una posizione di neutralità sarebbe stato quasi impossibile.
«Ego ve aiuto, troveremo un modo per portare tutti sulla retta via.»Giric si intendeva di religione quanto bastava, la sua famiglia era molto credente e nel suo palazzo reale vi era anche una cappella, che tutti i suoi famigliari visitavano regolarmente. In quel momento le parole del suo maestro Baldovinotornarono alla sua mente.
Baldovino era uno dei più grandi filosofi del regno, era nato a Sassoniera ma fuggì a Barbara in seguito alle guerre che negli anni prima avevano straziato la sua città natale. Il re offrì riparo a lui ed alla sua famiglia. Giric era uno studente molto distratto ma le parole di quel giorno furono incisioni nella sua mente «Non ave importanza in che maniera, se riesci a fare credere qualcosa alle genti, esse saranno soggiogate e costruiranno delle cose che non sono mai avvenute. Dovete giocare sopra ledebolezze della gente e  fate di esse la vostra fonte de forza. Pensate co la mente la tattica da seguire, vale nello conflitto, come nella vita.»
Il principe che fino a quel momento aveva uno sguardo assorto disse: «Baldovino venne in mio aiuto. Dovemo agire con l’astuzia, Sgua siete con me?»In realtà non c’era bisogno di chiederlo, lo scudiero sapeva capire le difficoltà nonostante fosse un fetente. «Bene, voi donzella come vi chiamate?»effettivamente fu strano il modo di chiederlo dopo una giornata passata insieme, era quasi sera e senza luce il piano avrebbe funzionato ancora meglio. La ragazzina rispose «Ego mi chiamo Liz». Dopo Giric prese a spiegare il da farsi.
«La cosa ete semplice, dovemo fare in modo che tutti credano che Bartolomeu abbia una ira funesta contro lo popolo, dovemo agire veloce ed essa gente ha da diventare impaurita, basteranno poche cose, loro faranno lo resto. Sguà voi dovrete urlare per coteste strade, a dire -ho visto Bartolomeu, ha detto che tutti dovemo morire-. Cercate di fare uno caos gigante, domani lo popolo andrà alla ode de Lisanti, non potemo raggiungerlo diversamente, semo in pochi. Voi Liz dovete urlare per tutto lo paese tutta la notte dicendo -la morte ete alle porte, alle porte-. Io devo penetrare nella cattedrale e nascondermi sotto l’altare ove Bartolomeu è deposto. Se la gente non potrà mai credere a me, potrà credere nella sua fede istessa, ciò per cui ogni giorno subisce..»
Mentre Liz e Sgua portavano a compimento il piano del principe egli doveva recarsi nella chiesa a prendere posto al di sotto dell’altare. La città stette spaventata quella notte. Giric tranciò la lingua al frate ancora stordito e lo legò ad un palo a testa in giù, nudo e con un cartello scritto in parchese che recitava: finiranno capovolti tutti gli eretici che capovolgono la verità e sanza lengua idegna di professare lo mio verbo, Bartolomeu. Ora non gli restava che introdursi nella chiesa, completamente ermetica, ma Giric apriva qualsiasi tipo di serratura senza nessuna difficoltà. Appena chiuso il portone Giric prese posto e rimase lì ad aspettare l’ora in cui attuare il suo piano.
La mattina dopo la gente spaventata si recò nella cattedrale dove Lisanti, ignaro di tutto, si accingeva a cominciare il proprio discorso. Tutti avevano tante domande e finivano per interromperlo sempre, terrorizzati dall’immagine del frate con la lingua tagliata e dalle voci che Sgua e Liz avevano messo in giro. Anche Lisanti cominciò a spaventarsi, lo spavento di chi ha permesso tante cose senza rendersene conto ed ha chiuso le orecchie quando la gente gridava aiuto.
«Dovemo tutti avere fede in Bartolomeu, la mia mano ete la mano di Dio». Sgua nascosto tra la folla con Liz prese passo e si recò al centro della chiesa aspettando il momento opportuno. La folla ormai in preda adagitazione e incertezza della loro fede, dell’operato dei frati e di una futura fine di tutto, cominciava a vedere segni premonitori, la statua che si muoveva, il cielo che si oscurava. Giric che fino ad allora aveva dormito stava per svegliarsi. Dopo un attimo di smarrimento prese decisione tra le incalzanti paure della gente.
«Taci popolo! Tu che hai dato lo consenso di tutto questo a Maddalena, tu che lasciasti che Lisanti diventasse sacerdos devi pagare con la tua vita lo scempio in cui la mia città sprofonda.» Era la voce di Giric anche con una lieve vena di raucedine di chi si è appena svegliato, ma in realtà il seme era stato gettato e alla gente quella parve la voce di Bartolomeu. Lisanti spaventato e preso dal suo stesso panico confessò tutto quello che aveva combinato in tre anni, cose che la gente non avrebbe mai voluto sentire. Sgua, come una volpe, dal centro della cattedrale, ebbe il lampo di genio e disse urlando: «Cosa dovemo fare, come potelo popolo salvarsi?» La statua di Bartolomeu riprese a parlare per non farlo mai più, in quel momento Lisanti in preda al panico stava per avere un attacco cardiaco, per il troppo spavento.
«Popolo punisci, punisci chi mi ha adirato, punisci li frati che insudiciarono lo mio nome.»Ma il popolo non ebbe tempo di punire Lisanti, era già morto in preda ad un attacco di cuore. Ma tutti i frati della chiesa vennero catturati.
Quel giorno fu la rivincita del popolo sul clero. Giric uscì da dietro l’altare, in realtà nessuno lo vide, il popolo quando lo ebbe notato si inginocchiò credendo che quella era l’immagine di Bartolomeu che era tornato in vita reincarnardosi per lo sdegno. Giric, avendo capito di essere riuscito a creare una soggezione incredibile, raccolse l’invito.
«Popolo so che hai sofferto per lo ché ti hanno distrutto, ora viene il tempo per la rinascita dopo lo periglio, riprenditi ciò che è tuo, a casa delli chierici puniscili, codesta ete la volontà mia.»
Quel giorno chiunque fosse stato vittima di abusi, chiunque avesse sopportato le nefandezze additò il colpevole ed esso venne privato dei suoi beni e sottoposto al giudizio della vittima. Maddalena non aveva bisogno di essere salvata ma di essere svegliata.
La voce del popolo è la voce di Dio. Molte cose successero quei giorni. Dopo poche settimane, quando la situazione fu calma Giric decise che quello non era più il suo posto. La gente avrebbe saputo costruire ancora una città sulle ceneri del clero e nuovi uomini valenti avrebbero preso il posto della feccia.
Liz non fece in tempo a salutare Giric, con il denaro che ebbe in risarcimento, per gli abusi subiti dalla sorella, arricchì la sua famiglia. La ricchezza del clero servì a sfamare il popolo. I frati tornarono ad essere umili uomini di Dio.
Pochi anni dopo Liz raccontò tutto. Il popolo immensamente grato a quel paladino molto speciale eresse una statua. Al vagabondo con l’animo di un re. Colui che ha salvato Maddalena dall’inferno in cui era caduta.
Oggi i nonni raccontano ai nipoti le gesta di Giric e di quel giorno che segnò la storia aprendo le porte di una nuova fede affinché non si perda la speranza di cambiare le cose per quanto difficile possa sembrare farlo.
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Racconto partecipante alla sesta edizione di © Philobiblon (2011)

sabato 7 aprile 2012

La Compagnia della Freccia Rossa

Abbazia di Vezzolano
Sella di Vezzolano, un tramonto d’inizio inverno, A.D.1110.
La vista necessitò di qualche attimo per abituarsi a sopportare il contrasto tra il rossore accecante dell’ultimo sole e il buio alle loro spalle. Stagliandosi sul valico, tre uomini a cavallo contemplavano il congedo del giorno. Nel freddo pungente, il vapore dalle narici e il movimento pigro delle code degli animali erano l’unica animazione di quel palco sospeso nel cielo.
Per la prima volta dopo molto tempo le Alpi si svelavano loro circondandoli. Le mani impugnavano giunte l’elsa delle spade mentre respiravano l’odore di sottobosco, neve e legno. La croce rossa sulla veste bianca copriva le loro cotte in maglia di ferro accomunandone i destini.
Il profumo di un camino nelle vicinanze anticipava che dopo una giornata intera di cavalcata avrebbero trovato un rifugio coperto.
La via dalla Terra Santa era stata lunga. Non avevano mai abbassato la guardia. Fino a quel punto non avevano fatto soste se non per i brevi riposi notturni.
sentenziò il più anziano con l’accento della Corona di Aragona.
Scesero a piedi la breve mulattiera tra il passo e l’abbazia tenendo le redini. Bussarono sul portone a destra della chiesa. Il doppio colpo del guanto sul legno ruppe il silenzio della vallata con due suoni secchi.
disse uno dei tre in un italiano cadenzato da intonazione francese.
La pesante anta cigolò sui cardini fino a lasciare un passaggio. I due cavalieri più giovani seguirono il frate puntando alle stalle per ricoverare i cavalli.
Il terzo attraversò lo spiazzo in direzione dell’edificio a due piani. Aveva un’età difficile da definire. Le rughe del viso e la barba davano al volto la maturità  di una corteccia provata dalle intemperie di molte stagioni. Non era vecchio ma tutto del suo portamento raccontava di un’educazione lontana votata alla resistenza. Era originario delle terre al di là dei Pirenei, dove gli avevano insegnato a combattere i saraceni. Poi, conoscendoli, aveva iniziato ad apprezzarne la cultura e da loro aveva anche imparato a fare di conto e leggere il cielo.
Per la sua età, maggiore degli altri due, e per la statura imponente l’aragonese era identificato spesso come la guida dei tre. In realtà era come se pensassero con un’unica mente, ben consci che nessuna singola parte di una testa prevale sulle altre parti. Piuttosto ogni porzione interviene nella magica sintonia che l’anima richiede. E quei tre si comportavano davvero come sfumature diverse di una sola anima.
Quella sera nel convento, a vederlo camminare di spalle tra i frati,  il cavaliere più anziano pareva una montagna di carne. La coperta tolta dal retro della sella era appoggiata sulla sua spalla destra mentre la mano avvolgeva la forma di croce della grande spada. Sotto l’altro braccio, una tela marrone affiancata al coltello avvolgeva un oggetto grande quanto lo zoccolo di un cavallo.
Accompagnato nella foresteria scelse le tre brande più appartate.
Attese gli altri due e insieme si presentarono al refettorio.  Il servizio era già iniziato quando entrarono nel locale richiamando l’attenzione di tutti. Il rumore delle stoviglie scemò sulle due lunghe tavolate lasciando udire solo i passi dei loro pesanti stivali.
,,, si distinse da più parti in un coro sommesso di bisbigli. Un colpo di tosse dal tavolo del priore richiamò all’ordine e al silenzio.
Il tepore del locale era un sollievo al freddo della notte piemontese. Dopo aver appoggiato sul tavolo l’involucro che scortavano, si sedettero.
Consumata la cena si trovarono a fissare ognuno la piccola coppa in coccio dove avevano bevuto. La fissarono. Poi, senza dire nulla, si guardarono e si voltarono in direzione del tavolo dell’abate. L’aragonese annuì e, appena i frati iniziarono ad alzarsi, si diresse verso la guida spirituale del convento.
L’alba fu anticipata dal lontano latrato di un cane nei campi. Uscirono sull’aia. Quel che rimaneva delle nebbie della notte era rimasto aggrappato alle parti ombrose delle colline mentre sui pianori del fondovalle la tavola morbida della foschia si lasciava bucare dalle cime degli alberi.
disse l’aragonese fissando una sella tra le montagne.
, aggiunse.
Il priore lo aveva informato che dalle abbazie della Novalesa e della valle di Aosta erano arrivate notizie che i passi per la Francia erano ormai chiusi. In più, tutta la regione era infestata da soldataglie, sbandati e briganti.
La giornata trascorse tranquilla. Mentre i frati erano intenti nelle loro attività, il più giovane dei cavalieri aveva raggiunto la stalla e stava controllando la zoccolatura dei destrieri. Arrivava dalla Cornovaglia e aveva la passione per i cavalli. Strigliava personalmente il suo e  trascorreva con lui talmente tanto tempo che i compagni pensavano seriamente riuscisse perfino a parlargli. Sapeva che, dopo un viaggio tanto lungo, un maniscalco non avrebbe nuociuto alla zoccolatura delle bestie.
Il secondo  dei crociati aveva invece seguito i frati nel bosco. Gli servivano rami dritti adatti a ricavare frecce. Un grande frassino in cima al pascolo sembrava perfetto. Vi si arrampicò e colse il necessario aiutandosi col pugnale. Non era consuetudine per un cavaliere usare l’arco, ma, nella contea dove era nato, l’arte del tiro era praticata anche dai nobili, che si distinguevano dagli arcieri comuni per il marchio rosso pennellato su ogni dardo.
Quando decise di abbandonare la patria alla volta della Terra Santa, il genitore fece confezionare al figlio un arco di dimensioni tali da essere agilmente impugnato anche in sella. Assieme gli diede una polvere rossa che avrebbe potuto utilizzare per marchiare le frecce e continuare a distinguersi.
Si unì agli altri due durante la difesa da un assalto di una delle bande di delinquenti che infestavano le vie per Gerusalemme.
Nonostante quel che si raccontava in Europa, col trascorrere dei mesi in oriente avevano constatato che la città del Santo Sepolcro era in quel tempo un esempio di accettabile convivenza tra musulmani, cristiani ed ebrei. Le minacce per i pellegrini erano piuttosto sulle strade, dove bande feroci razziavano ogni bene e non esitavano a uccidere chiunque apparisse vulnerabile, senza distinguere la fede.
Capitò che i tre difesero dai banditi una carovana di arabi tra le colline della Galilea. La notizia, rafforzata dal fatto che da soli riuscirono a disperdere almeno una ventina di assalitori, fece presto il giro dei mercati di ogni città facendo guadagnare loro il rispetto di tutti  e il titolo di “compagnia della freccia rossa” per la inconsueta dotazione d’arma di uno di loro. Poi, essendo uno dei superstiti un confidente del re di Gerusalemme, il racconto delle gesta arrivò a corte e furono convocati.
Quando si trovarono scortati dalla guardia reale pensarono semplicemente a un banchetto in loro onore, nulla di più.
Giunti a palazzo, invece, il sovrano lasciò subito la sala del trono per accompagnarli in una stanza appartata. Lo spazio era fastosamente decorato e aveva al centro una specie di altare. Quando lo scatto della chiave aprì l’unico sportello, i tre rimasero delusi dal contenuto.
Le pareti d’oro riflettevano solo un modesto vaso in terracotta.
Si domandarono la ragione di tanto sfarzo per un oggetto di così poco valore.
esclamò il re interrompendo il silenzio d’imbarazzo.
Nessuno ribatté e passò qualche secondo prima che il sovrano continuasse, rivolgendosi a loro.
domandò l’aragonese.
Si congedarono dopo aver ricevuto il prezioso oggetto, avvolto in un sacco di tela. Non avevano un’idea chiara sulla destinazione, ma convenirono che l’Europa, con le sue storie di santi e reliquie, sarebbe stata la loro meta finale.
Il franco, dalla cima del grande albero dove si era arrampicato, si guardò attorno riflettendo su come quelle colline tanto pacate nei movimenti ricordassero quelle della Galilea. Pensando alle parole dell’abate, fu colpito anche dalla similitudine delle minacce che gravavano sugli indifesi. Erano forse quelli due segnali sulla possibile destinazione che stavano cercando? Ne parlò agli altri due e convennero che, se era una coincidenza, era ben strana. E se non lo era, allora avevano trovato la loro meta.
Avrebbero dunque aspettato il corso degli eventi nella zona. In ogni caso non si poteva rischiare di mettere a repentaglio il tesoro.
L’indomani, dopo aver preso congedo dal convento, si diressero oltre il valico in direzione della grande città sul Po, che avrebbero raggiunto da sud. Torino era stata decantata loro per la sua importanza e soprattutto per la presenza tra le mura di reliquie.
Arrivarono in cima ad un colle dal quale la vista spaziava in direzione del mezzogiorno. La linea dell’orizzonte era ancora una volta un susseguirsi di boschi. Poco più avanti notarono che, rispetto alla quiete che fino a quel momento li aveva accompagnati, si sentivano grida, nitriti e colpi di ferro.
Nella radura appena oltre la discesa un uomo a cavallo stava resistendo a un gruppo di assalitori armati di lance e mazze. I tre corpi dei soldati che forse erano la sua scorta giacevano a terra attorno ad un carro. Il cavaliere era stato colpito sul volto e nella sua spalla destra era conficcata una freccia. Nonostante le ferite continuava a battersi con energia.
Senza neppure guardarsi, i tre dalla cima si lanciarono contemporaneamente al galoppo. Lo scalpitio sullo sterrato investì gli assalitori sorprendendoli con l’intensità di un acquazzone improvviso. Il sibilo delle lame estratte dai foderi precedette di pochi istanti l’attacco. Gli aggressori si resero conto delle insegne crociate solo quando i due che brandivano la spada li stavano sovrastando impennando i destrieri.
Colti dal panico erano sul punto di disperdersi quando, dalla direzione opposta della strada, un gruppo di altri sei in sella stava già caricando in rinforzo.
urlò il ferito al franco che si era intanto schierato a sua protezione.
rispose mentre con l’arco stava già puntando una freccia marchiata di rosso. Scoccatala, il tiro entrò dritto nella feritoia dell’elmo del primo dei nuovi assalitori, che balzò indietro disarcionato improvvisamente come se un muro lo avesse travolto.
Mentre i due crociati si preparavano alla nuova ondata, una seconda freccia rossa colpì un altro facendolo scivolare.
Allo scontro tra i due gruppi, la lama dell’aragonese saettò sul collo del primo capitato a tiro senza che questo avesse il tempo di accorgersene. Un vortice di sangue punteggiò di una scia color rubino il prato innevato mentre la testa orfana del corpo roteava nell’aria per schiantarsi a molte braccia di distanza.
In breve i colpi di spada nella radura risuonavano sospesi sordamente nell’aria secca mentre la neve attutiva il calpestio degli zoccoli. Nel teatro di una battaglia senza eco, una cerchia di alberi scheletrici testimoniava la ferocia di un inferno soffice e senza clamori.
L’inglese stava resistendo a malapena ad altri due quando nella spalla di uno si materializzò con un tonfo preciso un dardo rosso. Il crociato approfittò della distrazione dell’aggressore più vicino per allungare la lama nel fianco dell’avversario. Mentre il ferro misurava la carne in profondità, lo strazio di un gutturale lamento di morte lacerò l’alchimia di colpi di spada, zoccoli e nitriti. Come frastornati, i pochi assalitori rimasti scelsero la fuga dileguandosi in pochissimo.
Si concentrarono sul cavaliere ferito. I corvi iniziarono a gracchiare volteggiando in attesa del banchetto che presto avrebbero consumato su quel che rimaneva dello scontro.
Sdraiarono il superstite all’interno del carro. Era più grave di quanto credessero.
sospirò con un filo di voce dimostrando di aver capito chi era accorso in suo aiuto.
Non sapendo cosa li aspettasse oltre la strada, decisero di tornare a Vezzolano.
Appena il ferito e il carro furono affidati alla custodia dei frati, i tre si recarono dall’abate, che aveva assistito al rientro.
Guardò fuori dalla finestra.
< È Andrea da Chieri, figlio del podestà locale. Nei momenti più duri del nostro inverno gira con un carro di vivande cercando di alleviare i disagi dei poveri. Chi ha ordinato l’assalto lo conosce bene. Probabilmente non era neppure distante da voi. Forse è rimasto nascosto nel bosco mandando avanti i suoi scagnozzi …
… ma vi hanno sottovalutato.>
L’abate si avvicinò intanto alla tavola e versò in tre coppe un dito di liquido trasparente.
Bevendo, il franco e l’inglese avvertirono una colonna di fuoco vivo bruciare nelle loro viscere e strabuzzarono gli occhi accennando un colpo di tosse.
L’aragonese, più avvezzo ai prodigi dei frati, abbassò lo sguardo celando un sorriso.
Un rumore di passi si avvicinò dal corridoio. Un giovane frate bisbigliò all’orecchio del superiore. Poi questi si rivolse nuovamente a loro.
L’aragonese stava fissando il crocifisso sopra la parete e avvertì gli occhi dei compagni su di lui.
Si girò verso di loro e, con un cenno del viso, fece segno di passargli il sacco della reliquia dal quale non si erano mai separati.
rispose.
Scesero le scale e raggiunsero la stanza del cerusico dove il corpo del giovane giaceva ricoperto da un saio fino all’altezza del torace. Tremante e madido di sudore era in preda ad una forte febbre. Fissava il soffitto e sussurrava versi indistinguibili. La lama era stata estratta dal corpo ma la spalla e la fronte lacrimavano sangue fresco.
L’aragonese iniziò a svolgere il panno che rivestiva il calice quando la mano del priore appoggiata sul suo braccio lo frenò.
, disse con il tono di voce più rassicurante che ci si potesse aspettare.
Il cavaliere annuì.
Le torce sul muro diffondevano la luce facendo vibrare la superficie in mattoni. Solo gli occhi acquitrinosi del morente e il sangue delle ferite restituivano un tenue bagliore. Il più anziano dei cavalieri, dopo che gli fu riempito il calice, si avvicinò al corpo ormai immobile. Rovesciò il liquido sulla prima ferita, poi sulla seconda.
Intanto il cavaliere della freccia rossa fissava l’azione. Pensava che quel corpo, pur martoriato, non mancasse di grazia e fascino.
Più volte, aiutandolo con una mano sotto la nuca, lo aiutò a bere. Rimase al suo fianco sentendolo respirare a fatica. La notte trascorse tra i deliri che la sofferenza portava.
Quando Andrea si risvegliò, i tre uomini erano al suo capezzale. Attraverso le palpebre appena socchiuse mise a fuoco sulla parete buia le figure illuminate di traverso.
Il rosso della croce e il bianco sui pettorali risaltavano sotto le barbe che ricoprivano i volti.
Sussurrò un grazie con un filo di voce e richiuse gli occhi lasciandosi scivolare nel sonno ristoratore ormai lontano dal confine con la morte.
Giudicandolo ancora troppo debole per spostarsi, decisero di lasciarlo in custodia dei frati per qualche giorno. Il franco sarebbe rimasto a vigilare mentre l’aragonese e l’inglese si sarebbero mossi alla volta di Chieri. Ne avrebbero approfittato per riferire la buona sorte e guardarsi attorno.
Giunsero in vista della città dal suo margine settentrionale. Il pendio digradava in direzione della pianura invernale e di un’isola compatta di edifici. Le mura serravano le falde dei tetti che sfaccettavano come un mosaico la luce pallida del giorno. Da un bosco di comignoli, rami di fumo si levavano dritti verso il cielo spento. Sul blocco uniforme delle case torreggiavano la collina e il castello.
Il loro passaggio richiamò lungo le vie due ali di curiosi.
Giunti al palazzo, il padre di Andrea ascoltò la storia senza mai interrompere.
Rinunciando a ogni una parola si inginocchiò tra i cavalieri, ne prese le mani e le baciò.
disse l’aragonese notando il filo di lacrime silenziose che rigava la guancia.
Pregò i salvatori del figlio di considerarsi a casa propria e di approfittare del suo tetto per tutto il tempo che desideravano. Dispose poi che un plotone raggiungesse Vezzolano.
Prima della partenza dei soldati, il podestà si accertò che accompagnasse il gruppo un carro ben fornito di farina, sale e carne per i frati. Considerati i rischi e il pericoloso precedente su quella strada, i due crociati chiesero di mettersi alla testa del convoglio.
Il viaggio trascorse in realtà senza rischi e quando giunsero all’abbazia scorsero il franco e Andrea nel cortile illuminato da un tiepido sole.
Il crociato stava facendo provare al giovane il suo arco.
I compagni  si compiacquero della scena, notando con soddisfazione che il ferito si reggeva sulle proprie gambe. In quanto alla cicatrice sul volto, era scomparsa.
Ognuno dei cavalieri si era trovato già nelle condizioni di appoggiare le sue labbra a quel modesto coccio. Ora, giunti in quei luoghi, quanto avevano veduto li persuase che forse erano alla meta.
Chiesero e ottennero dal signore di Chieri di risiedere in città e di poter custodire in una segreta del palazzo il loro tesoro. Domandarono anche che nessun documento riportasse la concessione. In questo modo solo loro avrebbero deciso quando e come rendere pubblica la reliquia e i suoi straordinari poteri.
Andrea, intanto, continuò a frequentare i crociati. Fu ammesso alla loro intimità. Ne apprese l’educazione alla cavalleria. Dal cavaliere della freccia rossa imparò a tirare con l’arco e a confezionarsi personalmente i dardi.
Quando li vedeva insieme, l’aragonese non mancava di intenerirsi. Pensava al giorno lontano in cui anche lui accompagnava un cavaliere più anziano, un uomo che non gli aveva nascosto nulla, di sé e della vita. Provò una sensazione di calore, un piacevole affetto per i compagni di cammino, vecchi e nuovi.
Nelle stagioni successive sventarono altri agguati e smorzarono molte prepotenze. Nel tempo, la loro fama rese più tranquillo il Monferrato e superò di gran lunga i confini delle terre di Torino.
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Racconto partecipante alla sesta edizione di © Philobiblon (2011)