mercoledì 25 novembre 2009

Ubertino non si fa frate


Il Maestro ormai era stanco, camminava appoggiandosi al bastone. Il loro lungo cammino di romei stava per compiersi, ed era tempo: erano partiti cinque mesi prima da Reims. Solo poche tappe separavano il Maestro e il suo allievo da Roma, la meta del loro pellegrinaggio.
Ubertino l’accompagnava, come usava in quei tempi, per imparare dal Maestro la saggezza, prima di entrare in convento. Aveva diciannove anni e una venerazione profonda per lui, ma anche uno spirito indipendente che lo faceva pensare con la sua testa. L’obbedienza e il rispetto gli erano stati insegnati e Ubertino metteva in atto questi princìpi con scrupolo; tuttavia non poteva impedirsi di riflettere su ogni cosa che il Maestro gli spiegava, e commentarla, e approfondirla dentro di sé. Qualche volta manifestava al Maestro le sue conclusioni od obiezioni, il più delle volte no, teneva per sé i suoi pensieri.
Era quasi il tramonto. Le dolci colline della campagna romana erano verdi di prati immensi. Un gregge si stagliava sul filo dell’orizzonte. Era tempo di fermarsi, di cercare un rifugio per la notte.
Arrivarono ad una vasca per abbeverare le greggi. Vicino c’era anche un ovile, con un piccolo riparo dal tetto di canne. Il Ubertino vi entrò e appoggiò il sacco con un sospiro soddisfatto; poi si recò presso l’abbeveratoio. Una deliziosa acqua leggermente frizzante cadeva da un tubo sopraelevato nella vasca, da lì traboccava e si perdeva in mille rivoli nei campi, per finiva nel fiume che si intravedeva tra i salici della riva. Ubertino e il Maestro si lavarono la faccia, le mani, i piedi. Bevvero a lungo e riempirono le loro borracce.
Ubertino sedette sul bordo della vasca e alzò gli occhi. Grandi ombre correvano sotto il cielo di un meraviglioso celeste. La luce arrivava a sbalzi attraverso gli ombrelli dei pini. Il gran sole tramontava in pace, fiammeggiante. In ciò che rimaneva del giorno la vita si affrettava: un lungo triangolo di anatre volò bassissimo sul fiume, come stesse per prender terra. Ma tutt’a un tratto quella che era in testa allo stormo raddrizzò il collo, risalì e dietro la prima tutte le altre s’impennarono con strida selvagge. La vita del giorno moriva, e prima che fosse sostituita da quella notturna, c’era un lungo momento di calma, silenzio ed attesa.
Un vecchio sarcofago romano, disse il Maestro osservando la vasca. Publio Licinio Calpurnio, compitò leggendo le abbreviazioni latine sul bordo.
Il suolo attorno all’abbeveratoio era ricoperto di lastre polverose e piatte, prese dal fiume. La luce radente le illuminava. Ubertino vide delle lettere incise su una di esse.
Guardate, Maestro.
Sembra un’iscrizione in latino. Forse una parte del coperchio del sarcofago.
Il Maestro si inginocchiò e versò dell’acqua dalla borraccia per schiarire la scritta. Altre lettere prima coperte dalla polvere comparvero, consumate dagli zoccoli di mille armenti che erano venuti a dissetarsi alla fontana.
Non è latina ma è scritta in latino, disse il Maestro.
E con molta fatica e ripensamenti tradusse:
Qui è racchiusa l’anima del dottor Guglielmo d’Acqualagna.
Che cosa strana!, commentò Ubertino.
Ah, davvero!, rise il Maestro. Un epitaffio ridicolo, pare uno scherzo: chi è quel cristiano che si fa seppellire qui, in terra sconsacrata, calpestato dalle greggi e dai pastori? Che sia stato un giudeo? Chissà.
Il Maestro riempì di nuovo la borraccia, e si diresse verso l’ovile. Ubertino rimase accosciato presso l’iscrizione a pensare.
Vieni a mangiare un boccone, lo chiamò il Maestro che stava tirando fuori dal sacco la cena di pane, formaggio e olive.
Il tramonto cadde all’improvviso come un sipario grigio e impalpabile. Ubertino si tirò su: il cielo sopra la sua testa era diventato color verde mela, percorso da sottili vele di color rosa. Tutto era certamente come prima, i prati verde cupo, il sentiero color ocra, i due pini presso la fontana, il cielo con i suoi campi di nuvole. Ma nulla era più come prima: il tramonto aveva isolato ogni cosa, l’aveva coperta della vernice della caducità, per offrirla in scarificio alle ombre della sera. Un silenzio profondo si sparse sulla campagna, rotto soltanto da qualche isolato scampanio del gregge all’orizzonte.
Ubertino rabbrividì ed entrò al riparo del tetto di canne.
La cena fu silenziosa, come da tradizione. Appena fu scuro del tutto, dopo un ultimo sorso alla fontana si avvolsero nei loro mantelli e si misero a dormire.
Si svegliò nel pieno della notte. Tutto era silenzio attorno, in alto le stelle continuavano il loro silenzioso e preciso cammino, docili come un immenso gregge.
Il giorno è la vita degli esseri, ma la notte è la vita delle cose e quando non se ne ha l’abitudine fa paura. Ma Ubertino non aveva paura: conosceva la notte all’aperto, e i suoi silenzi misteriosi. Ad occhi aperti pensava all’iscrizione sulla pietra piatta presso l’abbeveratoio.
Dopo un po’ si alzò in silenzio, e aveva il coltello in mano. Si mise a scavare attorno alla pietra, nel buio che andava schiarendosi. La terra era umida tra le lastre e veniva via facilmente; ma quella con l’iscrizione era grande, e spessa più di quanto non avesse immaginato: ci mise parecchio per liberarla sui lati. Infilò un coltello sotto e provò a far forza per sollevarla. La lastra resisteva. Gli venne il dubbio che sotto non fosse piatta, ma continuasse, immersa e solida nel terreno sì che quel suo scavare risultava vano. Ma non era così: dopo qualche sforzo la lastra iniziò a sollevarsi: ci infilò sotto due dita, poi la mano intera e alla fine la alzò e la ribaltò su un fianco.
Alla luce grigia dell’alba vide piccoli insetti e lombrichi agitarsi impazziti nelle loro tane sconvolte. C’era una piccola buca sotto la pietra, con un pacchetto incartato di pergamena. Ubertino lo prese e lo scartò. Venne fuori una scatoletta di legno d’olivo, mille piccoli dischi lucenti caddero nella polvere: erano scudi d’oro. Prese la pergamena e la rivolse verso oriente per leggerla alla luce tenue dell’alba. Tradusse il latino:
Sii mio erede tu, che hai avuto tanta acutezza da interpretare il senso dell’iscrizione, e sappi servirti del mio denaro meglio di me.
Ubertino sorrise, si sollevò e andò alla fontana a lavarsi le mani e la faccia. In quel momento decise di non farsi frate.
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Racconto di Alessandro Cuppini partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)

sabato 18 luglio 2009

Hyppoliti sola fides

Correva l’anno 1334, quando il nobile Teodosio, impegnato un lungo viaggio in Oriente, sposò la sorella di un ricco mercante francese, Ginevra dal volto di cherubino, pallida come la luna ed esile e pudica come una cerbiatta. Ad un’unione forzata seguì tuttavia una convivenza affettuosa e colma di reciproco rispetto, in cui nacquero due eredi sani e vigorosi, i fratellastri del figlio ormai adulto di Teodosio, nato dal suo giovane amore con la sua prima consorte, una battagliera principessa di parto perita, chiamato Ippolito. La giovinezza egli aveva trascorso tra caccia e preghiera, e la sua severa integrità aveva da sempre colmato d’onore il padre, e la seconda madre. Cacciati in iniquo esilio da insidiose invidie dalla patria di Ginevra, Teodosio e i familiari si misero in viaggio alla volta di Venezia, terra natia di Teodosio, da lui abbandonata per ricercarsi in gioventù gloria e famiglia. Così giunsero, in una deviazione, in Friuli, in visita alla nobile famiglia di Prampero, cui erano legati da un vincolo di antica ospitalità e amicizia.

Sorgeva il castello alto e glorioso sul colle avvolto da alberi scuri, ed emanava dalle sue mura, nella luce fiammeggiante del tramonto, sparsa nel cielo limpido, una sicurezza di paterna protezione sul piccolo borgo ai suoi piedi, tra i colli boscosi. Lì Teodosio avrebbe supplicato rifugio e sollievo dal faticoso viaggio, che ancora innumerevoli giorni sarebbe dovuto durare.

Il sole dorato brillava generoso nel cielo terso, scaldando con gli ardenti raggi quella fresca alba d’inverno. Ippolito levò la ghirlanda verso di esso, sorridendo lievemente nel guardarne i bianchi fiori, candidi come la neve, finalmente sbocciargli tra le mani, nella luce vivificante. Ancora si sentiva nell’aria il profumo della neve, che si scioglieva pian piano tra gli alberi che avvolgevano la chiesetta, quando spinse il suo sguardo severo oltre la soglia, superati gli stipiti della porta di scuro legno, fino all’altare, velato da un telo che lo proteggesse dalla polvere. Là, di fronte all’effige della Santa Margherita ornata di giglio e vittoriosa sul drago, avrebbe posato la ghirlanda, dopo i lunghi mesi di restauro della chiesa.
Con lo sguardo perso nella luce divina che irrompeva dall’alto del cielo oscuro, nell’istante stesso in cui la vergine si chinava a incrociare gli occhi purpurei del drago, vinto dalla santa fede, Ippolito sentiva la gioia della sua lontananza dal volgo, da quelle frotte turbolente e sensuali, incatenate dalla forza di “Amore”, così lo chiamavano, dall’impulso al piacere fisico…lui invece non aveva che Amore celeste. Afrodite Urania gli avevano insegnato in gioventù, e lui ne aveva distillato solo il nettare più dolce e buono, solo i pensieri più alti esso stimolasse nella sua mente, solo Dio nel suo cuore. Disprezzava le donne come tordi volubili, gli uomini come cacciatori svagati sempre e solo sulle loro tracce, la Chiesa come meretrice corrotta schiava del potere temporale, china anch’essa verso terra, non per desiderio di “Amore”, ma di sfarzo. “Lo sfarzo delle chiese rincuora il fedele, mostrandogli quanto le preghiere vengano da Lui esaudite!” gli aveva sussurrato più di una volta suo padre pieno di fastidio, e insieme di timore paterno, quando, ancora potente signore, lo portava con sé alle messe, quando lui, ancora piccolo, rideva con precoce crudeltà di fronte alle vesti ricamate dei potenti chierici.
Il gaudio crudele di quella risata, Ippolito col tempo l’aveva cancellato, perché gli provocava uno strano piacere, che, tra le fitte dei sensi di colpa, aveva chiamato “ipocrisia”; ma quell’ aspra ironia, allora incredula di fronte a tanta ricchezza infusa in una semplice veste, per di più appartenente ad un servitore di Cristo, che avrebbe dovuto perseguirne l’insegnamento pauperistico…quell’ amara ironia s’era inasprita ulteriormente, e freddo e distante Ippolito stava da ogni umana forma di associazione, che fosse una festività in paese, un matrimonio dinastico, od una cerimonia.
Rifuggiva ogni luogo d’aggregazione, immerso nella profonda ricerca di verità che lo avvicinassero a Dio più di quanto potesse fare la sola elevazione dell’animo nella contemplazione della Sua sublime creazione.
Rifuggiva ogni rifugio di caotiche folle, eccetto la chiesa. La schietta semplicità, sobria, rinfrescata dalla quieta penombra, filtrata da pochi, occasionali luccichii di candele, discreta anche, di quella piccola chiesetta, quella sua modestia, insieme elegante, e quasi celata al peccato comune, lo commuoveva. Rinfrancato dalla pace di quell’unica navata, acquietato il tormento di quello che a tratti si faceva vero e proprio odio per quell’ umanità dedita all’amore della carne, taciuto lo sdegno di fronte agli amori tra i suoi coetanei, sin dall’arrivo della sua famiglia in quel paese egli si ritirava là, in preghiera.
Teso in ogni sua fibra nello sforzo di esprimere tutto l’Amore spirituale che poteva colmargli il cuore, disperando con tutto se stesso di cogliere di rimando il soffio divino attorno a sé, pregava Ippolito anche quel mattino, inginocchiato sul nudo pavimento.
Così lo vide Ginevra, con lo sguardo usualmente gelido e severo ora addolcito, con quel tanto sbandierato “Amore celeste” dispiegatoglisi sul volto, con le mani, dalle lunghe dite affusolate mai sfiorate dalla stretta di alcuno, fuorché quella paterna, giunte in preghiera, in una bellezza altera ora scomposta in un accenno di serena, così lui l’avrebbe detta, “debolezza”, e sentì il suo cuore lacerarsi in due lembi, all’improvviso, imprevedibilmente.
Nel tentativo di muoversi, picchiò in un tocco leggero il piede sul pavimento di cotto, ed Ippolito, sussultato, si voltò verso di lei, con gli occhi nuovamente seri e, lei li sentì, spietati, infastidito. Ginevra arrossì di mortificazione, e percepì ancora la vertigine che l’aveva colta mentre alzava lo sguardo dai ciottoli del sagrato agli abiti scuri di Ippolito.
-Perdonatemi, vostro padre mi ha inviata presso di voi per un colloquio che ci permetta una reciproca conoscenza “ben più approfondita”- precisò, ripetendo le parole di Teodosio, -“di quella permessa da una semplice presentazione ufficiale”…- sussurrò infine, sempre più afflitta dall’umiliazione e dall’infiammata ferita scavatasi nel suo petto: -Ed io avrei davvero un enorme piacere se potessi conoscere il mio giovane…
-Figliastro- concluse brusco Ippolito, alzatosi in piedi con le bianche guance rosse d’imbarazzo: -Signora, non vi siete fatta accompagnare da qualche dama della famiglia che generosamente ci ospita, per meglio conoscere anche lei? E il vostro capo, ditemi, come mai non è velato, come invece è da sempre uso tra le fedeli? Per rispetto di quest…- balbettava impertinente nei confronti della sua matrigna, soffocato dall’impertinenza di quella femmina che era lì irrotta senza grazia per imporgli la sua presenza.
Ginevra tremò, ormai accecata dal bruciore della piaga che nutriva in seno, contemplando stupefatta i meravigliosi occhi lucidi d’odio del giovane figlio del suo sposo, dell’azzurro vicino al grigio delle acque di un oceano che lei ormai non vedeva da tempo…Sentì chiara e distinta la passione colpevole ed adultera sporcare le sue candide vesti nuziali, e fuggita in cerca di riparo nel castello dei suoi ospiti pianse per l’orrore di dover giacere ancora nel letto matrimoniale, con l’animo caldo di un tormento che fin dal primo sintomo aveva in lei corrotto ogni tenero affetto prima nutrito per il suo nobile marito.
-Amore corrotto e incestuoso appesta il mio cuore di novella moglie: posso ben dire che fuggire dalle nozze mi avrebbe salvato l’anima, ma ora è troppo tardi…vedo quel volto stravolto da veneranda passione religiosa senza pari, e tremo al terrore che essa si traduca in vita monastica di solitario rigore…invece di esserne fiera in quanto madre!Aver di fronte tanta devozione m’infonde invidia e gelosia malata per il Creatore di tanta bellezza!Non Lo amo per avermi donato in una vita così colma di gioia un figlio –figliastro, sì…- così nobile, da spronare ed educare alla vita più retta! No, io Ne sono gelosa, poiché Egli è l’unico destinatario di tale nobiltà!- piangeva senza pentirsi Ginevra, nascosta nella torre, sgranando in preda alla febbre il rosario di corallo donatole al battesimo. Da lì scorgeva il paese sottostante, immerso nella familiare serenità di un anno di buon raccolto e molti nati, e sospirava senza riuscire a distogliere lo sguardo ferito dalla chiesetta, sognando di essere lì congiunta in matrimonio a suo figlio. L’empietà di tal desiderio la nauseò e scosse, e singhiozzando Ginevra si scusò, senza cercare di placare la sua passione. Quando la porta cigolante si spalancò di colpo, e la sua anziana ancella entrò, all’ansiosa ricerca della gentile padrona, la vide scossa da quel pianto colpevole, e strettala a sé come in passato, quando l’abbracciava per rincuorarla di fronte alle paure dell’infanzia, nel tentativo di calmarla apprese tutta la verità, e materna le garantì il suo aiuto.
Tornata in sé, Ginevra pianse ancor, sommessamente, per aver esternato una colpa che aveva sperato di poter seppellire dentro di sé con menzogna e falsità. Ma la vecchia era ormai scomparsa.
-Il suo animo è tormentato, e non posso sopportare la sua sofferenza. Vi prego di non dire nulla a nessuno, di ciò che vi dirò, mio…
-Non so di chi parli, donna, né credo che bene mi porterebbe saperlo. Di chi sei messaggera, ancella?- la interruppe frettoloso Ippolito, con parole taglienti e acide. Il suo viso era stravolto ancora da una luce inquieta, teso come nella premonizione di una rivelazione orrenda.
-Oh no, signore, vengo in segreto e vi prego di mantenere anche voi il segreto…
-Concludi, forza- intervenne ancora, sempre più gelido e ansioso, Ippolito.
-Si tratta della mia padrona, mio signore, ella è innamorata di voi. Vi prego di…- inutilmente l’ancella riversava vuote parole di supplica, per rendere il giovane bendisposto verso la sua amata Ginevra, ma lui non sentiva più nulla.
Ippolito sentiva le strette viscide spire di quell’ amore avvolgere con soffocante pesantezza il suo corpo, stritolandolo nel suo abbraccio morboso. Incesto, adulterio, abuso…egli sentì nausea ed orrore salirgli in gola, e soffocato rimase in silenzio di fronte agli occhi dell’esitante nutrice.
-Che rivolga le sue libidinose voglie a chi vuole soddisfarle. Non osi mai più avvicinarsi a me, sporca traditrice in nobili nozze. Come osa abbandonare il marito per scegliere da sé i suoi compagni di letto? Come può imporre il suo desiderio precipitando nella vergogna chi a scelto la purezza e l’unico Amore che non porta colpa? La tua padrona è egoista e lussuriosa, come lo è ogni donna, e tuttavia riesce ad abbassarsi ancora, oltraggiando il marito che aveva…oh, giurato di “amare”, per sempre, cercando di realizzare il contenuto di un patto stretto davanti a Dio, non semplicemente con un qualunque altro uomo, ma addirittura col figlio cui diceva di essersi legata per sempre! Disonore di un sesso spregevole, instabile fogliolina secca, spazzata qua e là dal vento! Io spero solo che la tua padrona…si getti ai piedi di mio padre implorando da lui la morte- mormorò tra le labbra esangui, appoggiandosi al tronco contro cui aveva posato arco e frecce. L’ancella l’aveva impedito nella caccia, seguendolo tra gli alberi mentre cercava di scendere verso il torrente che circondava le cinte murarie del castello.
L’ancella abbassò umiliata gli occhi sul petto ansante del giovane e con la gola chiusa dal pianto si allontanò, il capo chino sull’erbetta del sentiero. Sentì tra le fronde la presenza di un’ombra, subito dissoltasi per sfuggire al so sguardo, e pianse la passione dell’amata padrona. Ginevra aveva sentito ogni cosa.

La corda cigolava, tesa nell’aria immobile e calma, ondeggiando ancora lentamente nella luce calda e malinconica di un tramonto di fuoco che ricordava le dolci sere d’estate. Come il silicio bianco bruciava e feriva le carni dei monaci in penitenza, così il laccio scorreva per il lieve moto del corpo, che privo di vita penzolava appeso al ramo. Fuggita lontano, verso quell’ Oriente da cui era venuta, Ginevra si era data la morte in un bosco deserto, violentata dal figliastro crudele e folle.
Questo aveva scritto nella lettera cadutale di mano mentre la vita l’abbandonava, e così leggeva Teodosio. Il bel collo bianco che la moglie aveva dalle nozze ornato di ori e gemme era ora arrossato ed arso dalla corda, e il suo bel corpo giovane e fresco pendeva ora verso il terreno, tendendo col suo corpo il suo laccio di morte.
Teodosio guardava quel corpo violato, tempio di un’anima gentile offesa dai bassi appetiti di un carnefice che lui stesso aveva generato…sentiva l’angoscia della sua colpa, l’orrore di aver cresciuto un figlio destinato a perdere all’improvviso il suo alto onore macchiandosi di violenza, e insieme la meraviglia per la sua sorte futura. Era una prova provvidenziale per testare il suo onore? Aveva il dovere di padre, di re e di ospite di fugare il miasma di quel duplice mortal peccato. Doveva dare la morte a chi aveva dato dolore, umiliare chi aveva insultato. Era stato un incesto che gettava sulla famiglia l’ombra del disonore per la perversione. Che suo figlio scegliesse di godere di una donna era insolito, naturale e legittimo; che la violentasse, assurdo, brutale, purtroppo concesso da una tacita, vigliacca consuetudine contro cui nessuno aveva mai obiettato; che scegliesse e violentandola godesse della sposa del padre, abusando della matrigna e disprezzando l’autorità parentale, era impensato, crimine e scempio ad una nobile famiglia. Teodosio pianse, fermamente consapevole della pena esemplare che avrebbe dovuto infliggere al figlio.
Non poteva tuttavia lui stesso macchiarsi del sangue fresco del giovane che aveva generato, cresciuto ed amato perché Dio gliel’aveva vent’ anni prima donato, e lui, in quanto creatura di Dio a lui più vicina, aveva più di se stesso curato, con affetto profondo e orgoglio sorridente di padre, stupefatto di fronte a tanta virtù. Ora doveva però ucciderlo, per sopprimere la colpa che avrebbe reso ridicola e vana l’autorità sua e dei suoi ospiti. Colpa certa e fondata, Teodosio non dubitava, perché mai in vita quella donna degnissima aveva dato motivo di dubbio.

Quel drago, che minaccioso la guardava, accucciato ai suoi piedi come un cane ormai mansueto, come la santa aveva vinto, dissolvendo nella luce divina quella feroce insidia, così quell’ indegna matrigna avrebbe dovuto acquietare, recidendo di netto il capo della mostruosa belva che sentiva come nutrirsi dentro di lei. Così pensava Ippolito, nascosto tra i fedeli all’ultima messa, con la mente tesa alle parole dell’omelia, e gli occhi fissi sulla pala d’altare. “Oh, è così bello” nessuna mai prima aveva osato pensare, scacciando nel cuore ogni tentazione allo stesso modo in cui lui, le fanciulle del paese lo sapevano fin dal suo arrivo, aveva per sempre scacciato ogni Amore. Egli era bello oltre ogni illusa negazione, ma ogni devozione aveva con devota gratitudine rivolto a Dio, escludendo ogni altro.
Finita la messa, sarebbe partito in un viaggio notturno verso Aquileia, inviato dal padre, forse per recare omaggio al patriarca, Bertrando di Saint Geniès. Scese dal pendio della chiesetta e salutò con un cenno silenzioso il padre, sollevato nello scoprire che era senza moglie al seguito, quella sera. Lui era rimasto immobile e cupo, assorto anch’egli nella predica, e non una volta s’era voltato a guardarlo. Credendolo malinconico per la sua partenza, Ippolito non intese prolungargli quella tristezza oltre, e percorso il sentiero che dal colle portava al paese montò a cavallo, sul destriero che un garzone aveva lì condotto su suo precedente ordine, e partì. Un lungo viaggio lo attendeva, ma Ippolito era più felice su quel cavallo, scuro come l’ebano, in una via ormai buia, solo nelle strade deserte, che in una corte festosa sotto gli occhi di una matrigna viziosa.
All’alba, le frecce acuminate degli arcieri del signore suo padre trafissero il suo petto freddo, e solo il suo cuore si salvò da quegli artigli feroci. Cadde a terra come un puledro stanco, e rimase sul terreno fangoso e nero, sotto gli occhi tristi dei suoi cacciatori, fino all’arrivo del loro mandante.
Suo padre abbassò gli occhi umidi sul corpo sanguinante di Ippolito, senza abbassarsi a toccarlo.
-Perché?- chiese il giovane, e dalla sua bocca uscirono parole e sangue. Il profumo ferroso della lenta morte del figlio ferì Teodosio, che con la voce rotta infine dal pianto, allontanati i suoi con un cenno, rispose:-Perché voi, un tempo nobile e retto giovane, avete voluto disonorare a tal punto e in tal modo la nostra stirpe? Avete costretto vostra madre- -…matrigna…-gemette Ippolito –ad uccidersi, e vostro padre ad uccidervi. Il sangue è colato a bagnare le radici della nostra famiglia, d’ora in poi per sempre indicata come perversa e violenta contro sé e il prossimo…Ippolito, tra tutte le donne che…potevi…scegliere come moglie, perché proprio la moglie di tuo padre?
Ippolito, vincolato dal tacito patto di silenzio impostogli da quella vecchia ambasciatrice (o mezzana, pensò tra le fitte ai muscoli che il veleno delle frecce gli procurava) in silenzio rimase, e, sdegnato e chiuso nei suoi pensieri come era stato in vita, morì.
Tornato Teodosio al castello, con il volto pallido e le mani macchiate di un sangue che solo il perdono divino poteva lavare, vide la vecchia nutrice vegliare il corpo senza vita della padrona suicida, adagiato nella bara, e piangere alla vista del suo signore omicida. –Ippolito è innocente- sussurrò, sapendo bene che lui era già stato ucciso. –voi, mio signore, siete stato l’unico che Ginevra abbia mai conosciuto- disse a malincuore, perché odiava Ippolito poiché non aveva amato Ginevra, ma doveva odiare anche Ginevra perché aveva finto che invece fosse stato così –lo giuro sulla fede che porto alla vostra famiglia sin dall’infanzia.
Teodosio seppe che non mentiva, e lasciò cadere a terra la croce dorata che aveva tolto al figlio, macchiata di sangue avvelenato, bagnata dalle lacrime piene di quella che aveva creduto debole viltà, ma che ora scopriva essere empia colpa crudele contro il suo primogenito.
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Racconto di Costanza De Cillia partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)

martedì 12 maggio 2009

Corsa a levante (di Vincenzo Cortese)

Confini di Argo. 15 marzo dell’Anno del Signore 1450.
Il canto dell’allodola riecheggiò nel silenzio ovattato di un’alba di primavera, una lieve foschia avvolgeva l’accampamento.
Da qualche parte a nord ovest svettavano i minareti del Ri-bat di Haseeb Pascià, uno dei più temibili Rais di Murad II. L’Impero della Mezza Luna si avviava al culmine della sua potenza.
La brezza proveniente dal Golfo di Corinto lambì il volto abbronzato e tormentato di Filippo Corsi, nel pugno stringe-va un fazzoletto verde, l’unica cosa che gli restasse di E-lena.
Con lei riuscì per la prima volta ad immaginarsi vecchio do-po una vita da masnadiere al servizio del Conte Rodolfo Luz-zi.
Per nulla al mondo avrebbe rinunciato agli sprazzi di quiete che sapeva infondere nel suo animo quello sguardo innocente.
La sua disarmante grazia era una roccaforte in cui ripararsi quando le nubi dei vecchi ricordi iniziavano ad oscurare il cielo ed il suo amore era un faro verso cui dirigere il pen-siero.
Erano trascorsi diversi mesi dal sacco di Agropoli, quando Haseeb l’aveva sottratta al suo abbraccio.
Da allora era preda di una morsa atroce, che schiacciava il suo petto giorno dopo giorno, tanto da spingerlo ad interro-garsi sulla bontà dei disegni divini.
Chi avrebbe immaginato che la sua sola, flebile speranza sa-rebbe giunta da un passato che egli aveva ormai ripudiato.
Giurò ad Elena che non avrebbe mai più toccato una spada, tuttavia, un destino beffardo lo fece imbattere proprio ad Agropoli nel figlio di Rodolfo.
Angelo Luzzi lo aveva accolto a bordo della S. Giorgio, l’ammiraglia di una flotta gerosolimitana proveniente da Ge-nova e diretta a Rodi, la sola occasione per riscattare ciò che gli era stato sottratto con la viltà delle armi.
L’abitato di Argo era dominato da un’ampia fortezza veneziana posta sulla cima del colle di Larissa.
Torri di guardia erano raccordate da robusti muraglioni.
Ai piedi del colle, così come assicurato dal messo bizantino, già li attendevano i cambi e le vettovaglie.
Sulla via per Corinto s’imbatterono nelle placide acque di un fiume, proseguirono poi attraversando un ampio tratto di foresta oltre la quale, su un’altura, si rivelò loro l’incanto delle rovine di Micene.
Da lì in poi la via proseguì su erti sentieri montani. Durante l’estenuante cavalcata Filippo ebbe modo di discutere con Angelo riguardo Asbagh, l’amico berbero che in più di un occasione gli aveva salvato la vita.
L’episodio del bivacco in cui questi era stato provocato da Spallanzani, mentre pregava, l’aveva turbato profondamente.
Temeva che, prima o poi, si sarebbe cacciato in qualche guaio a causa della sua fede.
Anche Angelo si soffermò sulla vicenda, confessando a Filippo l’intento di concedere la libertà al berbero.
- Quanto ad Asbagh, non so che dirti. È sempre stato un tipo strano, seppure abbia dato prova di grande lealtà. Sulla S. Giorgio si è conquistato il rispetto ma, al di fuori della nostra cerchia, ciò che è accaduto al bivacco potrebbe ripetersi senza di noi a proteggerlo.
Orbene, potrebbe convertirsi...
Filippo sorrise.
- Non ci proverei, riuscirebbe a convincerti che sia più semplice convertire all’Islam tutta la S. Giorgio.
Angelo annuì, poi chiamò a sè il berbero, che li raggiunse al galoppo.
- Sahyid? Disse Asbagh affiancando Angelo.
- Ragionavo con Filippo circa la possibilità di affrancarti.
Conosco le vicende che ti hanno condotto alla mia Galea e voglio che tu sappia che puoi considerarti libero da ogni giogo.
Asbagh non accennò alcun turbamento.
- Con vostra licenza, sahyid, non sono certo le catene che fanno l’ uomo schiavo.
Non c’è giogo che possa cingere l’essenza profonda di un uomo, essa appartiene solo ad Allah il Misericordioso, che illumina i nostri passi con la Sua infinita saggezza, tuttavia, ora il mio spirito è ancor più libero.
Filippo guardò Angelo di sottecchi.
La Morea settentrionale mostrava ancora segni delle devastazioni apportate quattro anni prima dall’esercito di Murad.
Di alcuni insediamenti non restavano che spettrali rovine, abbandonate e razziate dai saraceni che, dopo la distruzione dell’Hexamilion di Corinto, erano calati come tempesta.
Lo strumento con cui il Sultano punì i Paleologhi, avevano osato tramare con la sconfitta Lega di Varna.
Qualche sparuta anima ancora si aggirava tra le vestigia, accogliendo il loro passaggio con la rassegnata indifferenza della pazzia.
Quando giunsero a Corinto, la vista dei resti della formidabile muraglia, dove solo le capre osavano inerpicarsi in cerca di qualche arida gramigna, suscitò nei Cavalieri di Rodi un senso di profondo sconforto.
- Questo è ciò che resta della gloria dell’Impero Romano d’Oriente, Filippo. Uno dei più maestosi baluardi della cristianità, l’Hexamilion, è preda di sterpaglie e dimora delle capre!
Ah quanto vana fu la sua gloria se ora anche il fratello dell’Imperatore deve pagar dazio al Sultano.
Una porta lasciata divelta!
Ecco cosa sono ora i bastioni di Corinto.
Disse Angelo, memore della perduta magnificenza.
Al porto li attendevano diverse cocche e navi destriere per trasportarli sull’altra sponda del Golfo.
Le galee di Tommaso Paleologo, il despota di Morea, li scortarono lungo le coste dell’Attica finchè, calata la sera, giunsero ad un promontorio nei pressi di Itea, lì sbarcarono in una rada riparata.
Ad ovest, il pattugliamento dei legni della mezza luna si era fatto oltremodo intenso.
Allestirono l’accampamento ai piedi di un basso colle e furono disposte sentinelle su tutto il perimetro.
La nottata trascorse tranquilla, tranne che per l’avvistamento di un legno transitato al largo della punta.
Abbandonati i bivacchi alle prime luci di un’alba nuvolosa, i giovanniti seguirono un sentiero che s’inerpicava lungo le pendici del Parnaso.
Gli effluvi dei rosmarini si mescolava all’inebriante aroma dell’origano.
Giunsero poi in vista di un villaggio indicato sulla mappa come Chrissos, poco distante dalla costa di Itea.
Dalle creste circostanti era possibile tenere sott’occhio tutta la valle che segnava il confine trai territori ottomani e quelli del Ducato di Atene.
Volgendo lo sguardo a settentrione già potevano scorgersi i minareti di Salona, rara perla incastonata tra le vette del Parnaso, ora appartenente ai domini del Sultano.
Poco più a sud la carta bizantina indicava la posizione del ribat di Haseeb, lungo il confine tra il Dar al Islam e i territori che i turchi consideravano ancora non del tutto assoggettati.
Angelo arrestò per un attimo la marcia.
Abbeverarono i cavalli ad uno dei numerosi ruscelli che bagnavano quei boschi lussureggianti.
- Dovremmo proseguire poche leghe verso occidente prima di giungere in vista del ribat, seguimi!
Disse Angelo a Filippo.
Cavalcarono verso uno sperone da cui potevano scorgere tutta la vallata.
- Ecco è lì... vedi? Quella fortificazione ad ovest. Oltre quel minareto c’è...
-... il suo palazzo!
Lo precedette Filippo che strinse le redini al punto da farne stridere il cuoio.
Il cuore iniziò a palpitare tanto da sentirlo quasi in gola. L’immagine di Elena balenò così chiara.
Il ribat parve dissolversi, il vento si placò e i nembi scomparvero.
La sua mente vagò come se non appartenesse più a quel tempo ne a quel luogo.
Ben presto, però, fu riportato alla realtà allorchè una nube di polvere catturò l’attenzione di Angelo.
- Cavalieri.
Osservò.
- Si dirigono verso il confine. Una razzia! Presto, raggiungiamo gli altri...
Aggiunse Angelo, voltando rapido la sua cavalcatura.
Filippo lo seguì prontamente.
Raggiunto il villaggio, attesero l’arrivo dei turchi all’ombra di un boschetto di platani.
Gli abitanti, intanto, erano in subbuglio.
Le campane già annunciavano l’imminente attacco.
Asbagh ora cavalcava accanto a Filippo, Giovanni Malaspina li affiancò con aria arrogante.
- Voglio proprio vedere se avrai il coraggio di combattere, saraceno! Quelli sono i tuoi fratelli o sbaglio?
Disse, dopodichè scoppiò a ridere.
Filippo sogghignò rivedendo, nella diffidenza del corsaro, se stesso quando incontrò Asbagh per la prima volta.
- L’uomo giusto osteggia il male, da qualunque parte esso giunga ad interrompere la pace. Tu, cavaliere, sei in grado di fare lo stesso?
Rispose Asbagh con la solita flemma.
A quel punto Giovanni smise di ridere ed il suo volto divenne dello stesso colore della rutilante barba.
Asbagh si rivolse poi a Filippo.
- Cavalcherò con te nella libertà anche se tu sai che libero lo sono sempre stato, Filippo, così come libera da ogni costrizione è l’amicizia che a te mi lega.
Filippo sorrise, era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo per nome.
- Desidero tu sappia che, quando sarà tutto finito, sarei felice se venissi con me ad Agropoli.
Aggiunse l’avventuriero.
- Agropoli? Imshallah, Filippo, Imshallah.
I cavalieri di Haseeb non si fecero attendere.
Piombarono sul villaggio con tutta la loro furia.
Anche Angelo non indugiò e lanciò l’attacco.
I cavalieri coprirono la distanza in un lampo, travolgendo i saraceni intenti a sfondare porte ed uccidere quegli abitanti che ancora non erano riusciti a chiudersi in casa.
La sorpresa si dipinse sui loro volti alla vista delle tuniche crociate tanto che, inizialmente, non riuscirono ad opporsi.
Ben presto, tuttavia, il Rais riuscì ad organizzare le fila e guidò un contrattacco, assalendo il fianco dello squadrone giovannita.
Le lame e le lance dei jenicer balenarono sulle teste dei cavalieri.
I turchi riuscirono respingerli fino alla periferia orientale di Chrissos.
Parte dello squadrone crociato si separò dallo schieramento riguadagnando terreno attraverso vie laterali.
Bloccarono l’avanzata turca tagliando a metà la loro cavalleria.
A quel punto un drappello di cinquanta cavalieri, guidati da Filippo e Giovanni Malaspina, riuscì ad aggirare il villaggio prendendo alle spalle il resto dei predoni.
Iniziò una mischia furibonda.
Si combattè senza seguire uno schema preciso, una zuffa colossale in cui il sangue iniziò a scorrere in rivoli lungo i canali di lato al lastricato a dorso di mulo.
Asbagh e Filippo restarono uniti, difendendosi l’un l’altro dagli assalti dei saraceni.
Molti crociati erano stati disarcionati ma continuavano a combattere come poterono, ostacolando i giannizzeri con pali e lance.
Ad un certo punto Filippo perse di vista Asbagh.
La presenza dei cavalieri, tuttavia, suscitò negli abitanti del villaggio un moto tale che, ben presto, molti si armarono e scesero in strada.
I villici balzavano inferociti sui predoni.
Alcuni di questi furono completamente circondati, disarcionati a forza di braccia e trucidati a furor di popolo.
Ciò consentì ai giovanniti di riorganizzarsi e prendere in mano le sorti dello scontro.
Calò nuovamente la quiete, ma le strade brulicavano di cadaveri e feriti.
Alcuni cavalli vagavano mesti, trascinando i corpi dei loro cavalieri staffati.
- Asbagh! Aasbagh!
Urlava Filippo ma non ebbe risposta.
Sopraggiunse intanto anche Angelo, il cui braccio, nonostante la cotta lo coprisse fino al gomito, era solcato da un taglio profondo.
Il suo sangue si confondeva con quello dei nemici sulla mano che ancora brandiva, trascinandola stancamente al suolo, la spada.
- Filippo, sia lodato il cielo, è fatta!
Disse.
- Hai veduto Asbagh? Dov’è?
Rispose lui, incurante dell’esito dello scontro.
- Tu come stai?
Filippo non rispose, non ne ebbe il tempo.
Riconobbe il volto dolorante del suo amico tra coloro che erano stati abbattuti.
Gli corse in contro gettando via la spada.
Lo sollevò, era ferito gravemente al torace.
- Asbagh! Amico mio...
Il berbero lo riconobbe e sorrise, nonostante sentisse la vita scorrergli via, come sabbia sottile del deserto tra le dita.
- Non piangere, Filippo. Allah (Sia lodato il Suo nome) ricompenserà il bene col bene... ricorda... coloro che credono e che compiono il bene avranno giardini in cui scorrono ruscelli e... in essi rimarranno immortali per sempre. Ricorda, amico, Egli è il misericordioso... ricordami...
Asbagh si spense con la serenità che aveva contraddistinto tutta la sua vita.
Filippo sollevò il corpo del berbero e lo portò all’ombra dei platani e lo seppellì assieme alla sua spada.
Raccolse un grosso sasso e, dopo aver inciso su di esso un unica parola, lo posò sul tumulo.
- Addio Asbagh. Ci rivedremo un tempo, imshallah.
Poi si voltò verso Angelo. Giovanni Malaspina, osservò tutta la scena, si avvicinò alla sepoltura e lesse sulla pietra.
- Amazigh. Che significa?
Si chiese a voce alta.
- Libero.
Rispose secco Filippo.
Malaspina fu il primo, tra i capitani, a tributare al berbero gli onori, prima di raggiungere i cavalli.
- Non arrenderti proprio ora. Non ora.
Disse Angelo, ma egli parve aver perduto quella tenacia da-tagli dal raggiungimento del suo obiettivo.
Tuttavia non era quello il momento, lui non voleva arrender-si, non poteva, non doveva.
- I prigionieri sono oltre quelle mura. Avremo più possibi-lità di prendere il Ribat ora che tutti questi giannizzeri giacciono sotto le nostre spade.
Aggiunse il capitano della S. Giorgio.
Filippo lo guardò e tentennò.
- Si tratta pur sempre di mura alte e spesse. Se il coraggio e la spada possono sconfiggere centinaia di giannizzeri, pressochè nulla possono contro i bastioni.
Disse, sorridendo amaramente nel ricordo delle parole di Giorgio Castriota, il principe d’Albania che un giorno lo aveva accolto trai suoi guerrieri.
- Poco o nulla certo. Non possiamo di sicuro cingerli d’assedio nel loro territorio. Verremmo sbaragliati dalle truppe in arrivo da nord.
Aggiunse Angelo, mentre Filippo parve ora sovrapensiero, continuava ad osservare la bussola donatagli da Asbagh.
Poi il suo sguardo indugiò sul corpo di uno dei saraceni.
Un lampo balenò nella sua mente illuminandola con un idea assurda quanto ardita.
- Poco o nulla a meno che... potremmo varcare quelle mura a cavallo e senza perdere un solo uomo.
Disse, suscitando lo stupore di Angelo.
- Che intendi?
Gli chiese l’ammiraglio.
Filippo si chinò sul cadavere del turco ed iniziò a spogliarlo, indossò poi il turbante, le braghe e raccolse una sciabola.
- Un giorno un grande Principe mi disse che esistono diversi modi per conquistare una fortezza e, talvolta, l’astuzia si rivela assai più efficace della spada.
Quando ci vedranno arrivare, crederanno di aprire le porte ai loro cavalieri!
Disse prima di montare a cavallo.
- Che aspettate? Forza! Indossiamo i loro abiti!
Ordinò Angelo.
In men che non si dica uno squadrone di finti giannizzeri cavalcò deciso verso il Ribat e presto furono a ridosso delle mura barbaresche.
La fortificazione era potenziata con torrioni presenti ogni cinquanta passi.
Oltre la prima cinta si potevano scorgere altre torri.
La grata del portale d’ingresso si sollevò con una lentezza che parve infinita, mentre rivoli di sudore percorrevano le tempie dei cavalieri, inermi al tiro degli arcieri, ma le sentinelle furono ingannate.
Riuscirono così a raggiungere a cavallo la cerchia interna, meno presidiata, ed oltrepassarono la porta che immetteva nell’ampio cortile del Ribat.
Erano giunti fin quasi all’Imaterem quando un gruppo di giannizzeri andò loro in contro.
Uno di questi, intravista la croce sotto la tunica di uno dei cavalieri, fiutò l’inganno.
- Hristiyan!
Urlò ai compagni sugli spalti.
A quel punto i cavalieri estrassero le spade e li uccisero prima che riuscissero ad opporsi, ma l’allarme era stato dato.
Giannizzeri iniziarono a spuntare da ogni anfratto del porticato.
Un picchiere turco riuscì a disarcionare Angelo colpendolo il suo cavallo con la lancia.
L’ammiraglio si rialzò rapido e parò i colpi con la sua spada, tuttavia la stanchezza era tale che fu costretto a brandire l’arma con entrambe le mani.
- Sövalye Hristiyan!
Urlavano i turchi dai bastioni, esortando gli arcieri del perimetro esterno a raggiungere la cerchia più interna di mura.
Filippo, intanto, si accorse delle difficoltà di Angelo e subito accorse balzando sui mori dalla groppa del suo cavallo.
Con una spallata atterrò un giannizzero armato di sciabola poi parò il colpo di un altro.
Il suo affondo, rapido e spietato, non lasciò scampo all’avversario.
Angelo si occupò del turco atterrato dallo spintone di Filippo ma presto vennero assaliti da altri nemici.
Un fendente portato all’altezza del volto andò a vuoto, per la prontezza di Filippo, ma fischiò sopra la sua testa facendo volar via l’elmo col turbante, scoprendo il fazzoletto verde che gli cingeva la fronte.
Il colpo fu portato con tale forza che il turco si sbilanciò e cadde in avanti, divenendo facile vittima del morso della sua lama.
- Presto, Filippo, al palazzo! Svelto! Li teniamo a bada noi!
Urlò Angelo. Filippo si diresse verso l’Imaterem, seguito da un manipolo di cavalieri.
Attraversò dei porticati che formavano una selva di colonne maiolicate, oltre le quali una porta ad arco immetteva in un altro cortile.
L’ingresso era sorvegliato da due imponenti guardie che subito si avventarono su di lui assieme ad altri uomini della milizia del Pascià.
I cavalieri riuscirono a spingerli all’interno del cortile ma uno dei due eunuchi si frappose con decisione tra Filippo e la via verso i porticati interni alla corte.
La larga scimitarra guizzò verso il suo fianco ma egli riuscì a parare il fendente, la cui violenza lo sbalzò di lato.
Ogni stoccata indebolì progressivamente la sua capacità di contrattacco e, ad un certo punto, si ritrovò per terra, esausto e disarmato.
L’eunuco si preparò a vibrare il colpo di grazia ma egli lanciò instintivamente verso il suo volto una manciata di pietrisco colpendolo negli occhi e lasciandolo un attimo in-certo.
L’esitazione gli fu fatale, poiché Filippo scivolò verso la sua spada. In un sol gesto la raccolse e vibrò un fendente che raggiunse il fianco dell’eunuco, aprendo una breccia che fece emettere a quell’uomo un urlo straziante prima di crol-lare.
Proseguì da solo, mentre i cavalieri continuarono a tener testa alla guardia di Haseeb.
Si diresse verso la parte opposta del cortile, incurante delle frecce che saettavano dalle strette feritoie delle torri.
Dall’Imaterem sopraggiunse anche Angelo con il resto dei ca-valieri i quali, sopraffatti gli uomini del Ribat, circonda-rono anche le guardie del palazzo.
Filippo non si avvide di ciò, continuò a correre tra i por-tici in cerca di Elena.
Percorse ogni angolo del cortile fino a scontrarsi con una guardia che sbucò da una scalinata interna.
In preda all’ira l’avventuriero si avventò su di lui e, con l’ultimo residuo di forza, gli puntò la lama alla gola prima che l’uomo potesse estrarre la spada.
- Gli schiavi! Dove sono gli schiavi!
Sibilò a denti stretti.
La guardia tentennò.
- Esir!
Ringhiò Filippo, spingendo con più forza la lama contro il suo collo, a quel punto l’uomo indicò il pianerottolo oltre la rampa di scale.
Sottrattagli la spada, lo tramortì sbattendolo contro il muro, poi si precipitò su per le scale irrompendo nell’atrio degli alloggi riservati agli schiavi.
- Elenaa!
Urlò, scrutando una per una le donne che si ritrovò di fronte.
Le schiave, intimorite dal sangue che imbrattava la sua giubba di cuoio, si raccolsero in un angolo.
Un velo scuro ne copriva il volto scoprendo solo gli occhi.
Le loro urla lo confusero.
- Elenaaa... dove sei, Elena!
Cercava negli occhi di ognuna di quelle donne lo stesso sguardo che aveva fatto di lui un uomo migliore ma non vi fu risposta.
- Sono io, Filippo.
Cadde in ginocchio, vinto dalla morsa che strinse il suo cuore fino alla fine di un viaggio che lo aveva condotto ben oltre i confini della sua immaginazione, una morsa che parve annientare ogni suo residuo spirito combattivo.
Le spade che brandiva si fecero pesanti, tanto da scivolargli via dalle mani tremanti.
- Elena...
Continuava a ripetersi.
Nella sua mente riecheggiarono le parole di Asbagh.
- Ricorda, Filippo, Egli è il Compassionevole, il Misericordioso...
- Asbagh.
Sussurrò in lacrime.
Due mani si posarono sulle sue spalle.
Finalmente si arrese alla volontà di un Dio che aveva trovato l’espiazione più amara per tutti i suoi peccati.
Tuttavia quelle mani lo aiutarono a sollevarsi e, quando si voltò, si specchiò in occhi pietosi e grati, quegli stessi occhi che tormentavano i suoi sonni agitati.
La donna gli sfilò dalla fronte il fazzoletto verde e, quando scoprì il suo volto dal velo nero, il cuore di Filippo fu di nuovo libero.
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Racconto di Vincenzo Cortese partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)

giovedì 9 aprile 2009

Gameba, Pictor

Prefatio

Velo d’Astico, Vicenza, anno 2002.

Dopo tanto parlare e scrivere intorno alle affascinanti figure dipinte nella chiesa di S. Giorgio, dopo che di volta in volta in quelle figure si sono visti feudatari, vescovi e signori, finalmente qualcuno ha risolto il mistero del loro significato.

Narratio

Gameba era il soprannome con il quale tutti coloro che lo avevano incontrato ricordavano di averlo sentito chiamare. Per breve tempo, però.
Era infatti sua abitudine soffermarsi per poco in ogni luogo visitato, almeno non oltre i giorni necessari per portare a termine il compito per il quale era stato chiamato e per il quale era pagato.
Non tutti i luoghi gli piacevano o meglio non in tutti i luoghi si sentiva a proprio agio: percepiva che la sua arte non era apprezzata ovunque, non come espressione artistica in sé e neppure perché i committenti provassero avversione nei suoi confronti.
E lui lo capiva e non insisteva oltre.
Invidia forse? Strano a pensarsi, osservando la semplicità e la modestia dei suoi strumenti di lavoro, poco costosi, soprattutto se messi in relazione con il grande impegno di tempo, spazio e forze fisiche necessari al compimento dei suoi lavori.
Nel corso degli anni era stato in Borgogna - bella terra, e ricca anche - ma lì decisamente trionfavano gli artifices - opus artifices probat, lì si diceva - i lapidarii, e per quanti, come lui, viaggiando ricoprivano di colori e immagini quelle pietre squadrate così abilmente, e così abilmente collocate le une accanto alle altre e le une sopra le altre, tutte insieme a formare, passo dopo passo, una sacra architettura, bene, per quelli come lui in Borgogna c’era poco spazio.
Era sceso, dunque, lui uomo del nord, alla ricerca di genti in grado di comprendere la sua arte e di permettere alla sua fantasia e alla sua improvvisazione di librarsi libera nel cielo della spiritualità, in prati che pochi avevano la capacità di calpestare.
Era religioso - e come non esserlo in quel XII secolo così prepotentemente impregnato di spiritualità -, ma la sua religiosità si esprimeva in maniera non tradizionale, attraverso i colori della terra che egli stesso provvedeva a comporre utilizzando ciò Dio aveva messo a disposizione degli uomini.
Proprio per questo, forse, i suoi lavori, per quanto apprezzati per la buona tecnica, non erano di semplice comprensione e spesso rifiutati: né, del resto, Gameba si mostrava particolarmente accondiscendente e comprensivo con quanti cercavano di avvicinarsi e di comprendere nel profondo la sua arte. Nascondeva i materiali utilizzati come se si trattasse di pietre preziose e li teneva rinchiusi in una bisaccia consunta dalla quale sembrava non volersi, anzi non potersi separare.
E poi . . . quelle figure che univano laico e religioso, sacro e qualche volta profano, così difficili da leggere e da interpretare.
Non si trattava quasi mai, come al contrario i committenti avrebbero desiderato e per ciò che avevano pagato, del solito lavoro a fresco che contribuiva a svelare i portentosi misteri della Sacra Scrittura agli analfabeti, né lui si sentiva il solito didascalico autore di immagini semplici - aveva sentito parlare di miniatori dell’Italia meridionale autori di Exultet, veri e propri lavori didascalici a uso e consumo della gerarchia -, per quanto importanti esse fossero per la religiosità del popolo.
Ovunque la sua mano e i suoi pennelli lasciavano segni importanti e indelebili, come se fosse passata una folata di vento, un vento che sconvolgeva le coscienze, che creava turbamento, che affascinava e che ammaliava, ma forse proprio per questo rappresentava un elemento di difficile comprensione.
Nel suo peregrinare, dalla Sassonia ad Aachen, poi verso Parigi, Mâcon, Marsiglia e ancora a nord, attraverso il valico del Moncenisio, aveva conosciuto frescanti che venivano da Nord e da Sud, di Oriente e di Occidente, e da loro aveva appreso tecniche diverse dalle sue. Più di tutti, però, forse per essere uomo del Nord, dicevano freddo e razionale - ma era vero? - era stato colpito da quelli che si definivano Romani, ma che di romano, ai suoi occhi, avevano ben poco.
La carnagione scura, gli occhi piccoli, parlavano sempre della loro terra come della più bella e affascinante che sguardo umano potesse contemplare e amare: Bisanzio la chiamavano, capitale di quelle terre e certo doveva essere affascinante davvero, e raffinata, se dalle loro menti e dalle loro mani potevano scaturire opere di tale raffinatezza.
Ricordava di aver visto qualcosa di simile solo in alcuni codices che si diceva fossero stati miniati per l’ultimo grande imperatore, Ottone il terzo.
Tuttavia, se la sua mente si fermava a riflettere e a ricordare, ecco emergere figure che gli ricordavano l’eleganza di quei profili.
Ricordava di quando, sceso in primavera calpestando le nevi che ricoprivano ancora i ricchi e fertili pascoli del Mont Cenisius, stremato dal freddo e dalle fatiche della traversata, era stato accolto dai monaci che vivevano nel monastero dedicato al principe degli apostoli.
Per la verità non è che in quella valle nascosta e incassata tra i monti facesse meno freddo che tra le stesse nevi del valico ma, per lo meno, i loro fuochi, il calore del refettorio e il loro affetto avevano contribuito a cacciare via i brividi e la febbre che sembravano non volerlo lasciare più. E allo stesso tempo avevano portato un poco di luce nel suo spirito rabbuiato.
Erano trascorsi quasi due mesi dal suo arrivo e le forze erano finalmente ritornate e con esse anche il buonumore: era inoltre sua intenzione sdebitarsi per l’ospitalità ricevuta con l’unica moneta di cui disponeva, la sua arte.
Propose dunque a Mainardo, l’abate, di affrescare una delle sette cappelle che aveva visto frequentate dai monaci nel corso del loro personale pellegrinaggio attorno alla chiesa abbaziale.
Mainardo, uomo di poche parole, ma dallo sguardo vivace ed eloquente, lo prese per mano e lo condusse lungo il pendio che si elevava appena alle spalle del complesso abbaziale e sul quale, a breve distanza l’una dall’altra, si dispiegavano le sette cappelle che ormai, dopo due mesi, gli apparivano assai familiari, sia pure senza esservi, per una sorta di timore reverenziale, mai entrato.
L’abate si diresse senza indugio verso quella più lontana e dal cui piccolo prato che la circondava si godeva una splendida vista sulla valle sottostante, pronta ormai ad accogliere i frutti dell’estate avanzante.
Gameba non capiva quel silenzio e quei gesti compiuti lentamente con religiosa ritualità.
Mainardo estrasse da sotto la tonaca una grande chiave e lentamente aprì la porta della cappella. Il sole che stava salendo da est, già forte e caldo in quella primavera avanzata, contribuì a oscurare l’interno per il forte contrasto che si veniva a creare tra luce e oscurità, quasi simbolo emblematico dei due opposti che da sempre hanno attirato l’uomo.
Alla luce che entrava dalle piccole finestre dell’abside presto i suoi occhi iniziarono ad abituarsi e a mano a mano che il buio lasciava spazio a un debole chiarore, una sorta di stupore frammisto a paura, meraviglia e ammirazione si impadroniva di lui.
Un brivido percorse la sua schiena e le sue ginocchia cedettero sotto tanto peso: cadde su di esse e si segnò.
Mainardo non poteva capire - lui questa volta - che quei gesti erano divisi a metà tra il rispetto per il luogo sacro e l’ammirazione per quelle pareti interamente ricoperte di affreschi dai colori intensi, di volti dai lineamenti inconfondibili, di significati evidenti e frutto delle mani che avevano lavorato in quel luogo.
Riconosceva, in quei tratti, l’eleganza raffinata di quei pittori dalla pelle scura e più di Mainardo sapeva cogliere il significato profondo di quelle figure, sapeva leggere i materiali che erano stati impiegati, sapeva interpretare anche il più piccolo di quei gesti incisi sull’intonaco. Poteva vedere i pittori lavorare intensamente ed alacremente per non fare seccare l’intonaco steso al mattino e poteva vederli, la sera, esausti, ammirare con attenzione i risultati della loro giornata.
Gli pareva di vedere il momento in cui l’ultimo di loro si chiuse alle spalle la porta della cappella dopo aver terminato il lavoro.
Lo sbattere della porta mossa dal vento lo fece trasalire e lo riportò alla realtà.
Mainardo si era allontanato e lo aspettava sul prato, lo sguardo fisso in attesa di vederlo uscire: non ci fu bisogno di parole, entrambi avevano compreso, ciascuno qualcosa che aveva a che fare con il proprio animo.
Gameba che la sua arte non poteva applicarsi a quel luogo che già aveva raggiunto una tale perfezione e Mainardo che il pittore aveva capito e che dunque il suo spirito era elevato e la sua umiltà era grande.
Il pittore del Nord comprese che quello sarebbe stato l’ultimo giorno, per lui, alla Novalesa.
Riponendo gli attrezzi nella bisaccia rivide nitidamente il momento in cui, pochi mesi prima, era giunto all’abbazia stanco e infreddolito. Trattenne a stento le lacrime: quel luogo, quelle persone, quell’atmosfera l’avevano in qualche modo cambiato e la lezione cui l’abate Mainardo l’aveva condotto - e che forse in un altro momento l’avrebbe spinto a una reazione diversa, colma di asprezza e di superbia - era stata per lui una sorta di benedizione.
Senza che alcuna parola fosse uscita dalle loro bocche, egli aveva compreso molte cose e ora, volgendo le spalle al monastero e avviandosi lungo la strada che conduceva a Susa, si sentiva leggero, nel corpo e nello spirito.
A mano a mano che il complesso abbaziale si rimpiccioliva all’orizzonte, iniziavano a riaffiorare quelle immagini che, dal buio della cappella, detta di S. Eldrado per il tema lì raccontato, si erano, prima flebilmente, poi in maniera sempre più nitida, proposte al suo sguardo.
Il suo animo di pittore, che negli ultimi tempi sembrava essersi un poco smarrito riprese vigore e mentre comprendeva che nulla avrebbe potuto aggiungere di più alto a quelle immagini contemporaneamente sentiva dentro di sé che Mainardo aveva voluto dirgli qualcosa di importante. Ora gli sembrava naturale avere abbandonato quel luogo che era stato per lui amore e protezione e incamminarsi su vie che conducevano là dove la sua arte poteva finalmente trovare gli spazi per manifestarsi come mai era riuscita a fare.
Non cercava il successo degli uomini, non il denaro, ma una ricompensa più alta, spirituale, così come sembravano suggerirgli i lontani pittori dalla pelle scura.

Trascorse molti anni - dieci? - durante i quali il suo spirito divenne via via più inquieto.
Lungo le coste della Provenza conobbe uomini dalla pelle scurissima condotti in catene e vide uomini bianchi, poco oltre, trascinati prigionieri da uomini scuri.
Tornò verso nord, attratto dal richiamo della sua terra e si spinse ad oriente al seguito di quei monaci che si dicevano Cistercenses e che operavano incessantemente per dissodare e bonificare terreni sui quali avrebbero eretto grandi chiese abbaziali e molti edifici votati a favorire la coltivazione della terra stessa e alla conservazione dei prodotti.
E lavoravano essi stessi insieme ai laici, sudando e religiosamente imprecando per accelerare i lavori di costruzione di chiese così grandi che solo raramente aveva avuto modo di vedere: e strane, con quegli archi a punta che sembravano creati dalla forza delle pareti che premevano le une contro le altre, così intensamente che la navata sembrava sempre sul punto di restringersi e accartocciarsi.
Ma le chiese restavano in piedi e attorno a loro crescevano i fabbricati di dimensioni altrettanto notevoli all’interno dei quali - non certo come alla Novalesa - trovavano posto contadini, muratori, fabbri e uomini dediti a ogni tipo di attività manuale che potesse contribuire a innalzare gloria a Dio e ad aiutare i monaci nello svolgimento del compito quotidiano di sopravvivenza.
Per quanto ammirato da tanto fervore, tuttavia, Gameba comprendeva bene che per lui non c’era posto in quei territori. Bernardo, colui che più di tutti aveva contribuito alla nascita del nuovo ordo, si diceva nutrisse una forte avversità per ogni forma di immagine, che fosse scolpita nella pietra o dipinta sulle pareti di una chiesa. Gameba non capiva quell’atteggiamento - e poi sarebbe rimasto senza lavoro se tutti l’avessero pensata come Bernardo! -. Lui che, pure credente, non poteva definirsi un grande conoscitore di testi sacri, ricordava tuttavia le parole di papa Gregorio: “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture”.

Decise allora di andare via e di dirigersi verso sud, inconsciamente pensando di raggiungere le terre degli uomini dalla pelle scura. Optò per sicurezza di non percorrere le aree troppo orientali, che si diceva fossero ancora abitate da popolazioni non soggette all’autorità degli imperatori germanici e di portarsi, allungando un poco il percorso, più a occidente, valicando le Alpi attraverso il passo del Brennero, sufficientemente tranquillo e ampio, oltre che ricco di punti presso i quali chiedere un po’ di ospitalità.
Forse per inesperienza, forse così volle il destino, si tenne troppo a oriente e si ritrovò a dover transitare per una zona di montagna che tuttavia, benché ricca di boschi, gli sembrò piacevole e non particolarmente inospitale: e poi, nonostante tutto con sentieri che al suo passo, ora se accorgeva, non più agile come alcuni anni prima, apparvero sufficientemente percorribili.
A questo punto si rese perfettamente conto che andava a tentoni, senza coordinate e semplicemente seguendo una sorta di istinto nascosto. Dormì all’aperto o con ripari di fortuna, seguendo il sud come fosse una metà agognata. Passò una stretta valle che gli procurò alcuni timori a causa di numerose incisioni sulla pietra di cui non sempre riusciva a cogliere il significato e ancor più, se erano state realizzate da uomini che ancora si trovavano lì e spiavano il suo incedere timoroso.
Finalmente la strada sembrò allargarsi e con grande sorpresa trovò un modesto hospitium - in un luogo noto come Brancafora venne poi a sapere - dove poté riposare e rifocillarsi in maniera adeguata dopo tanti giorni vissuti cibandosi in maniera approssimativa. Poiché nel corso del suo peregrinare aveva raccolto i frutti di qualche piccolo lavoro compiuto qua e là, decise di fermarsi per l’inverno e fu lì che seppe da alcuni uomini che in un borgo vicino, Velo, era appena stata ultimata la costruzione di una chiesa che, nella Settimana Santa sarebbe stata consacrata e dedicata a S. Giorgio.
Si diresse dunque verso quel luogo all’inizio della primavera e, come gli avevano detto, tutto era pronto per il rito che si sarebbe svolto di lì a poco: volle vedere l’edificio, che svelava tutta la semplicità di quelle popolazioni, ma anche la loro povertà. Non vi era un solo piede di muro ricoperto da affreschi e la navata si presentava spoglia e fredda: nulla poteva colpire maggiormente il suo cuore e come in una sorta di stretto legame la sua mente andò a quel giorno in cui l’abate Mainardo gli aprì le porte del paradiso alla Novalesa.
Come poteva restare impassibile di fronte a tanto vuoto? Come poteva accettare che una chiesa fosse consacrata nella più totale nudità dei suoi muri? Forse aveva trovato lo scopo della sua vita e non perse tempo a cercare il presbiter designato a curare le anime di quel villaggio così lontano dalle città affollate che sapeva avrebbe incontrato poche decine di miglia più a sud.
Non voleva denaro, lo fece subito intendere, ma chiedeva in cambio la più totale libertà di espressione nel suo lavoro, sia pure nel pieno rispetto della sacralità dell’edificio. E così ottenne.
E chiese anche di non essere disturbato, ben sapendo che mancavano pochi giorni alla consacrazione e che avrebbe dovuto lavorare sodo. E così ottenne.
E poi chiese se qualcuno era disposto ad aiutarlo nei lavori di stesura dell’intonaco, sempre che qualcuno vi fosse in grado di farlo. E così ottenne, felice che il suo aiutante fosse muto.
Due giorni dopo, come ringiovanito, all’alba prese a lavorare.
L’intonaco steso di fresco aveva nella sua mente i colori e le forme che in breve tempo si era immaginato e così non dovette perdere tempo a modificare e cancellare. Quell’uomo crocifisso sarebbe stato ricordato entro breve, ma Gameba volle ricordare i bambini morti perché Lui si salvasse: quante volte, ascoltando la letture della pagine sacre che ricordavano la strage compiuta da Erode non era riuscito a trattenere le lacrime!
Ma un altro episodio riempiva il suo cuore e a quello aveva deciso di dedicare lo spazio maggiore. Ricordava perfettamente i codici miniati per l’imperatore e vedeva quelle figure stagliarsi entro arcate classiche: avrebbero compreso a Velo il significato di quelle immagini? Non era per lui così importante e certo avrebbe loro spiegato da dove provenivano. Da quel momento per lui non ci fu più sosta e costrinse il suo aiutante a lavorare a intervalli regolari giorno e notte: poteva riposarsi soltanto mentre Gameba lavorava, ma doveva restare lì, pronto ad aiutarlo a stendere l’intonaco per proseguire con celerità
Le figure sulle pareti acquisivano di momento in momento il profilo desiderato dal pittore del Nord: di giorno la luce del sole, di notte le torce, lontane dalle pareti per non rovinare il lavoro, permettevano di continuare senza sosta finché, due giorni prima della Domenica delle Palme, il lavoro era concluso.
Lo avrebbe mostrato soltanto il mattino dopo, non prima comunque di avere comunicato che mentre la popolazione andava a osservare il risultato lui si sarebbe goduto un sonno meritato: poi, se fosse stato necessario, avrebbe risposto a tutte le domande. E così fu.
Non senza un poco di trepidazione le porte della chiesa si aprirono e agli occhi dei presenti si presentò un quadro a dir poco contrastante: le immagini della strage voluta da Erode erano sovrastate per importanza e colore dai quadri superiori. Entro arcate che sembravano di una chiesa si vedevano uomini, ma uomini che non parevano appartenere alla chiesa, anche se riccamente vestiti, forse nobili, offrire doni a un giovane seduto su un trono: e la scena si ripeteva altre due volte, ma variava la figura di colui il quale riceveva i doni.
Lo stupore lasciò a poco a poco il passo a una sorta di smarrimento, di desolazione, poi di rabbia per una raffigurazione che nessuno era in grado di comprendere e che sembrava offendere quel luogo. Tutti i presenti ebbero simultaneamente lo stesso pensiero e si volsero verso la porta con la ferma intenzione di trovare Gameba e chiedere spiegazioni del perché li avesse ingannati con le sue richieste e le sue promesse.
Si voltarono dunque, ma quale fu il loro stupore nel vedere di fronte alla porta tre uomini dalla carnagione scura, in ginocchio e in preghiera di fronte a quelle immagini!
Loro sì, loro capivano e spiegarono agli uomini lì radunati che quelle figure altro non rappresentavano se non i tre Magi che, come raccontavano le cronache orientali, nel fare visita al piccolo nato si trovarono per tre volte di fronte a un uomo diverso: giovane prima, adulto poi, e infine anziano, gravato dal peso non degli anni, ma dalle fatiche di reggere il mondo. Esattamente come i tre uomini che ricevevano i doni erano raffigurati. GAspare, MElchiorre e BAldassarre erano i nomi dei Magi.
Tutti dunque corsero fuori e si recarono nel luogo in cui Gameba riposava per ringraziarlo e per domandargli perdono della loro superficialità. Lo trovarono sorridente sul giaciglio, ma ora egli non poteva dare più risposte, dormiva un sonno lungo e ristoratore accanto alle figure che con tanta forza aveva cercato nel suo cuore e aveva dipinto con i suoi strumenti.

Postfatio
Oggi a Velo d’Astico rimangono due soltanto dei riquadri di Gameba: il terzo è volato via con lui e ha lasciato sul muro pallide tracce.
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Racconto partecipante alla seconda edizione di © Philobiblon (2007)