mercoledì 25 novembre 2009

Ubertino non si fa frate


Il Maestro ormai era stanco, camminava appoggiandosi al bastone. Il loro lungo cammino di romei stava per compiersi, ed era tempo: erano partiti cinque mesi prima da Reims. Solo poche tappe separavano il Maestro e il suo allievo da Roma, la meta del loro pellegrinaggio.
Ubertino l’accompagnava, come usava in quei tempi, per imparare dal Maestro la saggezza, prima di entrare in convento. Aveva diciannove anni e una venerazione profonda per lui, ma anche uno spirito indipendente che lo faceva pensare con la sua testa. L’obbedienza e il rispetto gli erano stati insegnati e Ubertino metteva in atto questi princìpi con scrupolo; tuttavia non poteva impedirsi di riflettere su ogni cosa che il Maestro gli spiegava, e commentarla, e approfondirla dentro di sé. Qualche volta manifestava al Maestro le sue conclusioni od obiezioni, il più delle volte no, teneva per sé i suoi pensieri.
Era quasi il tramonto. Le dolci colline della campagna romana erano verdi di prati immensi. Un gregge si stagliava sul filo dell’orizzonte. Era tempo di fermarsi, di cercare un rifugio per la notte.
Arrivarono ad una vasca per abbeverare le greggi. Vicino c’era anche un ovile, con un piccolo riparo dal tetto di canne. Il Ubertino vi entrò e appoggiò il sacco con un sospiro soddisfatto; poi si recò presso l’abbeveratoio. Una deliziosa acqua leggermente frizzante cadeva da un tubo sopraelevato nella vasca, da lì traboccava e si perdeva in mille rivoli nei campi, per finiva nel fiume che si intravedeva tra i salici della riva. Ubertino e il Maestro si lavarono la faccia, le mani, i piedi. Bevvero a lungo e riempirono le loro borracce.
Ubertino sedette sul bordo della vasca e alzò gli occhi. Grandi ombre correvano sotto il cielo di un meraviglioso celeste. La luce arrivava a sbalzi attraverso gli ombrelli dei pini. Il gran sole tramontava in pace, fiammeggiante. In ciò che rimaneva del giorno la vita si affrettava: un lungo triangolo di anatre volò bassissimo sul fiume, come stesse per prender terra. Ma tutt’a un tratto quella che era in testa allo stormo raddrizzò il collo, risalì e dietro la prima tutte le altre s’impennarono con strida selvagge. La vita del giorno moriva, e prima che fosse sostituita da quella notturna, c’era un lungo momento di calma, silenzio ed attesa.
Un vecchio sarcofago romano, disse il Maestro osservando la vasca. Publio Licinio Calpurnio, compitò leggendo le abbreviazioni latine sul bordo.
Il suolo attorno all’abbeveratoio era ricoperto di lastre polverose e piatte, prese dal fiume. La luce radente le illuminava. Ubertino vide delle lettere incise su una di esse.
Guardate, Maestro.
Sembra un’iscrizione in latino. Forse una parte del coperchio del sarcofago.
Il Maestro si inginocchiò e versò dell’acqua dalla borraccia per schiarire la scritta. Altre lettere prima coperte dalla polvere comparvero, consumate dagli zoccoli di mille armenti che erano venuti a dissetarsi alla fontana.
Non è latina ma è scritta in latino, disse il Maestro.
E con molta fatica e ripensamenti tradusse:
Qui è racchiusa l’anima del dottor Guglielmo d’Acqualagna.
Che cosa strana!, commentò Ubertino.
Ah, davvero!, rise il Maestro. Un epitaffio ridicolo, pare uno scherzo: chi è quel cristiano che si fa seppellire qui, in terra sconsacrata, calpestato dalle greggi e dai pastori? Che sia stato un giudeo? Chissà.
Il Maestro riempì di nuovo la borraccia, e si diresse verso l’ovile. Ubertino rimase accosciato presso l’iscrizione a pensare.
Vieni a mangiare un boccone, lo chiamò il Maestro che stava tirando fuori dal sacco la cena di pane, formaggio e olive.
Il tramonto cadde all’improvviso come un sipario grigio e impalpabile. Ubertino si tirò su: il cielo sopra la sua testa era diventato color verde mela, percorso da sottili vele di color rosa. Tutto era certamente come prima, i prati verde cupo, il sentiero color ocra, i due pini presso la fontana, il cielo con i suoi campi di nuvole. Ma nulla era più come prima: il tramonto aveva isolato ogni cosa, l’aveva coperta della vernice della caducità, per offrirla in scarificio alle ombre della sera. Un silenzio profondo si sparse sulla campagna, rotto soltanto da qualche isolato scampanio del gregge all’orizzonte.
Ubertino rabbrividì ed entrò al riparo del tetto di canne.
La cena fu silenziosa, come da tradizione. Appena fu scuro del tutto, dopo un ultimo sorso alla fontana si avvolsero nei loro mantelli e si misero a dormire.
Si svegliò nel pieno della notte. Tutto era silenzio attorno, in alto le stelle continuavano il loro silenzioso e preciso cammino, docili come un immenso gregge.
Il giorno è la vita degli esseri, ma la notte è la vita delle cose e quando non se ne ha l’abitudine fa paura. Ma Ubertino non aveva paura: conosceva la notte all’aperto, e i suoi silenzi misteriosi. Ad occhi aperti pensava all’iscrizione sulla pietra piatta presso l’abbeveratoio.
Dopo un po’ si alzò in silenzio, e aveva il coltello in mano. Si mise a scavare attorno alla pietra, nel buio che andava schiarendosi. La terra era umida tra le lastre e veniva via facilmente; ma quella con l’iscrizione era grande, e spessa più di quanto non avesse immaginato: ci mise parecchio per liberarla sui lati. Infilò un coltello sotto e provò a far forza per sollevarla. La lastra resisteva. Gli venne il dubbio che sotto non fosse piatta, ma continuasse, immersa e solida nel terreno sì che quel suo scavare risultava vano. Ma non era così: dopo qualche sforzo la lastra iniziò a sollevarsi: ci infilò sotto due dita, poi la mano intera e alla fine la alzò e la ribaltò su un fianco.
Alla luce grigia dell’alba vide piccoli insetti e lombrichi agitarsi impazziti nelle loro tane sconvolte. C’era una piccola buca sotto la pietra, con un pacchetto incartato di pergamena. Ubertino lo prese e lo scartò. Venne fuori una scatoletta di legno d’olivo, mille piccoli dischi lucenti caddero nella polvere: erano scudi d’oro. Prese la pergamena e la rivolse verso oriente per leggerla alla luce tenue dell’alba. Tradusse il latino:
Sii mio erede tu, che hai avuto tanta acutezza da interpretare il senso dell’iscrizione, e sappi servirti del mio denaro meglio di me.
Ubertino sorrise, si sollevò e andò alla fontana a lavarsi le mani e la faccia. In quel momento decise di non farsi frate.
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Racconto di Alessandro Cuppini partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)