giovedì 12 febbraio 2009

La selva

Ultima regna canam, fluvido contermina mundo,
spiritibus que lata patent, que premia solvunt

pro meritis cuicunque suis;

LA SELVA


Verso sera l’acquazzone estivo si era esaurito e le nubi lasciavano spazio ai raggi dorati del tramonto. Dall’alto della collina l’uomo a cavallo di un mulo inspirò l’odore di terra bagnata e assaporò il soffio della brezza marina sul suo volto, mentre gocce d’acqua colavano ancora dal cappuccio del sanrocchino. In cielo frotte di gabbiani stridevano sospesi a mezz’aria sfruttando le correnti ascensionali.
Davanti a lui, arroccato sulla sommità di un costone che scendeva dolcemente fino al mare e alla foce del fiume Magra, in un trionfo di ulivi e orti, si ergeva il monastero di Santa Croce del Corvo, fondato dai monaci Agostiniani più di cento anni prima per conservare la venerata Santa Croce.
Non si vedeva nessuno.
Scese dalla bestia e girovagò intorno alle mura immerso nei suoi pensieri.
-Che cerchi?-lo interpellò una voce alle sue spalle.
Egli non rispose e con aria assorta continuò a rimirare l’ingresso del convento.
-Che cosa vuoi?- ripetè il monaco. Intorno si era già raccolto un gruppetto di confratelli incuriositi.
-Pace.- rispose finalmente il forestiero.
Il monaco aprì le braccia sorridendo – Pax vobiscum. Siete il benvenuto in questo luogo del Signore. Io sono Ilaro, voi chi siete?-
-Et cum spiritu tuo. Sono Messer Dante Alighieri e giungo esule da Firenze.-
Il volto di Ilaro si illuminò e tra gli altri monaci si levò un mormorio di gioia e stupore.
-Quale onore Messer Dante! Questo convento è ben lieto di conoscere personalmente un poeta di cui in questa terra di Lunigiana si è già sparsa larga fama. Sappiamo inoltre che i signori Malaspina vi hanno investito dell’incarico di ambasciatore. Ma venite, venite, saremo ben lieti di ospitarvi nella nostra foresteria.-

-Non avete dunque intenzione di fermarvi qui a lungo?-
-No, padre, sono in cammino per giungere al di là delle Alpi, a Parigi, dove mi accingo ad approfondire lo studio della scienza e della teologia presso lo Studium della Sorbona.-
Dante lanciò uno sguardo al fagotto legato con le cinghie di cuoio in cui erano riposte le sue carte gelosamente custodite. Aveva mangiato parcamente, come era sua abitudine, e scambiava quattro chiacchiere con il suo ospite prima di coricarsi.
-E’ la prima volta che andate da quelle parti?-
-A dire il vero proprio ora pensavo che sono passati dieci anni da quando vi soggiornai la prima volta.-
L’uomo sembrò allora sprofondare in un pensoso silenzio, fissando i ciocchi di legno scoppiettanti nel grande camino in pietra. Si crogiolava davanti a quel calore benefico per i dolori alle ossa che lo affliggevano sempre più spesso.
Ilaro osservava di sottecchi il volto segnato dalle sventure, l’imponente profilo dal naso storto, gli occhi attenti e vivaci da uccello rapace, l’espressione severa e corrucciata.
Poiché l’ospite non accennava a riprendere il dialogo il monaco azzardò:-State pensando a quei giorni lontani?-
Dante si ridestò dalla sua meditazione:-Sì, riflettevo su come, inseguendo i dettami della filosofia, sia giunto a smarrirmi in una selva oscura in cui conobbi come l’uomo che perde la grazia divina può diventare simile a lupo rognoso…-
-Non vi comprendo Messere…- disse il monaco perplesso.
-Ora vi racconterò un fatto non conosciuto da alcuno che mi accadde in terra di Francia proprio dieci anni fa.-

In quell’anno l’estate fu insolitamente infuocata.
Quando il sole giunse allo zenit mi trovavo ancora a circa tre miglia dalla città di Macon.
Cadeva proprio il giorno in cui il Cancro cede il posto al torrido Leone e l’aria era così calda che a respirarla bruciava la gola. Le cicale frinivano come impazzite di gioia
Inquieto cercavo una fonte dove dissetarmi e riposare al fresco per poi riprendere il mio cammino verso il Vicus Straminum a Parigi, dove mi attendevano i maestri allievi dei grandi Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante. Decisi dunque di inoltrarmi nella selva detta Chatenet per godere almeno dell’ombra delle querce secolari.
Procedevo ben vigile sul dorso del mio docile mulo, attento a non farmi sorprendere da qualche brigante o qualche disperato imbestialito dalla carestia che stava affliggendo la zona in quei mesi.
Scorsi allora un pastore di porci che pascolava una piccola scrofa pezzata. Lo salutai e gli chiesi se ci fosse qualche luogo per ristorarsi in quella solitudine. Egli mi consigliò gentilmente di imboccare uno stretto sentiero poco più avanti e di raggiungere una piccola chiesa dedicata a San Giovanni accanto alla quale c’era una casa ospitale. Dopo aver ringraziato il buon uomo imboccai il sentiero che percorsi per un lungo tratto, ma ad un certo punto cominciò ad inselvatichirsi e a confondersi nell’erba alta. Ormai spossato, in cuor mio mi rifiutai di tornare indietro ed essendomi accorto che la strada si stava inerpicando, addentrandomi nel fitto della selva, tra mille difficoltà e deviazioni, riuscii a raggiungere la sommità. Con grande sollievo scorsi che proprio lì sorgeva il luogo descrittomi dal porcaro. Rimasi però deluso e turbato vedendo che la piccola cappella era in stato di abbandono e vicino sorgeva solo un lurido tugurio con le finestre sprangate.
Avvicinatomi alla stamberga il mio naso colse un lezzo ripugnante. Mentre ragionavo sul da farsi la porta si aprì e ne uscì proprio il guardiano di porci. Con fare amabile mi invitò ad entrare lodando la bontà del suo vino e del suo cibo.
Ora, vedete, mio buon Ilaro, vi dirò che rimasi assai sorpreso dalla prontezza con cui l’uomo mi aveva preceduto nella sua tana, come se avesse conosciuto altre vie molto più agevoli per raggiungere il posto e la sua gentilezza mi sembrava ostentata, ma poiché viveva in quell’eremo pensai che benedicesse il Signore per la fortuna di accogliere un ospite straniero con cui scambiare qualche parola e magari ricevere un soldo o due. Scesi dunque dal vecchio mulo ed entrai.
Appena ebbi posto piede all’interno della capanna rimasi senza fiato per l’odore dolciastro che mi parve subito essere carne marcia. Al centro della stanza scorsi nella fioca luce un grande tavolo sbilenco e uno sgabello dove fui fatto accomodare. Mi guardavo intorno cercando di abituare gli occhi all’oscurità dell’antro cercando di scacciare gli sciami di mosche che svolazzavano ovunque. Sul tavolo fu servito del vino e una focaccia con della carne fredda ed il mio ospite si sedette di fronte a me invitandomi a servirmene. Il fetore mi stomacava a tal punto che ero più propenso ad andarmene che a toccare la pietanza, ma poiché mi fissava con volto gioviale e speranzoso pensai almeno di fargli cosa gradita bevendo alla sua salute. Il vino, oltre che a sapere d’aceto aveva un sapore amaro che mi lasciò perplesso.
L’uomo, che si chiamava Marcel, insistette perché mangiassi, ma io mi limitai a chiedergli da dove venisse tutto quel lezzo. Egli fece uno strano sorriso e i suoi occhi si volsero verso l’alto. Al che mi sforzai di penetrare quelle tenebre, interrotte qua e là da qualche raggio di sole che filtrava tra le travi sconnesse del tetto. Mi parve in effetti di scorgere delle forme arrotondate su delle assi appese agli angoli del tugurio.
Bussarono alla porta. Quando Marcel aprì l’uscio ad una laida megera allora vidi con chiarezza quali empi arredi fossero posti nell’angolo illuminato: crani di uomini, donne e bambini, alcuni ridotti a teschi, altri con le carni liquefatte e i capelli ancora attaccati. La visione fu fugace perché la donna fu fatta subito accomodare al mio tavolo e la stanza ripiombò nella penombra.
Nonostante fossi colmo di orrore e di sdegno, scelsi di dissimulare i miei veri sentimenti stando all’erta e osservando le mosse del folle. Mi sentii come Ulisse prigioniero nella caverna del Ciclope antropofago, anzi, con indicibile nausea pensai che la carne sul mio desco potesse appartenere a chissà quale sventurato mortale di cui il mostro aveva scelto di nutrirsi per sfuggire ai tormenti della carestia. Dallo sguardo beffardo e divertito della vecchia sdentata supposi che fosse complice dell’assassino. Ella fu servita con le mie stessa pietanza e con disgusto la osservai divorare oscenamente quell’immondo pasto fissandomi negli occhi.
Capii che il sinistro padrone di casa mi aveva attirato in una trappola mortale. Era essenziale che non notasse che avevo compreso la situazione. Cominciai allora a lodare la frescura di quella bicocca e a parlare del più e del meno e nel frattempo sotto la guarnacca cercavo il pugnale che portavo sempre legato alla cintola. Marcel mi invitò a bere ancora, ma io temporeggiai e assaggiai appena la mistura sospetta. Cominciai allora ad informarmi sulla via per Macon dicendo che avevo un appuntamento verso l’ora del tramonto e che era tempo di affrettarmi.
Dopo aver invocato dentro di me la protezione della Vergine, di S.Lucia e della mia beneamata Beatrice, tranquillamente mi alzai per andarmene, pronto all’inevitabile scontro, giacchè ero certo che non mi avrebbero lasciato uscire facilmente, ma con mia gran sorpresa sentii che le gambe non mi reggevano più.
Crollai a terra come corpo morto tra le risa di scherno dei due. Chissà quale ignobile pozione aveva preparato quella strega per rendere inermi le vittime ignare che assaggiavano il vino infernale offerto dal suo socio.
Volli però tentare di coglierli di sorpresa, come il divino Ulisse che si aggrappò al ventre di un montone così io scelsi di strisciare al riparo del tavolo invece di cercare una vana via di fuga verso la porta, che, considerata la mia miserevole condizione mi avrebbe esposto agli attacchi indifeso come un verme. Appena i due turpi figuri si avvicinarono con il mio fido pugnale sferrai un assalto alle loro gambe, menando profondi fendenti. Dalle risa passarono alle urla e vidi Marcel chinarsi con un ascia in mano tentando di stanarmi, ma come un leone in trappola torcendomi continuai a colpire il nemico finchè riuscii a trafiggere il braccio destro dell’uomo che con un ruggito di dolore lasciò cadere l’arma che io prontamente raccolsi.
Come iene che tentano l’assalto ad un leone ferito vigliaccamente si ritraggono dagli artigli del fiero animale, così quelli scapparono non appena compresero che la cattura non sarebbe stata facile.
Spossato mi appoggiai seduto ad una gamba del tavolo attendendo speranzoso che finisse l’effetto del veleno, all’apparenza della famiglia delle cicute. Pregavo anzi che non mi toccasse in sorte la fine del sommo Socrate e ancor più pregavo perchè temevo che il sinistro individuo fosse andato a chiamare rinforzi, ma per fortuna quando verso sera ritornai padrone delle mie gambe, nessuno si era fatto vivo.
Corsi in città dove informai il signore del luogo e tutta la cittadinanza di quello che avevo scoperto. Fu subito mandata una folta schiera ad indagare: essi raggiunsero senza indugio il posto e trovarono quarantotto teste di persone uccise le cui carni erano state divorate dalle fauci belluine di Marcel. Setacciarono palmo a palmo la foresta e finalmente scovarono nascosti in una piccola grotta i due immondi assassini, che si rivelarono essere madre e figlio. Li trascinarono in città, li legarono ad una trave dentro un granaio, come abbiamo poi direttamente constatato e diedero loro fuoco.
Vi assicuro Messere che mai è stata eseguita più giusta condanna e mi auguro che essi possano bruciare ancora cento volte tra le fiamme dell’inferno.

Il mattino successivo Dante volle pregare innanzi al prezioso crocifisso ligneo gelosamente conservato nel monastero.
Osservava rapito il suo aspetto originale. Era infatti un crocifisso tunicato e Cristo indossava anche dei calzari. Il suo volto fissava il fedele solenne e trionfante.
Ilaro gli si avvicinò soddisfatto per il vivo interesse suscitato nel grande dotto da quel tesoro.
-Voi di certo conoscete la storia di questa venerato crocifisso.-
-Vi confesso che ne conosco solo la grande fama dovuta ai suoi poteri taumaturgici.-
-Sappiate dunque che la storia narra che fu sbarcato a Luni dalla Terrasanta ai tempi della folle persecuzione iconoclastica di Leone Isaurico e sembra che esso sia opera della mano di Nicodemo, che una volta deposto dalla croce e sepolto Nostro Signore, divenuto scultore, decise di ritrarlo in croce. Ecco dunque un vero Volto Santo, il più prezioso dei tesori.-

Il sole era ormai alto nel cielo e Dante si preparava a partire. Legati stretti i suoi pochi beni alla sella del mulo salutò calorosamente i monaci e abbracciò commosso Ilaro che ricambiò con calore.
-Amico mio, sono convinto che non a caso il Signore abbia guidato i miei passi fino a qui, proprio oggi che parto verso le regioni oltremontane. Tu mi hai accolto come un fratello, a te ho narrato per primo quel lontano episodio della selva di Chatenet, tu mi hai mostrato il tuo tesoro più prezioso e io voglio farti dono di una copia del mio tesoro affinché tu tenga più ferma memoria di me.-
Estrasse dal fagotto un rotolo di fogli tenuti stretti con una cordicella e la porse al monaco commosso.
-Ecco una mia opera che forse non hai mai visto: la prima cantica del grande Sacro Poema. Trattasi di un viaggio nei tre regni d’Inferno, Purgatorio e Paradiso. Qui ti porgo l’Inferno, dove tutto inizia con me medesimo perso in una selva selvaggia. Copiatelo nel vostro scriptorium e fatene a vostra volta dono al signore di Luni Uguccione della Faggiuola, affinché mi accordi la sua benevolenza. La seconda e la terza parte le dedicherò al marchese Moroello Malaspina e a Federico d’Aragona re di Sicilia.-
Ilaro impaziente per l’onore che gli era stato concesso srotolò i fogli e cominciò a leggere: -Nel mezzo del cammin di nostra vita…-
Dante potè leggere sorpreso un’espressione di delusione sul suo volto.
-Ma è scritto in lingua volgare, non vi sembra, Messere che il latino sarebbe stato più appropriato ad un poema sacro?-
-In verità amico, il proposito iniziale era stato il latino, ma poi, avendo considerato il disprezzo del tempo presente anche per i poeti più illustri in volgare e l’insuperabile grandezza di quelli passati che poetarono in latino, ho deciso di deporre la mia piccola lira latina e optare il volgare.-
Ilaro sorrise e risistemò con cura i fogli.
-Così da oggi questo monastero possiede un tesoro in più. State tranquillo Messere che il signore della Faggiuola ne riceverà una copia.-

Quel mattino Dante si avviò verso il suo destino con il cuore più leggero. Ilaro rimase ad osservarlo scomparire in lontananza con i fogli stretti in pugno, poi corse veloce verso lo scriptorium.
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Racconto partecipante alla seconda edizione di © Philobiblon (2007)

martedì 3 febbraio 2009

Le lai dam Iset (di Francesca Righetti)


Assai mi piace e ben lo voglio

non di quel lai del Caprifoglio[2]

ma d'un altro ormai scordato

c'hanno i Bretoni obliato,

narrarvi e dirvi la natura

come racconta l'avventura[3].

Di dama Isotta il lai vi canto

che per amore soffrì tanto

lei lo fece e lo inviò

a Tristano che un tempo amò...

Ti scrivo seduta allo scrittoio della mia camera nuziale.

Marco non è ancora rientrato dalla caccia ed è quasi sera, una sera pallida e delicata che scende soffusa a cullare la Cornovaglia, e la fa rassomigliare alle terre d'Irlanda, così lontane.

Alla luce della sera, come in un limbo, tutti i luoghi si confondono e si assomigliano di più.

La Cornovaglia che conobbi già ragazza, dove tu mi portasti per sposare un uomo mai visto, e l'Irlanda a cui mi strappasti, terra della mia infanzia, di giorni felici e spensierati nei quali l'amore non era che un desiderio e il dolore solo una nuvola nel cielo estivo, hanno lo stesso volto in questa sera d'autunno, si sovrappongono nella mia mente e io non so più riconoscere, tra i ricordi, cosa appartiene all'una e cosa all'altra.

Così forse brilla della stessa luce la Bretagna dove consumi il tuo esilio, sposato a una donna che non ami e a cui non ti vuoi concedere, una donna dalle mani bianche che porta il mio stesso nome e ti ama d'un amore forse più vero del mio.

Tre terre che racchiudono la nostra storia e il nostro destino, come conchiglie.

Ma oggi, Tristano, oggi sono stanca di parlare di destino.

Oggi voglio stringere tra le mani la mia vita come posso stringere questa penna e decidere cosa scrivere.

Ero una bambina quando ti incontrai per la prima volta, tu, l'eroe che aveva sconfitto e ucciso il Moroldo, fratello di mio padre, tu, il cavaliere perfetto, dalla bellezza divina...no Tristano, non mi ispirasti alcuna simpatia, allora. Perché avresti dovuto?

Arrivasti ferito, ma eri superbo ed altero, tronfio della tua perfezione.

E mi guardasti come tutti mi guardavano, colmo di desiderio, traboccante di voglia. Non avevi mai visto una donna più bella e ti folgorò il pensiero che io sola sarei stata degna di te.

Non me ne preoccupai molto. Eri soltanto uno tra i tanti. Più bello forse. Più galante. Più forte. Ma in fondo solo l'ennesimo spasimante alla corte di Elena. Aspettavo ancora il mio Menelao. Aspettavo qualcuno che giungesse inaspettato, umilmente e senza clamore, che mi amasse d'un amore dolce, che scrivesse per me una favola e mi accompagnasse per mano a conoscerla.

Non volevo cavalieri.

Non volevo eroi.

Isotta, principessa d'Irlanda, maga e guaritrice, voleva allora soltanto un uomo.

Sposerai il re di Cornovaglia, mi disse mia madre.

Così finirono dei sogni, finirono le speranze bruscamente ricondotte alla gravità dei miei principeschi doveri.

Mi imbarcai con te su quella nave, il filtro che conoscendomi troppo bene mia madre aveva preparato per farmi innamorare di Marco lo bevemmo noi, mentre giocando a scacchi ci stavamo sfidando e studiando l'un l'altra, e il resto, nostro malgrado, è storia nota.

E' la storia del terribile errore che commisi sacrificando Brangania, la sola amica che avessi, alla mia felicità...ed ebbe bene il diritto di odiarmi! Oh se potessi averla accanto, adesso, che mai un'ancella più fedele e più nobile è vissuta!

E' la storia della nostra follia, dei nostri inganni, degli infiniti stratagemmi che inventammo.

Da allora non ho più rivisto l'Irlanda.

Da allora sono cresciuta.

Quella passione ci ha consumato e mi ha cambiato.

Ho lasciato tutto per seguire te, per vivere nel peccato e nella povertà. Io, spergiura come sempre, alla fede data ho presto fatto ingiuria, prigioniera della mia malafede, un vizio antico, mi disse Brangania offesa e tradita.

Aveva ragione.

Tu, Tristano, mi hai strappato ai miei cari, alla mia terra, ma nulla mi importava al di fuori di te.

Bel dolce amico, ti chiamavo allora, mio signore.

Ma quando l'effetto del filtro dopo tre anni è finito, quando sono tornata padrona di me stessa e mi sono trovata sporca e mal vestita in una foresta popolata di belve, allora, improvvisamente, ho capito.

Tu eri ancora quello che mi aveva portato via dall'Irlanda, eri ancora il cavaliere perfetto che tutti ammiravano, a cui i ragazzi volevano assomigliare.

Tristano che aveva osato sfidare il re. Tristano che aveva sconfitto tutti, per amore. Tristano, braccato come un animale, perseguitato...Eri un ramingo, un fuggiasco, ma ancora un eroe.

Mentre io, io non ero più nessuno. La mia bellezza si era consumata nelle privazioni quotidiane, le mie mani si erano rovinate, il mio cervello così acuto e pronto, che aveva saputo ingannare persino Dio, si era irrigidito nella mancanza di stimoli.

Tu cacciavi tendendo l'arco che-non-fallisce[4], io ti attendevo nell'ozio e la mia vita si consumava nello spettro di un'abulia quotidiana e terribile.

Il silenzio mi divorava come una malattia e tu mi privasti persino della voce d'Husdent. Ci farà scoprire, dicesti, non abbiamo alcun bisogno di un cane. Ma era il tuo cane, quello, il tuo cane fedele che ti amava, e tu non capivi, non capivi il mio bisogno di compagnia. Non ucciderlo, ti supplicai. A patto che taccia, dicesti. E tacque. Si, tacque. Perché Tristano, il perfetto, sa piegare al suo volere persino la natura.

E la gente parlava di me. Isotta...Isotta, la traditrice. Isotta falsa e bugiarda, una meretrice.

Le loro voci giungevano alle mie orecchie come presagi, come profezie d’un futuro di disperazione.

Ebbi paura, paura di vedere la mia vita sfiorirmi lentamente tra le mani, di incontrare la vecchiaia e di sorprendermi ancora in quella desolata apatia. Tu non mi bastasti più.

Ero regina, pensai, ma ho perduto quel nome per una pozione bevuta in mare.

Voglio tornare, ti dissi.

Forse tu non capisti. Mi assecondasti, ma forse non capisti davvero.

Come avresti potuto, Tristano? Sentimenti così umani e meschini non ti sono mai appartenuti, in ben altri cieli volano da sempre il tuo cuore e il tuo spirito.

Marco mi riaccolse come una regina e mi restituì tutto, compreso il suo amore. Amica cara, mi chiamò ancora.

Allora lo guardai per la prima volta.

Allora mi chiesi chi fosse quest'uomo a cui per due anni avevo dormito accanto, senza conoscerlo davvero. Non avevo mai desiderato farlo. Lo avevo ignorato, come si ignora un dettaglio, una parentesi, qualcosa di superfluo.

Marco era mio marito ma per me non era mai stato niente di più che l'inevitabile ostacolo al nostro amore predestinato. Perché in fondo, aveva ragione chi lo disse[5], noi non ci amavamo, noi agivamo come se avessimo capito che tutto ciò che si opponeva all'amore lo garantiva e lo consacrava, esaltandolo all'infinito.

Non esistevo se non in te.

Non odiavo Marco. Non lo amavo. Mi era indifferente, come una necessità.

Ma quel giorno lo guardai per la prima volta.

Marco era un re ma non sarebbe mai asceso al cielo degli eroi, la Storia non lo avrebbe ricordato con lodi e canzoni. Lo osservai nella sua quotidianità. Marco sbagliava, faceva talvolta sciocchezze enormi, si infuriava e sapeva perdonare. Ma soprattutto Marco amava come un uomo, non come un eroe, con quella delicatezza, quella sgraziata passione, quell'infantile slancio che avevo sognato quando era bambina.

E amava me, al di sopra di ogni cosa.

Avrei dovuto capirlo prima.

Avrei dovuto capirlo quando ci trovò nella foresta ed ebbe pietà di noi e lasciò il suo guanto a riparare il sole che mi feriva il volto.

Ero cieca, allora.

Ma adesso, Tristano, adesso vedo.

Dal nostro amore bellissimo e perfetto, dal nostro amore fatale, ineluttabile, dal nostro amore disperato, adesso, chiedo pace.

Ho migrato per mille cieli come una rondine, ma il mio orizzonte non è stato altro che infelicità, una nave triste, vele nere e morte.

No. Voglio stringere la mia vita e decidere per me, finalmente. Basta con i filtri, basta con il destino!

Tu abbraccia la tua donna e amala, se lo merita come lo merita il mio sposo.

Non lasciare che quell'amore ti sfugga, come per troppo tempo ho fatto io.

Vivi Tristano, e sii felice. Riscopri le gioie d'una vita semplice e sconosciuta, di un'unione che non entrerà mai nella leggenda ma che ti darà forse, finalmente, un po' di serenità.

E non preoccuparti. La Storia non si dimenticherà di te. Tu rimarrai Tristano, l'eroe, Tristano che aveva rinunciato a tutto, per amore, tradito dalla sua Isotta per una vita di agi e di comodità.

Sarà il mio nome a cadere nell'oblio, lo so bene.

Morire per amore mi avrebbe concesso quella fama che una vita serena non mi darà mai.

E un giorno...un giorno qualcuno nominerà Tristano chiedendosi chi fosse il suo grande amore.

Quel giorno, credimi, sarò felice.

Isotta


[1] Il titolo viene dal Roman de Renart. È la volpe stessa che, travestita, dice al lupo Isengrino di conoscere “le lai dam Iset”. Come è tipico dei lais i versi successivi sono in ottosillabi a rima baciata, con rime maschili e femminili. Nel testo ci sono alcune citazioni dal Tristan di Thomas e dal Tristan di Béroul, parafrasate o tradotte letteralmente.

[2] Il lai du Chievrefoil, di Maria di Francia, racconta di un incontro tra i due amanti poi messo in musica dallo stesso Tristano.

[3] Utilizzo la parola avventura nel senso dell’antico francese aventure.

[4] Traduco letteralmente Arc-qui-ne-faut, nome proprio dell’arco magico posseduto da Tristano.

[5] Denis De Rougemont.

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Racconto di Francesca Righetti, partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008).