martedì 21 dicembre 2010

DAHUD

a Mimmo

Il vento continua impietoso a scaricare acqua in faccia ai marinai: un misto di mare, pioggia e lacrime degli stessi per la fatica immane cui sono sottoposti. Si sa, quelle tratte non sono mai state oggetto di sicuro rifugio da parte delle imbarcazioni.
Fino a qualche attimo prima, la costa era a portata di sguardo. Ora non si intravede più neanche una luce lontana. L’equipaggio è sconsolato e privo di qualsiasi inventiva è il capitano, che si crogiola nel suo dolore urlando sul ponte frasi incomprensibili ai pochi che ancora stanno ad ascoltarlo.
Non è difficile immaginare cosa sta per succedere quando le stive si riempiono all’inverosimile nel giro di pochi istanti. Cessano le urla, incalzano le preghiere, e qualcuno si mette a cantare.
Oh cielo! Chi diamine si mette a cantare con voce talmente soave andando incontro a siffatta ingloriosa fine? Gaudio celestiale! L’armonia che proviene dall’inumana voce sembra condurre dritti al paradiso. O all’inferno: forse è il demonio che li aspetta tutti!
È di sicuro una voce di donna, il capitano non ha dubbi; qualcun altro ha bevuto bourbon e sente il medesimo cristallino canto?
“Ho fatto uno strano sogno” disse, svegliandosi di soprassalto.
La vecchia signora lo guardò bonariamente, poi gli chiese di raccontarle.
Egli si trovava a largo delle coste bretoni, col suo equipaggio, quando la tempesta li aveva costretti a manovre d’emergenza per non distruggere gli alberi: avevano così perduto la rotta e si erano incagliati in un’invisibile scogliera che aveva affondato loro la nave. In quel momento, mentre erano tutti prossimi alla morte, gli angeli del paradiso avevano loro promesso la vita eterna accogliendoli con meravigliosi cori celesti.
L’anziana donna si fece seria; tossì, si passò una mano tra i capelli, e disse: “Non devi per nessun motivo intraprendere questo viaggio. Vedi, quello che ti è apparso in sogno, è un monito del destino, e guai a chi osa non prestargli ascolto. Il canto che tu hai indubbiamente sentito era quello di una o più sirene, che vi hanno trascinato con loro negli inferi. Devi impedire che questa partenza avvenga” sentenziò infine.
“Gli uomini hanno una famiglia da mantenere, il viaggio non comporta alcun pericolo conosciuto, e non posso ritirarmi dal comando della nave in virtù di un sogno. Non hai neanche idea di quanti anni siano che navigo i mari e gli oceani, e l’avvertimento di stare attento alle sirene è lontano dalle mie preoccupazioni. Grazie dei tuoi saggi consigli, ma un sogno è solo un sogno. E, che Dio ce la mandi buona, stasera la nave salperà. E speriamo che le sirene siano almeno di bell’aspetto, così da risultare cosa gradita per i miei uomini”.
Bevve la sua acqua, o qualunque cosa fosse il liquido all’interno del bicchiere nel suo comodino, e congedò la donna che aveva iniziato a mormorare qualcosa tra sé.
La navigazione procedeva tranquilla: non vi era nessuna perturbazione atmosferica, la visibilità dell’orizzonte era discreta, il moto ondoso non particolarmente vivace. Il cuoco annunciò che la cena era pronta e ci recammo tutti a tavola. Io avevo tutte le intenzioni di mangiare il più possibile, poiché, si sa, durante una navigazione si mangia bene solo i primi giorni: poi diventa tutto scatolame e conserve varie…
A un certo punto ci dovette sembrare che si fosse più buio del solito, perché il comandante bestemmiò e tutti eravamo d’accordo mentre diceva che c’è la vita eterna per starsene in penombra. Tuttavia, nessuno diede a ciò molta importanza, e il pasto proseguì, ignari di quanto stesse invece accadendo di fuori.
Il primo di noi che decise di andare sul ponte per respirare a pieni polmoni qualche zaffata di tabacco, chiamò urlando il capitano, scongiurandolo di accorrere tempestivamente.
Ci ritrovammo sperduti non si sa dove; la bussola non funzionava più, attorno a noi erano solo tenebre, e il vento sembrava non fosse mai passato da quelle parti, tanto che anche i capelli più lunghi restavano immobili, come i nostri pensieri nell’accorgersi dell’assurdità dell’avvenimento.
“Tutto nella norma!” esclamò il capitano. “Stiamo andando nella giusta direzione. Per giungere a destinazione, bisogna percorrere una tratta in cui il sole non arriva, e a causa dei golfi vicini, le correnti si annullano a vicenda e sembra quasi non tiri un soffio di vento. Ricordo bene che da ragazzo, le prime volte che viaggiavo e passavo di qui, il terrore mi attanagliava, e capisco se qualcuno di voi abbia avuto un attimo di sbandamento: direi che è alquanto normale. Ma non preoccupatevi: tra qualche ora lasceremo questa desolazione e torneremo a panorami a voi più familiari.”
Non so in quanti di noi dubitarono delle sue parole. Non che fosse un equipaggio di gente inesperta, ma se lui diceva così ne sapeva certamente più di tutti noi. Qualcuno titubò nel sentirlo raccomandare prudenza ai mozzi nello scrutare con la massima attenzione ogni lato della nave per evitare collisioni con ostacoli o altre imbarcazioni: ma in quella notte scura come la pece era anche comprensibile. Ordinò di procedere a velocità regolare, e si ritirò.
Io però restai immobile sul cassero, come fossi il nostromo. Non potevo capacitarmi del fatto che non ce ne avesse parlato prima. Se le cose stavano realmente così, perché non aveva rassicurato l’equipaggio in un momento antecedente a quello in cui tutti saremmo giustamente caduti in preda allo sconforto per l’immagine che si presentava ai nostri occhi? Decisi che era una mossa dettata dall’esigenza di non seminare il panico prima che ci si potesse rendere effettivamente conto di cosa avrebbe inteso nel suo metterci eventualmente in guardia, quindi scesi in coperta e il sonno fu padrone di me.
Non passò molto tempo prima che i sensi mi imponessero di svegliarmi. Lì per lì feci fatica a capire perché mi fossi destato di soprassalto, poi mi accorsi del rumore che sentivo in sottofondo. Un lamento. Qualcuno che chiedeva aiuto, pensai.
Ancora semi-addormentato, mi recai sul ponte come in trance, cercando di raggiungere quella voce che cominciavo a pensare esistesse solo nelle mie orecchie. Quand’ecco, nell’immobile incresparsi del mare mentre la nave procedeva regolare, mi sembrò che le onde tornassero indietro, come se avessero trovato un ostacolo. Le parole mi risultavano incomprensibili, ma ora la voce era chiara, nitida, distinta.
Il mio urlo disumano richiamò il capitano in una manciata di secondi. La nave si arrestò, probabilmente a seguito di un suo ordine. Le onde continuavano a sbatterci contro. Era chiaro: coperto alla nostra visuale, qualcosa provocava quelle onde che venivano a infrangersi contro la nostra chiglia.
Non si poteva procedere. Se eravamo in prossimità di una costa, era ragionevole pensare che fossimo prossimi a una collisione o comunque all’incaglio. La pessima visibilità non lasciava spazio ad altre opzioni: bisognava essere sicuri di dove ci trovassimo. L’aria era leggera, pulita, eppure non sapevamo se fossimo avvolti dalla nebbia o soltanto dal buio.
Non c’era altro da fare: occorreva calare una scialuppa, e fare un giro di perlustrazione, prima d‘incorrere in problematiche molto serie, considerato anche che – nonostante quanto dicesse il capitano – io restavo convinto che nessuno avesse la più pallida idea di dove ci trovassimo.
Si decise all’unanimità, con esclusione del mio parere, che io presidiassi la spedizione, visto che m’ero accorto del rilevante particolare del ritorno delle onde. Ad accompagnarmi nel mio fortunato premio di merito, i due mozzi che invece non si erano ravveduti di nulla, come una sorta di punizione che rendeva il mio premio di difficile comprensione.
Mi fu affidata una lanterna, la scialuppa fu calata, e ci ritrovammo in mezzo a quella fitta notte.
La mia testa mi suggeriva che doveva essere all’incirca mezzogiorno.
Nel silenzio tombale cui eravamo avvolti, un suono ci colpì, melodioso. Era la voce di una fanciulla che intonava un triste canto, ne ero certo stavolta. D’improvviso, la scialuppa urtò qualcosa e ci ritrovammo tutti e tre in mare, ma nessuno di noi ebbe la forza, o la voglia, di urlare e richiamare l’attenzione della nave: il canto era troppo piacevole da interrompere.
Mentre la nostra piccola imbarcazione si eclissava dalla nostra vista, io e i miei due malcapitati compagni ci ritrovammo seduti su quello che sembrava uno scoglio, ma non lo era. Sembrava più il merlo di un castello, tanto erano regolari gli intervalli di roccia su cui ci adagiammo. Ed ecco, bella come una Venere, si presentò ai nostri occhi una figura di donna dal corpo perfetto, le labbra sottili e armoniose, e un raggio di luce ci sembrò l’accompagnasse nella sua apparizione. Si avvicinò a noi, e con voce rassicurante iniziò a parlarci: “Giovani esploratori del mare e della vita, mi presento a voi. Abito questa terra da tempo immemore. Anni fa ero una giovane fanciulla che tutti amavano. Mio padre regnava sulle popolazioni che qui abitavano, con sapienza e magnanimità. Ma un giorno, a causa dell’invidia di una giovane donna invaghitasi di mio padre, io venni accusata dei più turpi sotterfugi perché, fu detto, volevo impossessarmi del trono del mio amato genitore. Questi, oscurato dalla delusione e da un sortilegio effettuato dalla mia antagonista, volle credere a quell’estranea e condannò me, la sua adorata figlia, nelle segrete, a pane e acqua. Il mio dolore fu ineguagliabile, e mai gli dei assistettero a scena più pietosa della mia che, col cuore infranto, giorno dopo giorno cantavo, supplicando il mio amato padre di tornare in sé, e verificare le accuse che mi erano state mosse. Gli dei s’impietosirono e, mossi a compassione, inviarono nella nostra bella isola un giovane straniero, il quale, seguendo il mio canto, giunse alla mia prigione sotterranea. Venuto a conoscenza della mia triste storia, decise di liberarmi; ma, senza nessuna voglia di vendicarmi per il trattamento subito, pregai il ragazzo di non fare del male al re, e che se era il Fato ad aver deciso che quella donna maligna dovesse stare accanto a lui, allora che il destino si compisse. Decise quindi di portarmi nella terra che abitava lui, e insieme montammo a cavallo, ma dovete sapere una cosa. La città  sulla quale ora sedete, era edificata al di sotto del livello del mare. I mercanti e gli stranieri potevano accedervi solo una volta a settimana, quando mio padre apriva le dighe che ci proteggevano dalle acque dell’oceano; va da sé che con la stessa frequenza era concesso uscire, giacché chi si fosse trattenuto sull’isola aldilà della bassa marea, avrebbe dovuto aspettare la successiva apertura, ovvero trascorsa una settimana. Ora, a causa della mia situazione di prigioniera, era impossibile sperare di restare nascosti per così tanto tempo e fuggire indisturbati durante l’apertura ordinaria: bisognava rischiare e lasciare immediatamente questo luogo che tanto amavo. Per farlo, occorreva venire in possesso delle chiavi delle dighe, che solo il mio amato padre possedeva. Non fu difficile per me presentarmi dalla mia vecchia nutrice, spiegarle la situazione e farmi accompagnare nella camera del re; quindi afferrai le chiavi, e tornai di corsa dal mio salvatore. Ma l’aiuto degli dei era stato effimero: difatti, una volta giunti alle porte, ci rendemmo conto che il livello del mare era troppo alto per sperare di fuggire. Ma le avversità non finivano qui.
La perfida donna che aveva ammaliato mio padre, vedendomi allontanarmi a cavallo dal castello, mi aveva seguito, e ora si trovava di fronte a me. Io e il mio giovane cavaliere spediti ci allontanammo, ma ahimè! Stupidamente avevo lasciato le chiavi nella toppa della serratura. Allora lei, incurante dei pericoli a cui esponeva il nostro regno, come per punirmi e farmi annegare, girò rapidamente la chiave e le dighe si aprirono; e subito litri e litri di acqua marina invasero le nostre strade e le nostre case, sommergendole. Tornata a castello, informai mio padre dell’accaduto, il quale, senza pensarci due volte, mi caricò sul suo cavallo e veloci fuggimmo verso la costa, abbandonando colui che mi aveva sottratto alla prigionia ma anche tutto il nostro popolo a un evidente destino. Giunti sul punto più alto dell’isola, una voce parlò a mio padre, e ne ricordo ancora la demoniaca intensità. Gli disse che io ero stata la causa della distruzione del suo regno, e che il demonio in persona s’era impossessato della mia anima. Lo ammonì infine che un sacrificio gli era richiesto, se voleva salvarsi: doveva liberare il mondo dal male, e quindi da me. Ancora una volta il mio amato padre, senza curarsi della verità, mi afferrò tra le sue braccia e mi scaraventò al di sotto della scogliera, per purificare la sua isola dal male che vi aveva dominato. Ma il dio delle acque, reso edotto degli avvenimenti, volle intervenire. A causa della mia abnegazione nei confronti di mio padre, e dei sentimenti puri che erano vissuti in me, mi donò la vita eterna tramutandomi in sirena e ponendomi a custodia di questo tratto di oceano e della nostra cara isola ormai sommersa; ma non ci furono preghiere che lo fecero desistere dal suo intento di punire colui che mi aveva condannato a morte. Pare che anche a lui sia stata donata l’immortalità, ma non come una sorta di premio: si racconta che il dolore lo accompagnerà per l’eternità e mai il suo senso di colpa avrà termine. Non so in che forma di essere vivente o non vivente sia stato mutato, se in pianta o in scoglio, in animale o in statua; sta di fatto che per sempre conserverà la su coscienza e il ricordo di quei tristi avvenimenti. Per questo voi mi sentite sempre cantare: spero che la mia voce possa giungere al mio amato padre, e che lui sappia che io l’ho perdonato e che passerò la vita a fargli compagnia.”
Tacque. Nessuno di noi era in grado di proferire parola.
Allora continuò: “E voi, perché mai vi trovate a passare da queste parti fuori da ogni rotta? È forse finita per incagliarsi la vostra nave? Io posso aiutarvi se così fosse: basterebbe che mi portiate vicino a essa, e mi inabisserò a liberarla dagli ostacoli che la trattengono, cosicché possiate riprendere la rotta.”
Mentre riflettevamo sul fatto che non fossimo sicuri di ritrovare la strada, anche perché il racconto ci avevo parecchio disorientati e non sapevamo con certezza quanto ci eravamo spostati dal punto di partenza, vedemmo la nostra scialuppa legata accanto a noi; eppure eravamo tutti e tre sicuri di averla vista inabissarsi… Non vi era altra soluzione, per cui facemmo capire alla stupenda creatura di seguirci, e ci rimettemmo a remare.
Lei ci anticipava, come se ci guidasse verso il posto dove dovevamo condurla noi, e noi restammo in silenzio senza scambiarci neanche uno sguardo.
Dopo un certo lasso di tempo che non saprei definire, giungemmo alla nostra nave. Non si sentiva battere ciglio a bordo, e pensammo di essere mancati troppo, tanto che qualcuno avesse calato una seconda scialuppa per venirci a cercare. Ma le scialuppe erano tutte al loro posto, e l’atmosfera divenne surreale.
“Capitano!” chiamai, ma nessuno rispose.
Nel silenzio più spettrale che mai ebbi sentito, vidi alcuni membri dell’equipaggio sporgersi dal ponte. Furono calate le cime, fummo recuperati a bordo, e in silenzio il capitano ci fissava.
D’un tratto parlò: “Queste acque sono la dimora di Dahud. Costei era una giovane fanciulla che parecchi anni fa viveva in un’isola sotto il livello del mare, dove regnava Gradlon, re di Cornovaglia, sovrano amato e rispettato. Dahud era la figlia di Gradlon, ma di simile al padre non aveva nulla: era una fanciulla senza valori, che maltrattava la servitù e dava spettacolo con orge e bagordi ogni giorno, tanto che il popolo cominciò a mormorare che Gradlon, se non era in grado di crescere una figlia, non poteva certo essere la persona adatta a guidare un regno. Così un giorno il popolo decise di spodestarlo, e affidò il trono a un giovane marinaio straniero, che un tempo aveva amato Dahud; ma lei si divertiva solo a umiliarlo e sbeffeggiarlo, e più volte l’aveva deriso davanti agli altri ragazzi, tanto che per vergogna aveva lasciato l’isola per ritornarci solo parecchi anni più tardi in qualità di pescatore. Nell’apprendere la notizia, l’ira della fanciulla fu talmente sproporzionata che decise di punire questo irriconoscente popolo; e, impossessatasi delle chiavi della città, aprì le dighe che custodivano l’isola dalle acque dell’oceano, e lasciò che venisse sommersa. Re Gradlon, che tanto amava la figlia, cercò di mettersi in salvo con lei; ma il dio delle acque, adirato per l’accaduto, ammonì il sovrano dicendogli che sua figlia era ormai solo un’illusione, poiché il suo corpo e la sua anima erano già da tempo tempio del demonio. Così, se avesse voluto salvare la propria vita, avrebbe dovuto abbandonare la figlia al suo triste destino. Il re vide la figlia annegare, ma questo non è tutto. Colto dal rimorso e da un ineffabile dolore per l’omicidio commesso,  si racconta che l’uomo non abbia ancora trovato il riposo eterno, e vaghi alla ricerca della figlia così da poterle chiedere perdono per quanto accaduto, e poter raggiungere il regno della felicità perpetua; ma anche Dahud si dice non abbia trovato pace, e sia stata condannata dal demonio ad adescare le anime dei marinai per portarle agli inferi e accrescere il numero dei dannati.”
Il capitano si avvicinò così alla prua, e si sporse aldilà della polena.
La sirena che ci aveva ricondotto alla nave era lì, che lo fissava.
Tutti noi restavamo in silenzio.
“Salve, padre!” disse lei, e cominciò a cantare.
Liberamente ispirato alla leggenda dell’isola di Ys.
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Racconto partecipante alla quinta edizione di © Philobiblon (2010)

sabato 20 marzo 2010

Faust e Margerita

Aveva dedicato tutta la sua giovinezza alla ricerca della pietra filosofale. Il suo unico scopo era arricchirsi e godere appieno i piaceri della vita, ma nel tempo qualcosa mutò: le conoscenze conquistate affinarono il suo animo. Scoprì cure ed unguenti miracolosi, guarì gli uomini da qualunque malattia riuscendo dove la medicina galenica fallì miseramente. Cominciò così ad offrire il suo tempo alla ricerca del proprio Sé e del Divino, prendendo finalmente coscienza che la vera Pietra Filosofale è proprio questa, divenendo così un vero alchimista. Più il suo animo si purificava e più penetrava nei segreti della natura. Riuscì a produrre la Pietra Filosofale, ma a quel punto l’oro non gli interessava più, avendo capito che il vero Tesoro era di tutt’altra natura.
L’incontro con Paracelso gli aveva aperto un nuovo orizzonte: se l’uomo possiede la Scintilla Divina è anche capace di creare la vita.
Faust credeva che un giorno, tutti gli uomini sarebbero stati capaci di creare e l’umanità si sarebbe elevata avvicinandosi così a Dio. Non vi sarebbero più stati inquisitori, niente più roghi e niente più torture. Soprattutto niente più guerre.
Furono i quaranta giorni più lunghi della sua vita. Aveva seguito fedelmente gli scritti di Paracelso col quale aveva tenuto una fitta corrispondenza.
Lo vedeva adesso attraverso l’alambicco che iniziava a muoversi, trasparente ed impalpabile. Non era solito lasciarsi prendere dalle emozioni, ma i suoi occhi si inumidirono: aveva creato la vita.
Quaranta settimane trascorsero da quel giorno. Aveva nutrito quella creatura col proprio sangue, creato il calore necessario nel proprio laboratorio come quello del ventre di una madre.  Una bella bambina adesso le appariva dentro l’alambicco.
Quella che voleva essere per Faust una conquista della conoscenza, poco per volta, si era trasformata in un atto d’amore. Aveva dato a quella creatura, tutto l’affetto che solo una madre che porta un bimbo in grembo poteva dare.
Il giovane Wagner arrivò quella mattina puntuale come sempre e la sorpresa fu grande nel vedere il suo maestro stringere quella creatura al petto. Non era tanto la bambina che lo stupì quanto l’espressione materna di Faust nel cullarla.
“È nata Wagner, è nata”.
“Avete dedicato la vostra vita alla Conoscenza e l’Universo ha realizzato il vostro sogno. Questa è la trasformazione che cercavate ed io sono orgoglioso di essere vostro discepolo!”
Faust gli mise una mano sulla spalla per ringraziarlo.
“Il vostro amore e la vostra umiltà hanno aperto un nuovo orizzonte al sapere umano. Forse stiamo vivendo in un’epoca sbagliata ed il tempo sotterrerà tutta la saggezza raccolta dai vostri studi e quelli di tutti i vostri pari, ma forse un giorno si riparlerà dell’homunculus, e nuove domande l’uomo si porrà”.
Wagner tese le braccia come per chiedere di poter tenere lui la bambina e Faust gliela porse.
“Che cosa farete adesso?”
“La crescerò, la istruirò…l’amerò”.
La chiamò Margherita. Le fece da padre e madre nello stesso tempo, aiutato da Wagner che contribuiva alla sua istruzione.
La conoscenza e la saggezza di Faust erano conosciute in tutte le corti d’Europa e tutti i potenti lo accoglievano. Portava sempre Margherita con sé, la presentava come sua figlia e riusciva sempre ad eludere qualche domanda imbarazzante.
Margherita stava spesso in compagnia di altre dame e grazie all’istruzione ed all’educazione impartita da Faust aveva una piacevole conversazione e la sua compagnia era gradevole, però man mano che cresceva, Faust notava qualcosa di strano dentro di lei ed una leggera sofferenza.  Il suo viso era perennemente statico, non esprimeva stati d’animo, anzi si rese conto che sua figlia ne era priva. Un giorno Margherita chiese:
“Padre, ho studiato letteratura, medicina, arte delle erbe, poesia. Spesso ricorrono parole che io non comprendo: felicità, amore… sentire. Cosa significa sentire, oltre che udire?”
Faust era pronto a rispondere a qualunque domanda, ma di fronte a quella restò ammutolito.
“Rispondimi padre, ti prego”.
Faust prese una mela.
“Mangiala e descrivimi cosa provi”.
“È dolce”.
“Cosa ancora?”.
“È farinosa”.
“Cosa ancora?”
“È succosa”.
“Cosa ancora?”
“Non so più, padre!”
“Anche la pera è dolce e succosa eppure quando la mangi ti rendi conto che il suo sapore è ben diverso da quello della mela”.
“È vero padre, ma non capisco dove tu voglia giungere”
“Significa che solo mangiando la mela tu ne percepisci il suo sapore e sai distinguerla dagli altri frutti che sono anch’essi dolci. Dolce è una parola che serve solo a distinguere dal salato, ma sono i tuoi sensi che ti danno la vera coscienza e conoscenza dei sapori e degli odori. Fra l’altro ciascuno di noi ha un diverso modo di percepire i sapori o gli odori. Ci sono persone che hanno disgusto per il dolce e persone che amano il salato”.
S’interruppe, ma poi riprese.
“Lo stesso è per la felicità e l’amore. Si possono descrivere con le parole, ma non ne avrai mai la coscienza se non le senti dentro la tua anima. Amore è quello che io provo per te, perché sono tuo padre. Riesci tu a descrivere quello che provi per me o per Wagner?”
Margherita restò in silenzio cercando qualcosa che non riusciva a provare.
“Padre io non sento nulla”.
Faust rimase inorridito per ciò che aveva appreso o che forse aveva voluto ignorare in tutti quegli anni. Margherita era arrivata fino a sedici anni senza sentire alcun sentimento come amore o pietà, tristezza e persino odio e rancore. Non poteva sentirli con la sua anima solo perché non l’aveva.
Faceva male a Faust sapere che sua figlia non poteva provare né gioie, né dolori.
In tutti quegli anni Margherita si era ammalata, ma soffriva solo fisicamente per le malattie, provava dolore solo, quando si feriva per qualche caduta.
Spesso con Wagner giocavano a rincorrersi, ma mai un sorriso di vera gioia. La spiccata intelligenza di cui era dotata serviva solo ad accumulare conoscenze ed a fare dei sottili ragionamenti, ma non provava nulla di fronte alla vita che poteva esprimere una pianta che cresce, non avrebbe mai compreso in pieno le leggi del divenire o del ritmo espresse, ad esempio, dal sorgere e dal tramontare del sole. Non avrebbe mai compreso con l’emozione il mutare delle stagioni. Cos’era per lei un cielo stellato? Una farfalla che vola intorno ad un fiore? Il primo giorno di Primavera?
“Oh Dio, cos’ho fatto? Nel mio egocentrismo ho messo al mondo un mostro. Cosa ne è adesso di lei? Come vivrà senza sentimenti? Come vivrà senza emozioni, che sono il pane della vita?”
Affranto Faust scese nel suo laboratorio e cominciò a consultare i testi più antichi che aveva, in cerca di una soluzione per sua figlia.
“Un’anima, devo darle un’anima!”
Affidò Margherita a Wagner e cominciò a viaggiare in cerca di altri iniziati.
Incontrò Amatus Lusitanus che aveva anch’egli ottenuto risultati simili.
“Sapevo di poterlo fare, ma poi desistetti da quest’intento per paura. Evidentemente l’anima non passa dall’uomo attraverso lo sperma, ma è il ventre materno che la accetta. Questo abbatte completamente l’idea che le donne non hanno anima”
“Non ho mai creduto a questa fandonia! Ma ritorniamo al mio dilemma: come faccio a donare un’anima a mia figlia?”
“Come fai a volatilizzare l’acqua?”
“Riscaldandola”.
“E come ottieni l’acqua?”
“Dal raffreddamento del vapore”.
“Ma se non hai l’acqua come fai?”
“La prendo alla fonte”.
“E l’acqua della fonte come arriva?”
“Dalle piogge”.
“Quindi non puoi ottenere l’acqua se non hai la sostanza volatilizzata, e non puoi ottenere la sostanza volatilizzata senza l’acqua”.
“Dove vuoi giungere?”
“È uguale per l’anima. Essa si trasforma, si purifica nel corso della vita com'è accaduto a noi. Si purifica attraverso più vite, ma non possiamo crearla”.
“Gran Dio è vero! Siamo Creatori, ma non possiamo creare qualcosa che esiste già. Non possiamo creare Dio che è dentro di noi. È Egli stesso la nostra anima!”
Faust si sentì sconfitto. Aveva condannato sua figlia alla sofferenza.
“Abbiamo la Divinità, ma non creiamo, trasformiamo! Ho creato una figlia, ma non ho fatto altro che trasformare materia, come ho fatto con la Pietra Filosofale e adesso non sono capace di donarle un’anima”.
Faust tornò sconfitto alla sua città e durante la notte non fece altro che pregare. Si appellava a quella sua parte divina cercando una connessione con L’Altissimo. Voleva ammettere il suo errore e chiedere direttamente a Lui di aiutarlo, era disposto a qualunque sacrificio.
“Signore, ascoltami”.
Non fece altro che ripetere.
“Sono qui”.
Si sentì rispondere.
“Ma tu sei…”
“Sono Io che ti parlo”.
“Signore, aiutami. Tu conosci le sofferenze di mia figlia. Non fare che lei soffra per un mio errore e che le mie colpe ricadano su di lei. Scaglia contro di me tutti i mali che ho commesso per la mia stoltezza, ma salva mia figlia”.
“Io ho creato un Universo secondo le leggi che tu sai. Io vi ho dato il libero arbitrio e per questo non ho potuto impedire a te l’errore. Non posso aiutarti perché andrei contro le leggi che io stesso ho creato”.
“Ma tu sei…”
“No figlio mio. La libertà assoluta che io stesso vi ho donato l'ho tolta a Me. Voi uomini siete liberi di scegliere il Bene ed il Male, ma io no. Io non sono libero. Io posso, ma non devo!”
“Cosa ne sarà di Margherita? Sarà condannata ad una morte senza ritorno per la mia stoltezza? Sarà costretta a vivere senza amore? Se la sua non è una vita la uccido. Se non ha anima non è neanche un delitto e non creo alcuno squilibrio con la natura!”
Faust brandì un pugnale.
“Fermati Faust!”
Il Signore era commosso da tanto amore e così gli propose un patto.
“Io non posso darle un’anima, ma tu sì”
“Non comprendo Signore”.
“Sei disposto a darle la tua anima?”
“Sì, Signore”.
“Bada Faust, dandole la tua anima,  vivrai tu senza sentimenti e amore. La tua conoscenza sarà vana e sarai tu, condannato, quando sarai vecchio, ad una morte senza ritorno”.
“Oh Signore tu mi stai facendo il dono più bello che io potessi mai sperare. Mi fai rinascere nel corpo che io stesso ho creato. Divento creatore di me stesso. Accogli però una mia preghiera”.
“Ti ascolto”.
“Ho amato e rispettato il mio corpo. Al momento del trapasso, fai morire Faust affinché non soffra per la mancanza dell’amore verso sua figlia e per l’Universo che Tu hai creato. Ti prego! Dai a Faust una morte onorevole”.
“E Sia!”
A poco a poco Faust iniziò ad accasciarsi finché cadde per terra completamente privo di vita.
Margherita che entrò in quel momento, lo vide cadere a terra.  Corse verso di lui abbracciando il corpo morto.
“Padre, Padre non puoi lasciarmi, non puoi. Signore perché gli hai fatto questo?”
Urlava tra le lacrime.
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Racconto di Alessandro Scardaci partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)

sabato 9 gennaio 2010

Bel cavaliere, per cui faccio suoni e motti...

Risalendo a ritroso nella storia del Monferrato dai giorni nostri fino al 1400, le vicissitudini che ne scandirono la vita sono ampiamente documentate. Dal 1400 al 1200 non sempre c’è concordia tra i tanti che ne hanno scritto, ma gli avvenimenti più importanti si possono ritenere abbastanza attendibili.
Volendo invece risalire ai secoli precedenti il tredicesimo, non è più così semplice distinguere la leggenda dalla storia. Molti hanno scritto di questo periodo, ma non si riesce sempre a comprendere se si tratta di leggende molto verosimili, oppure se sono gli avvenimenti reali ad assumere connotazioni leggendarie.
E leggendario fu Aleramo progenitore della dinastia dei primi marchesi di Monferrato.
Si racconta che Aleramo, scudiero alla corte di Ottone il Grande di Alemagna, fosse amato da Adelasia, bellissima figlia dell’Imperatore. Questo amore non era certo ben visto dal padre della fanciulla, dal momento che il pretendente non aveva nient’altro da offrire che due braccia possenti. Ai due innamorati non restò che la fuga. Dopo aver camminato e camminato arrivarono in vista del mar Ligure, dove vissero per anni nascosti in una grotta. Aleramo, dopo aver svolto i lavori più umili, ebbe l’occasione di andare a servizio dal Vescovo di Albenga il quale ben presto dovette partire per una guerra in Lombardia. Portò con se anche Aleramo che si comportò tanto valorosamente, durante l’assedio di Brescia, che l’eco delle sue gesta arrivò all’orecchio dell’Imperatore.
Quando il Vescovo di Albenga mise al corrente l’Imperatore dell’identità del valoroso combattente, dapprima Ottone andò su tutte le furie e scoppiò in invettive, quindi addivenne a più miti consigli e decise di premiare il coraggio di Aleramo investendolo del titolo di marchese e concedendogli quindi il dominio su un territorio i cui confini sarebbero stati determinati dallo stesso Aleramo. Avrebbe infatti avuto sovranità su tutte le terre che sarebbe stato in grado di circoscrivere con una cavalcata di tre giorni. Aleramo si procurò un veloce destriero e cavalcando giorno e notte, delimitò quelli che furono a quel tempo i confini dei suoi possedimenti e che corrispondono più o meno all’attuale Monferrato.
All’interno di questa storia, già di per se corredata di diversi elementi fantasiosi, si inserisce un’altra leggenda che riguarda il modo con cui questo territorio avrebbe assunto il nome con il quale ancora oggi è conosciuto.
Si racconta che durante la cavalcata il destriero avrebbe perso un ferro e, per guadagnare tempo, Aleramo avrebbe utilizzato un mattone per rimettere il ferro perduto al piede del cavallo.
Dal volgare mun che significa appunto mattone e frà che significa ferrare, sarebbe derivato mun-frà, cioè Monferrato in dialetto.
Pur con la consapevolezza che la realtà supera a volte la fantasia, ciò che fa credere essere quest’ultima una leggenda, è il fatto che sembra sia stata inventata da qualcuno che, scervellandosi e non riuscendo a capire da cosa potesse derivare l’etimologia Monferrato, trovò questa fantasiosa e poco logica definizione.
Molto più verosimili sono le ipotesi secondo le quali il nome possa derivare da mons-ferax, cioè monte fertile, riferita alla generosità del terreno di queste colline, oppure da qualche collina di aspetto rossastro che ricorda la ruggine e quindi una volgarizzazione di monte ferroso.
Ma perché non lasciarsi coinvolgere e trasportare dalle leggende, visto che da queste parti di leggende ne sono nate tante, tante ne sono state tramandate, alcune semplici e ingenue, altre poetiche e sagge. E ne sono nate tante fin dagli albori della storia del Monferrato.
Aleramo fu il mitico capostipite di una famiglia che senza dubbio divenne una delle più potenti ed illustri del Medioevo.
Come tale dette ospitalità e onorò tanti trovatori e giullari che presso i castelli del marchese e dei feudatari minori, raggiunsero grande fama e dignità. Insieme a tanti cantastorie popolari e di livello mediocre, si distinsero alcune figure che, pur con grandi meriti intrinseci, poi non hanno avuto posti di rilievo in quella che sarà la storia della letteratura italiana. I meriti, per intenderci, sono stati quelli di aver introdotto per la prima volta in Italia un particolare genere di poesia, la lirica, in un mondo poetico fino ad allora dominato dall'epica.
La maggior parte dei trovatori non erano altro che millantatori, mettevano la loro arte al servizio dei signori esaltandone oltre misura le doti cavalleresche allo scopo di ricavarne di che vivere bene presso le loro corti.
Cercavano poi di unire il dilettevole all’utile cantando la virtù delle dame che si concedevano loro, vuoi per sentirsi dedicare leggiadre canzoni che le adulavano, vuoi per evitare di essere oggetto delle più abbiette e ridicolizzanti vendette espresse in versi scurrili.
Il più affascinante e interessante dei trovatori provenzali, che mai utilizzò simili espedienti per guadagnarsi il pane e il companatico, fu senz’altro Rambaldo di Vaqueiras che dopo varie peregrinazioni, frequentò stabilmente le corti dei marchesi di Monferrato dove sinceramente cantò le gesta dei cavalieri e la leggiadrìa delle dame. Tra quest’ultime una su tutte, Beatrice, lo ispirò...
L'elegante incedere della ragazza che danzando si accostò al gruppo di dame e cavalieri che ascoltavano la musica di Rambaldo, fu per tutti una gradita novità che distrasse gli uditori.
Rambaldo, vedendo rompersi improvvisamente il cerchio di gente che lo stava ascoltando, ne fu ad un tratto sdegnato.
Ne aveva ben ragione. Era il più conosciuto, il più apprezzato dei trovatori che in quel periodo frequentavano le corti italiane. Aveva portato dalla Provenza una ventata di poesia e musica nuova nei castelli del marchese Bonifacio I° e non solo presso di lui.
Per Beatrice, Rambaldo aveva composto le liriche più elevate. In molte ammirevoli canzoni aveva fatto mille elogi della donna ammirata e amata sopra ogni cosa. Per lei aveva composto il “Carosello Amoroso” in cui narra della guerra mossa dalle più belle e nobili signore d’Italia a Beatrice. Le dame manifestavano la propria invidia perché Beatrice offuscava con i suoi pregi e il suo splendore ogni loro possibilità di emergere. Ne ha esaltato la femminilità e la grazia, ma non ha mancato nemmeno di farne una coraggiosa eroina, impareggiabile nel maneggiare la spada come un provetto cavaliere.
I versi e le canzoni che Rambaldo componeva per Beatrice hanno intensificato il loro rapporto innescando un crescendo continuo di reciproche emozioni. Più Rambaldo pensava a quella donna, più trovava in lei doti che non aveva visto prima. Da parte sua, Beatrice, si sentiva valorizzata e apprezzata nelle qualità che più riconosceva come sue, oltre la bellezza che nessuno le poteva negare.
Rambaldo ne cantava la cortesia e la grazia, era ispirato non solo dalla sua avvenenza fisica ma “da due occhi neri che scagliano quadrelli fusi al gioco d’amore contro cui non vale nessuno scudo”. In questo gioco Beatrice si sentiva gratificata e ricambiava l’amore di Rambaldo, ma non poteva fare nulla per non destare, anche nel cuore di altri cavalieri una pari ammirazione che li faceva sussultare al solo vederla, anche se poi non erano in grado di tramutare le sensazioni provate in dolci parole e melodiosa musica, come faceva Rambaldo.
Beatrice, non solo destava involontariamente forti emozioni negli altri ma distribuiva i lampi dei suoi occhi infuocati a molti cavalieri, destando in Rambaldo una gelosia sempre più difficile da controllare. Rambaldo, come succede a molti poeti, pensava di conquistare, con i suoi versi, tutto il cuore di Beatrice mentre la donna era di una tale esuberanza da sentirsi all’altezza di conquistare il cuore non solo di tutti i poeti ma di ogni cavaliere.
L’apparire di Beatrice sulla soglia e vedere trasferito l’interesse degli astanti dalle sue poesie alla persona amata, oltre a risvegliare la sua gelosia, gli fece montare la stizza e lo sdegno. Avvertiva l’importanza intrinseca dei suoi componimenti, era gratificato dall’attenzione dell’uditorio e, venendo questa distolta dal giungere di Beatrice, due fatti sgradevoli intervengono contemporaneamente a turbarlo.
D’altra parte Beatrice, toccata la soglia, sciolse e scosse una cappa di sciamito nero che avvolgeva tutta la sua persona e, gettatala su una panca, spiccò due graziosi salti in punta di piedi e, con estrema leggerezza, quasi il suo corpo fosse senza peso, apparve nel mezzo della stanza in tutto lo splendore della sua bellezza.
Nell’imponente ed austero salone si diffuse, come per incanto, un alone di dolcezza che si poteva respirare. Beatrice sapeva stare tra i nobili gentiluomini ma anche tra persone rozze e grette che, a quel tempo, erano numerose pure tra i frequentatori delle feste al castello.
Lei non era facilmente definibile. Forse Rambaldo conosceva gli aspetti della personalità di Beatrice verso i quali lei anelava, ma non era sicuro che fossero quelli che lei viveva.
Rambaldo, nel corso degli anni vissuti al castello di Bonifacio aveva avuto modo un giorno di scoprire, non visto, Beatrice nel salone delle armi vestire una pesante armatura da combattimento e maneggiare la spada opposta ad uno dei maestri d’armi di Bonifacio, comportandosi come un provetto cavaliere, meglio di un provetto cavaliere.
Lui che ne conosceva e cantava la femminilità fu non poco sconcertato vedendo un lato di lei decisamente, totalmente inaspettato. Metteva a dura prova l’abilità del maestro che si veniva sovente a trovare in difficoltà. Ogni tanto, dopo gli scambi più accesi, si toglieva con un gesto pieno di grazia il pesante copricapo metallico e i suoi lunghi capelli neri si scioglievano sulle spalle, quasi come se la gran massa fino a quel momento costretta, esplodesse.
Il viso appariva del colore rosso fuoco che Rambaldo conosceva bene. Era lo stesso che progressivamente colorava le sue guance durante i loro molto particolari colloqui amorosi.
La loro non era una naturale e normale relazione tra un cavaliere e una dama. Beatrice era sempre entusiasta e gratificata dalle canzoni e dai versi che Rambaldo le dedicava, mentre non sempre, anzi raramente accettava le sue attenzioni fisiche. In queste rare occasioni lei partecipava a modo suo ad un progressivo ed intrigante gioco che saliva d’intensità, fino a raggiungere le più alte vette di un piacere delicato e pervaso di mille emozioni. In questo gioco aveva certamente un grande peso l’effetto delle lodi che Rambaldo continuamente le rivolgeva, ben più numerose e intime di quelle che scriveva e cantava pubblicamente.
Durante questi colloqui d’amore e di poesia, Rambaldo si illudeva ogni volta di avere conquistato il cuore di Beatrice, si aspettava da Beatrice un coinvolgimento in un rapporto esclusivo, mentre il giorno dopo, poche ore dopo, la ritrovava impegnata in altri giochi intensi o banali, nella segreta arte della spada oppure intenta a scherzare e perfino ad accettare la pesante corte dei vari signorotti che erano disposti a tutto per un suo sorriso ...o forse per molto di più. A Rambaldo non era dato sapere fino a che punto si spingevano i suoi rapporti con gli altri, lui non l’avrebbe mai saputo.
Ma nonostante l’altalenante interesse che la donna sembrava dimostrargli, lui sentiva crescere per Beatrice un sentimento che non poteva essere altro che amore.
Beatrice però, non perdeva occasione per fargli intendere di avere ben più profondi interessi a cui teneva particolarmente e che lui, al massimo, poteva aspirare a riempire qualche vuoto nelle sue lunghe giornate e notti al castello.
Rambaldo, pur di starle vicino, imparò ad accettare questa situazione, tanto erano importanti per lui quelle poche occasioni che si presentavano per starle vicino.
Queste rare occasioni le erano sufficienti perché ogni volta si rinnovasse quel grande entusiasmo che Rambaldo provava quando poteva avere Beatrice solo per lui.
Ritornò sovente furtivo alla sala d’arme e numerose volte trovava Beatrice sempre più esperta nel maneggiare la spada. Fu l’unica persona, oltre naturalmente al maestro, a conoscere l’identità del “cavaliere straniero” che in un assolato pomeriggio d’estate sbaragliò tutti i partecipanti al torneo che si tenne in pompa magna sotto le mura del castello.
Compose la sera stessa una canzone in cui esaltava le qualità di spadaccino della fanciulla amata. Beatrice probabilmente non la apprezzò, non perché la composizione fosse liricamente disprezzabile, ma solamente perché vide svelato un segreto che mai avrebbe voluto rivelare a Rambaldo.
La festa al castello che vide concentrata l’attenzione di tutti i presenti all’ingresso di Beatrice, era di pochi giorni successiva al torneo e Rambaldo si vide ignorato totalmente da lei.
Non solo fu ignorato ma la donna invitò un giullare che Rambaldo pensava le fosse antipatico, a suonare la cornamusa. Si disse estasiata da quel dolce suono, modulato e continuo. Beatrice appassionò tutto l’uditorio che si dimostrò d’accordo con lei.
Rambaldo non riusciva più a sopportare il comportamento della donna. Se ne stava in un angolo assente e lontano dalla festa che, appena prima dell’ingresso di Beatrice, lo aveva visto al centro dell’attenzione.
Lo stesso Bonifacio, vedendolo così corrucciato, si avvicinò e iniziò a parlargli della sua imminente partenza per la quarta Crociata.
Nella notte Rambaldo fu tormentato dall’alternarsi nella sua mente dell’idea se seguire il marchese o se rimanere al castello.
Scrisse un’ultima canzone per Beatrice:
Bel cavaliere per cui faccio suoni e motti,
non so se restar per Voi o prender la croce;
ne so risolvermi a partire o rimanere
poiché tanto mi fa dolente la vostra bellezza
ch’io muoio per Voi se vi sto dappresso
e muoio se non vi posso vedere"
Rambaldo di fatto partì con il suo padrone e l’impegno per la nuova avventura fuori dalle mura del castello distolse i suoi pensieri dall’amata Beatrice.
L’investitura di Bonifacio come comandante degli eserciti che marciarono verso la Terrasanta valorizzò il suo fedele Rambaldo che divenne suo consigliere e amico.
La lontananza da Beatrice gli ridiede la serenità che aveva perduto, mentre si sentiva sempre più coinvolto in quelle che erano le imprese guerresche che stava affrontando insieme al marchese. Anche se la quarta crociata ebbe fortune alterne, il marchese Bonifacio I° fu sempre vittorioso e, in virtù del suo grande animo, non oppresse mai gli sconfitti. Rambaldo divenne ricco e potente. Ora cantava le imprese dei crociati e in particolare il valore del suo marchese. Attorno a lui si coagulò un gran numero di cavalieri che lui infiammava con le sue canzoni.
Nel cuore però gli si riaffacciava sovente il rimpianto di non avere più l’amore che lo facesse cantare come quando era alla impareggiabile corte di Monferrato.
Nel 1207 Bonifacio muore in uno scontro con i ribelli bulgari. Con lui muore Rambaldo, testimone fino in fondo di quell’ideale di fedeltà e coraggio che aveva sempre cantato.
La quarta crociata aveva portato via dal Monferrato con Rambaldo anche i giovani cavalieri più coraggiosi e Beatrice si ritrovò in un freddo castello in compagnia delle sempre ostili dame e degli uomini più pavidi e senza ideali.
Ma non era la fine della stagione delle “corti d’amore” ciò che le mancava maggiormente.
Ogni giorno sentiva sempre più crescere il freddo dentro al suo cuore e si rendeva conto che a scaldarlo era il suo Rambaldo.
Il suono della cornamusa ora non rappresentava più per lei il fluire continuo della vita ma una nenia triste e noiosa.
Ciò che prima la teneva viva erano i rari e intensi momenti vissuti con Rambaldo che, come una folata di vento riavvampa un tranquillo fuoco, avevano il potere di rialimentare il suo entusiasmo fino alla successiva folata.
Si può solo supporre come continuò e concluse la sua vita Beatrice. Probabilmente in un lento e progressivo spegnersi delle sue frenesie...
…si può solo supporre… nessuno più la cantò.
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Racconto di Elso Avalle partecipante alla quarta edizione di © Philobiblon (2009)