Ultima regna canam, fluvido contermina mundo,
spiritibus que lata patent, que premia solvunt
pro meritis cuicunque suis;
spiritibus que lata patent, que premia solvunt
pro meritis cuicunque suis;
LA SELVA
Verso sera l’acquazzone estivo si era esaurito e le nubi lasciavano spazio ai raggi dorati del tramonto. Dall’alto della collina l’uomo a cavallo di un mulo inspirò l’odore di terra bagnata e assaporò il soffio della brezza marina sul suo volto, mentre gocce d’acqua colavano ancora dal cappuccio del sanrocchino. In cielo frotte di gabbiani stridevano sospesi a mezz’aria sfruttando le correnti ascensionali.
Davanti a lui, arroccato sulla sommità di un costone che scendeva dolcemente fino al mare e alla foce del fiume Magra, in un trionfo di ulivi e orti, si ergeva il monastero di Santa Croce del Corvo, fondato dai monaci Agostiniani più di cento anni prima per conservare la venerata Santa Croce.
Non si vedeva nessuno.
Scese dalla bestia e girovagò intorno alle mura immerso nei suoi pensieri.
-Che cerchi?-lo interpellò una voce alle sue spalle.
Egli non rispose e con aria assorta continuò a rimirare l’ingresso del convento.
-Che cosa vuoi?- ripetè il monaco. Intorno si era già raccolto un gruppetto di confratelli incuriositi.
-Pace.- rispose finalmente il forestiero.
Il monaco aprì le braccia sorridendo – Pax vobiscum. Siete il benvenuto in questo luogo del Signore. Io sono Ilaro, voi chi siete?-
-Et cum spiritu tuo. Sono Messer Dante Alighieri e giungo esule da Firenze.-
Il volto di Ilaro si illuminò e tra gli altri monaci si levò un mormorio di gioia e stupore.
-Quale onore Messer Dante! Questo convento è ben lieto di conoscere personalmente un poeta di cui in questa terra di Lunigiana si è già sparsa larga fama. Sappiamo inoltre che i signori Malaspina vi hanno investito dell’incarico di ambasciatore. Ma venite, venite, saremo ben lieti di ospitarvi nella nostra foresteria.-
-Non avete dunque intenzione di fermarvi qui a lungo?-
-No, padre, sono in cammino per giungere al di là delle Alpi, a Parigi, dove mi accingo ad approfondire lo studio della scienza e della teologia presso lo Studium della Sorbona.-
Dante lanciò uno sguardo al fagotto legato con le cinghie di cuoio in cui erano riposte le sue carte gelosamente custodite. Aveva mangiato parcamente, come era sua abitudine, e scambiava quattro chiacchiere con il suo ospite prima di coricarsi.
-E’ la prima volta che andate da quelle parti?-
-A dire il vero proprio ora pensavo che sono passati dieci anni da quando vi soggiornai la prima volta.-
L’uomo sembrò allora sprofondare in un pensoso silenzio, fissando i ciocchi di legno scoppiettanti nel grande camino in pietra. Si crogiolava davanti a quel calore benefico per i dolori alle ossa che lo affliggevano sempre più spesso.
Ilaro osservava di sottecchi il volto segnato dalle sventure, l’imponente profilo dal naso storto, gli occhi attenti e vivaci da uccello rapace, l’espressione severa e corrucciata.
Poiché l’ospite non accennava a riprendere il dialogo il monaco azzardò:-State pensando a quei giorni lontani?-
Dante si ridestò dalla sua meditazione:-Sì, riflettevo su come, inseguendo i dettami della filosofia, sia giunto a smarrirmi in una selva oscura in cui conobbi come l’uomo che perde la grazia divina può diventare simile a lupo rognoso…-
-Non vi comprendo Messere…- disse il monaco perplesso.
-Ora vi racconterò un fatto non conosciuto da alcuno che mi accadde in terra di Francia proprio dieci anni fa.-
In quell’anno l’estate fu insolitamente infuocata.
Quando il sole giunse allo zenit mi trovavo ancora a circa tre miglia dalla città di Macon.
Cadeva proprio il giorno in cui il Cancro cede il posto al torrido Leone e l’aria era così calda che a respirarla bruciava la gola. Le cicale frinivano come impazzite di gioia
Inquieto cercavo una fonte dove dissetarmi e riposare al fresco per poi riprendere il mio cammino verso il Vicus Straminum a Parigi, dove mi attendevano i maestri allievi dei grandi Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante. Decisi dunque di inoltrarmi nella selva detta Chatenet per godere almeno dell’ombra delle querce secolari.
Procedevo ben vigile sul dorso del mio docile mulo, attento a non farmi sorprendere da qualche brigante o qualche disperato imbestialito dalla carestia che stava affliggendo la zona in quei mesi.
Scorsi allora un pastore di porci che pascolava una piccola scrofa pezzata. Lo salutai e gli chiesi se ci fosse qualche luogo per ristorarsi in quella solitudine. Egli mi consigliò gentilmente di imboccare uno stretto sentiero poco più avanti e di raggiungere una piccola chiesa dedicata a San Giovanni accanto alla quale c’era una casa ospitale. Dopo aver ringraziato il buon uomo imboccai il sentiero che percorsi per un lungo tratto, ma ad un certo punto cominciò ad inselvatichirsi e a confondersi nell’erba alta. Ormai spossato, in cuor mio mi rifiutai di tornare indietro ed essendomi accorto che la strada si stava inerpicando, addentrandomi nel fitto della selva, tra mille difficoltà e deviazioni, riuscii a raggiungere la sommità. Con grande sollievo scorsi che proprio lì sorgeva il luogo descrittomi dal porcaro. Rimasi però deluso e turbato vedendo che la piccola cappella era in stato di abbandono e vicino sorgeva solo un lurido tugurio con le finestre sprangate.
Avvicinatomi alla stamberga il mio naso colse un lezzo ripugnante. Mentre ragionavo sul da farsi la porta si aprì e ne uscì proprio il guardiano di porci. Con fare amabile mi invitò ad entrare lodando la bontà del suo vino e del suo cibo.
Ora, vedete, mio buon Ilaro, vi dirò che rimasi assai sorpreso dalla prontezza con cui l’uomo mi aveva preceduto nella sua tana, come se avesse conosciuto altre vie molto più agevoli per raggiungere il posto e la sua gentilezza mi sembrava ostentata, ma poiché viveva in quell’eremo pensai che benedicesse il Signore per la fortuna di accogliere un ospite straniero con cui scambiare qualche parola e magari ricevere un soldo o due. Scesi dunque dal vecchio mulo ed entrai.
Appena ebbi posto piede all’interno della capanna rimasi senza fiato per l’odore dolciastro che mi parve subito essere carne marcia. Al centro della stanza scorsi nella fioca luce un grande tavolo sbilenco e uno sgabello dove fui fatto accomodare. Mi guardavo intorno cercando di abituare gli occhi all’oscurità dell’antro cercando di scacciare gli sciami di mosche che svolazzavano ovunque. Sul tavolo fu servito del vino e una focaccia con della carne fredda ed il mio ospite si sedette di fronte a me invitandomi a servirmene. Il fetore mi stomacava a tal punto che ero più propenso ad andarmene che a toccare la pietanza, ma poiché mi fissava con volto gioviale e speranzoso pensai almeno di fargli cosa gradita bevendo alla sua salute. Il vino, oltre che a sapere d’aceto aveva un sapore amaro che mi lasciò perplesso.
L’uomo, che si chiamava Marcel, insistette perché mangiassi, ma io mi limitai a chiedergli da dove venisse tutto quel lezzo. Egli fece uno strano sorriso e i suoi occhi si volsero verso l’alto. Al che mi sforzai di penetrare quelle tenebre, interrotte qua e là da qualche raggio di sole che filtrava tra le travi sconnesse del tetto. Mi parve in effetti di scorgere delle forme arrotondate su delle assi appese agli angoli del tugurio.
Bussarono alla porta. Quando Marcel aprì l’uscio ad una laida megera allora vidi con chiarezza quali empi arredi fossero posti nell’angolo illuminato: crani di uomini, donne e bambini, alcuni ridotti a teschi, altri con le carni liquefatte e i capelli ancora attaccati. La visione fu fugace perché la donna fu fatta subito accomodare al mio tavolo e la stanza ripiombò nella penombra.
Nonostante fossi colmo di orrore e di sdegno, scelsi di dissimulare i miei veri sentimenti stando all’erta e osservando le mosse del folle. Mi sentii come Ulisse prigioniero nella caverna del Ciclope antropofago, anzi, con indicibile nausea pensai che la carne sul mio desco potesse appartenere a chissà quale sventurato mortale di cui il mostro aveva scelto di nutrirsi per sfuggire ai tormenti della carestia. Dallo sguardo beffardo e divertito della vecchia sdentata supposi che fosse complice dell’assassino. Ella fu servita con le mie stessa pietanza e con disgusto la osservai divorare oscenamente quell’immondo pasto fissandomi negli occhi.
Capii che il sinistro padrone di casa mi aveva attirato in una trappola mortale. Era essenziale che non notasse che avevo compreso la situazione. Cominciai allora a lodare la frescura di quella bicocca e a parlare del più e del meno e nel frattempo sotto la guarnacca cercavo il pugnale che portavo sempre legato alla cintola. Marcel mi invitò a bere ancora, ma io temporeggiai e assaggiai appena la mistura sospetta. Cominciai allora ad informarmi sulla via per Macon dicendo che avevo un appuntamento verso l’ora del tramonto e che era tempo di affrettarmi.
Dopo aver invocato dentro di me la protezione della Vergine, di S.Lucia e della mia beneamata Beatrice, tranquillamente mi alzai per andarmene, pronto all’inevitabile scontro, giacchè ero certo che non mi avrebbero lasciato uscire facilmente, ma con mia gran sorpresa sentii che le gambe non mi reggevano più.
Crollai a terra come corpo morto tra le risa di scherno dei due. Chissà quale ignobile pozione aveva preparato quella strega per rendere inermi le vittime ignare che assaggiavano il vino infernale offerto dal suo socio.
Volli però tentare di coglierli di sorpresa, come il divino Ulisse che si aggrappò al ventre di un montone così io scelsi di strisciare al riparo del tavolo invece di cercare una vana via di fuga verso la porta, che, considerata la mia miserevole condizione mi avrebbe esposto agli attacchi indifeso come un verme. Appena i due turpi figuri si avvicinarono con il mio fido pugnale sferrai un assalto alle loro gambe, menando profondi fendenti. Dalle risa passarono alle urla e vidi Marcel chinarsi con un ascia in mano tentando di stanarmi, ma come un leone in trappola torcendomi continuai a colpire il nemico finchè riuscii a trafiggere il braccio destro dell’uomo che con un ruggito di dolore lasciò cadere l’arma che io prontamente raccolsi.
Come iene che tentano l’assalto ad un leone ferito vigliaccamente si ritraggono dagli artigli del fiero animale, così quelli scapparono non appena compresero che la cattura non sarebbe stata facile.
Spossato mi appoggiai seduto ad una gamba del tavolo attendendo speranzoso che finisse l’effetto del veleno, all’apparenza della famiglia delle cicute. Pregavo anzi che non mi toccasse in sorte la fine del sommo Socrate e ancor più pregavo perchè temevo che il sinistro individuo fosse andato a chiamare rinforzi, ma per fortuna quando verso sera ritornai padrone delle mie gambe, nessuno si era fatto vivo.
Corsi in città dove informai il signore del luogo e tutta la cittadinanza di quello che avevo scoperto. Fu subito mandata una folta schiera ad indagare: essi raggiunsero senza indugio il posto e trovarono quarantotto teste di persone uccise le cui carni erano state divorate dalle fauci belluine di Marcel. Setacciarono palmo a palmo la foresta e finalmente scovarono nascosti in una piccola grotta i due immondi assassini, che si rivelarono essere madre e figlio. Li trascinarono in città, li legarono ad una trave dentro un granaio, come abbiamo poi direttamente constatato e diedero loro fuoco.
Vi assicuro Messere che mai è stata eseguita più giusta condanna e mi auguro che essi possano bruciare ancora cento volte tra le fiamme dell’inferno.
Il mattino successivo Dante volle pregare innanzi al prezioso crocifisso ligneo gelosamente conservato nel monastero.
Osservava rapito il suo aspetto originale. Era infatti un crocifisso tunicato e Cristo indossava anche dei calzari. Il suo volto fissava il fedele solenne e trionfante.
Ilaro gli si avvicinò soddisfatto per il vivo interesse suscitato nel grande dotto da quel tesoro.
-Voi di certo conoscete la storia di questa venerato crocifisso.-
-Vi confesso che ne conosco solo la grande fama dovuta ai suoi poteri taumaturgici.-
-Sappiate dunque che la storia narra che fu sbarcato a Luni dalla Terrasanta ai tempi della folle persecuzione iconoclastica di Leone Isaurico e sembra che esso sia opera della mano di Nicodemo, che una volta deposto dalla croce e sepolto Nostro Signore, divenuto scultore, decise di ritrarlo in croce. Ecco dunque un vero Volto Santo, il più prezioso dei tesori.-
Il sole era ormai alto nel cielo e Dante si preparava a partire. Legati stretti i suoi pochi beni alla sella del mulo salutò calorosamente i monaci e abbracciò commosso Ilaro che ricambiò con calore.
-Amico mio, sono convinto che non a caso il Signore abbia guidato i miei passi fino a qui, proprio oggi che parto verso le regioni oltremontane. Tu mi hai accolto come un fratello, a te ho narrato per primo quel lontano episodio della selva di Chatenet, tu mi hai mostrato il tuo tesoro più prezioso e io voglio farti dono di una copia del mio tesoro affinché tu tenga più ferma memoria di me.-
Estrasse dal fagotto un rotolo di fogli tenuti stretti con una cordicella e la porse al monaco commosso.
-Ecco una mia opera che forse non hai mai visto: la prima cantica del grande Sacro Poema. Trattasi di un viaggio nei tre regni d’Inferno, Purgatorio e Paradiso. Qui ti porgo l’Inferno, dove tutto inizia con me medesimo perso in una selva selvaggia. Copiatelo nel vostro scriptorium e fatene a vostra volta dono al signore di Luni Uguccione della Faggiuola, affinché mi accordi la sua benevolenza. La seconda e la terza parte le dedicherò al marchese Moroello Malaspina e a Federico d’Aragona re di Sicilia.-
Ilaro impaziente per l’onore che gli era stato concesso srotolò i fogli e cominciò a leggere: -Nel mezzo del cammin di nostra vita…-
Dante potè leggere sorpreso un’espressione di delusione sul suo volto.
-Ma è scritto in lingua volgare, non vi sembra, Messere che il latino sarebbe stato più appropriato ad un poema sacro?-
-In verità amico, il proposito iniziale era stato il latino, ma poi, avendo considerato il disprezzo del tempo presente anche per i poeti più illustri in volgare e l’insuperabile grandezza di quelli passati che poetarono in latino, ho deciso di deporre la mia piccola lira latina e optare il volgare.-
Ilaro sorrise e risistemò con cura i fogli.
-Così da oggi questo monastero possiede un tesoro in più. State tranquillo Messere che il signore della Faggiuola ne riceverà una copia.-
Quel mattino Dante si avviò verso il suo destino con il cuore più leggero. Ilaro rimase ad osservarlo scomparire in lontananza con i fogli stretti in pugno, poi corse veloce verso lo scriptorium.
____________________________Davanti a lui, arroccato sulla sommità di un costone che scendeva dolcemente fino al mare e alla foce del fiume Magra, in un trionfo di ulivi e orti, si ergeva il monastero di Santa Croce del Corvo, fondato dai monaci Agostiniani più di cento anni prima per conservare la venerata Santa Croce.
Non si vedeva nessuno.
Scese dalla bestia e girovagò intorno alle mura immerso nei suoi pensieri.
-Che cerchi?-lo interpellò una voce alle sue spalle.
Egli non rispose e con aria assorta continuò a rimirare l’ingresso del convento.
-Che cosa vuoi?- ripetè il monaco. Intorno si era già raccolto un gruppetto di confratelli incuriositi.
-Pace.- rispose finalmente il forestiero.
Il monaco aprì le braccia sorridendo – Pax vobiscum. Siete il benvenuto in questo luogo del Signore. Io sono Ilaro, voi chi siete?-
-Et cum spiritu tuo. Sono Messer Dante Alighieri e giungo esule da Firenze.-
Il volto di Ilaro si illuminò e tra gli altri monaci si levò un mormorio di gioia e stupore.
-Quale onore Messer Dante! Questo convento è ben lieto di conoscere personalmente un poeta di cui in questa terra di Lunigiana si è già sparsa larga fama. Sappiamo inoltre che i signori Malaspina vi hanno investito dell’incarico di ambasciatore. Ma venite, venite, saremo ben lieti di ospitarvi nella nostra foresteria.-
-Non avete dunque intenzione di fermarvi qui a lungo?-
-No, padre, sono in cammino per giungere al di là delle Alpi, a Parigi, dove mi accingo ad approfondire lo studio della scienza e della teologia presso lo Studium della Sorbona.-
Dante lanciò uno sguardo al fagotto legato con le cinghie di cuoio in cui erano riposte le sue carte gelosamente custodite. Aveva mangiato parcamente, come era sua abitudine, e scambiava quattro chiacchiere con il suo ospite prima di coricarsi.
-E’ la prima volta che andate da quelle parti?-
-A dire il vero proprio ora pensavo che sono passati dieci anni da quando vi soggiornai la prima volta.-
L’uomo sembrò allora sprofondare in un pensoso silenzio, fissando i ciocchi di legno scoppiettanti nel grande camino in pietra. Si crogiolava davanti a quel calore benefico per i dolori alle ossa che lo affliggevano sempre più spesso.
Ilaro osservava di sottecchi il volto segnato dalle sventure, l’imponente profilo dal naso storto, gli occhi attenti e vivaci da uccello rapace, l’espressione severa e corrucciata.
Poiché l’ospite non accennava a riprendere il dialogo il monaco azzardò:-State pensando a quei giorni lontani?-
Dante si ridestò dalla sua meditazione:-Sì, riflettevo su come, inseguendo i dettami della filosofia, sia giunto a smarrirmi in una selva oscura in cui conobbi come l’uomo che perde la grazia divina può diventare simile a lupo rognoso…-
-Non vi comprendo Messere…- disse il monaco perplesso.
-Ora vi racconterò un fatto non conosciuto da alcuno che mi accadde in terra di Francia proprio dieci anni fa.-
In quell’anno l’estate fu insolitamente infuocata.
Quando il sole giunse allo zenit mi trovavo ancora a circa tre miglia dalla città di Macon.
Cadeva proprio il giorno in cui il Cancro cede il posto al torrido Leone e l’aria era così calda che a respirarla bruciava la gola. Le cicale frinivano come impazzite di gioia
Inquieto cercavo una fonte dove dissetarmi e riposare al fresco per poi riprendere il mio cammino verso il Vicus Straminum a Parigi, dove mi attendevano i maestri allievi dei grandi Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante. Decisi dunque di inoltrarmi nella selva detta Chatenet per godere almeno dell’ombra delle querce secolari.
Procedevo ben vigile sul dorso del mio docile mulo, attento a non farmi sorprendere da qualche brigante o qualche disperato imbestialito dalla carestia che stava affliggendo la zona in quei mesi.
Scorsi allora un pastore di porci che pascolava una piccola scrofa pezzata. Lo salutai e gli chiesi se ci fosse qualche luogo per ristorarsi in quella solitudine. Egli mi consigliò gentilmente di imboccare uno stretto sentiero poco più avanti e di raggiungere una piccola chiesa dedicata a San Giovanni accanto alla quale c’era una casa ospitale. Dopo aver ringraziato il buon uomo imboccai il sentiero che percorsi per un lungo tratto, ma ad un certo punto cominciò ad inselvatichirsi e a confondersi nell’erba alta. Ormai spossato, in cuor mio mi rifiutai di tornare indietro ed essendomi accorto che la strada si stava inerpicando, addentrandomi nel fitto della selva, tra mille difficoltà e deviazioni, riuscii a raggiungere la sommità. Con grande sollievo scorsi che proprio lì sorgeva il luogo descrittomi dal porcaro. Rimasi però deluso e turbato vedendo che la piccola cappella era in stato di abbandono e vicino sorgeva solo un lurido tugurio con le finestre sprangate.
Avvicinatomi alla stamberga il mio naso colse un lezzo ripugnante. Mentre ragionavo sul da farsi la porta si aprì e ne uscì proprio il guardiano di porci. Con fare amabile mi invitò ad entrare lodando la bontà del suo vino e del suo cibo.
Ora, vedete, mio buon Ilaro, vi dirò che rimasi assai sorpreso dalla prontezza con cui l’uomo mi aveva preceduto nella sua tana, come se avesse conosciuto altre vie molto più agevoli per raggiungere il posto e la sua gentilezza mi sembrava ostentata, ma poiché viveva in quell’eremo pensai che benedicesse il Signore per la fortuna di accogliere un ospite straniero con cui scambiare qualche parola e magari ricevere un soldo o due. Scesi dunque dal vecchio mulo ed entrai.
Appena ebbi posto piede all’interno della capanna rimasi senza fiato per l’odore dolciastro che mi parve subito essere carne marcia. Al centro della stanza scorsi nella fioca luce un grande tavolo sbilenco e uno sgabello dove fui fatto accomodare. Mi guardavo intorno cercando di abituare gli occhi all’oscurità dell’antro cercando di scacciare gli sciami di mosche che svolazzavano ovunque. Sul tavolo fu servito del vino e una focaccia con della carne fredda ed il mio ospite si sedette di fronte a me invitandomi a servirmene. Il fetore mi stomacava a tal punto che ero più propenso ad andarmene che a toccare la pietanza, ma poiché mi fissava con volto gioviale e speranzoso pensai almeno di fargli cosa gradita bevendo alla sua salute. Il vino, oltre che a sapere d’aceto aveva un sapore amaro che mi lasciò perplesso.
L’uomo, che si chiamava Marcel, insistette perché mangiassi, ma io mi limitai a chiedergli da dove venisse tutto quel lezzo. Egli fece uno strano sorriso e i suoi occhi si volsero verso l’alto. Al che mi sforzai di penetrare quelle tenebre, interrotte qua e là da qualche raggio di sole che filtrava tra le travi sconnesse del tetto. Mi parve in effetti di scorgere delle forme arrotondate su delle assi appese agli angoli del tugurio.
Bussarono alla porta. Quando Marcel aprì l’uscio ad una laida megera allora vidi con chiarezza quali empi arredi fossero posti nell’angolo illuminato: crani di uomini, donne e bambini, alcuni ridotti a teschi, altri con le carni liquefatte e i capelli ancora attaccati. La visione fu fugace perché la donna fu fatta subito accomodare al mio tavolo e la stanza ripiombò nella penombra.
Nonostante fossi colmo di orrore e di sdegno, scelsi di dissimulare i miei veri sentimenti stando all’erta e osservando le mosse del folle. Mi sentii come Ulisse prigioniero nella caverna del Ciclope antropofago, anzi, con indicibile nausea pensai che la carne sul mio desco potesse appartenere a chissà quale sventurato mortale di cui il mostro aveva scelto di nutrirsi per sfuggire ai tormenti della carestia. Dallo sguardo beffardo e divertito della vecchia sdentata supposi che fosse complice dell’assassino. Ella fu servita con le mie stessa pietanza e con disgusto la osservai divorare oscenamente quell’immondo pasto fissandomi negli occhi.
Capii che il sinistro padrone di casa mi aveva attirato in una trappola mortale. Era essenziale che non notasse che avevo compreso la situazione. Cominciai allora a lodare la frescura di quella bicocca e a parlare del più e del meno e nel frattempo sotto la guarnacca cercavo il pugnale che portavo sempre legato alla cintola. Marcel mi invitò a bere ancora, ma io temporeggiai e assaggiai appena la mistura sospetta. Cominciai allora ad informarmi sulla via per Macon dicendo che avevo un appuntamento verso l’ora del tramonto e che era tempo di affrettarmi.
Dopo aver invocato dentro di me la protezione della Vergine, di S.Lucia e della mia beneamata Beatrice, tranquillamente mi alzai per andarmene, pronto all’inevitabile scontro, giacchè ero certo che non mi avrebbero lasciato uscire facilmente, ma con mia gran sorpresa sentii che le gambe non mi reggevano più.
Crollai a terra come corpo morto tra le risa di scherno dei due. Chissà quale ignobile pozione aveva preparato quella strega per rendere inermi le vittime ignare che assaggiavano il vino infernale offerto dal suo socio.
Volli però tentare di coglierli di sorpresa, come il divino Ulisse che si aggrappò al ventre di un montone così io scelsi di strisciare al riparo del tavolo invece di cercare una vana via di fuga verso la porta, che, considerata la mia miserevole condizione mi avrebbe esposto agli attacchi indifeso come un verme. Appena i due turpi figuri si avvicinarono con il mio fido pugnale sferrai un assalto alle loro gambe, menando profondi fendenti. Dalle risa passarono alle urla e vidi Marcel chinarsi con un ascia in mano tentando di stanarmi, ma come un leone in trappola torcendomi continuai a colpire il nemico finchè riuscii a trafiggere il braccio destro dell’uomo che con un ruggito di dolore lasciò cadere l’arma che io prontamente raccolsi.
Come iene che tentano l’assalto ad un leone ferito vigliaccamente si ritraggono dagli artigli del fiero animale, così quelli scapparono non appena compresero che la cattura non sarebbe stata facile.
Spossato mi appoggiai seduto ad una gamba del tavolo attendendo speranzoso che finisse l’effetto del veleno, all’apparenza della famiglia delle cicute. Pregavo anzi che non mi toccasse in sorte la fine del sommo Socrate e ancor più pregavo perchè temevo che il sinistro individuo fosse andato a chiamare rinforzi, ma per fortuna quando verso sera ritornai padrone delle mie gambe, nessuno si era fatto vivo.
Corsi in città dove informai il signore del luogo e tutta la cittadinanza di quello che avevo scoperto. Fu subito mandata una folta schiera ad indagare: essi raggiunsero senza indugio il posto e trovarono quarantotto teste di persone uccise le cui carni erano state divorate dalle fauci belluine di Marcel. Setacciarono palmo a palmo la foresta e finalmente scovarono nascosti in una piccola grotta i due immondi assassini, che si rivelarono essere madre e figlio. Li trascinarono in città, li legarono ad una trave dentro un granaio, come abbiamo poi direttamente constatato e diedero loro fuoco.
Vi assicuro Messere che mai è stata eseguita più giusta condanna e mi auguro che essi possano bruciare ancora cento volte tra le fiamme dell’inferno.
Il mattino successivo Dante volle pregare innanzi al prezioso crocifisso ligneo gelosamente conservato nel monastero.
Osservava rapito il suo aspetto originale. Era infatti un crocifisso tunicato e Cristo indossava anche dei calzari. Il suo volto fissava il fedele solenne e trionfante.
Ilaro gli si avvicinò soddisfatto per il vivo interesse suscitato nel grande dotto da quel tesoro.
-Voi di certo conoscete la storia di questa venerato crocifisso.-
-Vi confesso che ne conosco solo la grande fama dovuta ai suoi poteri taumaturgici.-
-Sappiate dunque che la storia narra che fu sbarcato a Luni dalla Terrasanta ai tempi della folle persecuzione iconoclastica di Leone Isaurico e sembra che esso sia opera della mano di Nicodemo, che una volta deposto dalla croce e sepolto Nostro Signore, divenuto scultore, decise di ritrarlo in croce. Ecco dunque un vero Volto Santo, il più prezioso dei tesori.-
Il sole era ormai alto nel cielo e Dante si preparava a partire. Legati stretti i suoi pochi beni alla sella del mulo salutò calorosamente i monaci e abbracciò commosso Ilaro che ricambiò con calore.
-Amico mio, sono convinto che non a caso il Signore abbia guidato i miei passi fino a qui, proprio oggi che parto verso le regioni oltremontane. Tu mi hai accolto come un fratello, a te ho narrato per primo quel lontano episodio della selva di Chatenet, tu mi hai mostrato il tuo tesoro più prezioso e io voglio farti dono di una copia del mio tesoro affinché tu tenga più ferma memoria di me.-
Estrasse dal fagotto un rotolo di fogli tenuti stretti con una cordicella e la porse al monaco commosso.
-Ecco una mia opera che forse non hai mai visto: la prima cantica del grande Sacro Poema. Trattasi di un viaggio nei tre regni d’Inferno, Purgatorio e Paradiso. Qui ti porgo l’Inferno, dove tutto inizia con me medesimo perso in una selva selvaggia. Copiatelo nel vostro scriptorium e fatene a vostra volta dono al signore di Luni Uguccione della Faggiuola, affinché mi accordi la sua benevolenza. La seconda e la terza parte le dedicherò al marchese Moroello Malaspina e a Federico d’Aragona re di Sicilia.-
Ilaro impaziente per l’onore che gli era stato concesso srotolò i fogli e cominciò a leggere: -Nel mezzo del cammin di nostra vita…-
Dante potè leggere sorpreso un’espressione di delusione sul suo volto.
-Ma è scritto in lingua volgare, non vi sembra, Messere che il latino sarebbe stato più appropriato ad un poema sacro?-
-In verità amico, il proposito iniziale era stato il latino, ma poi, avendo considerato il disprezzo del tempo presente anche per i poeti più illustri in volgare e l’insuperabile grandezza di quelli passati che poetarono in latino, ho deciso di deporre la mia piccola lira latina e optare il volgare.-
Ilaro sorrise e risistemò con cura i fogli.
-Così da oggi questo monastero possiede un tesoro in più. State tranquillo Messere che il signore della Faggiuola ne riceverà una copia.-
Quel mattino Dante si avviò verso il suo destino con il cuore più leggero. Ilaro rimase ad osservarlo scomparire in lontananza con i fogli stretti in pugno, poi corse veloce verso lo scriptorium.
Racconto partecipante alla seconda edizione di © Philobiblon (2007)
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