La luna filtrava attraverso la densa cappa di foglie del querceto.
Pallidi quadrelli di luce colpivano a raffica il volto dell’uomo che cavalcava
lungo il pendio del colle, impedendogli di vedere dove stesse dirigendo la sua
fuga forsennata.
Il rumore di una dozzina di zoccoli sul sottobosco umido profanava la
notte e l’uomo non ebbe bisogno di voltarsi per sapere di essere ancora
braccato; guardava invece avanti, affilato lungo il muso del fedele corsiero: i
muscoli sfiniti sotto la sella, le froge vibranti in spasmodici respiri, un
corpo sul punto di superare il limite della resistenza.
Ma non fu lui a cedere per primo: sentì uno schianto, un nitrito
disperato. Si piegò per vedere un ombra collassare su se stessa in lontananza,
subito superata un'altra sagoma lanciata nella sua direzione. Azzardò un’ampia
virata per invertire la sua corsa e lanciarsi contro l’inseguitore. I massicci
alberi furono testimoni silenti di un cozzare confuso di spade, presto quietato
da un colpo inferto al capo dell’inseguitore, che nel nuovo silenzio si
accasciò al suolo.
Anche l’uomo scese da cavallo, pulì la sua spada macchiata di sangue sul
mantello della sua vittima e prese l’arma del cadavere. Si lasciò poi guidare
dalle imprecazioni verso il secondo inseguitore. Lo trovò non molto distante,
bloccato dal bacino in giù sotto la massa del suo stesso cavallo, azzoppatosi
forse su qualche sporgenza del terreno.
«Sanzanome!» lo chiama il cavaliere spingendo e picchiando con le mani
sul dorso della bestia ansimante.
«Vo’ ammazzarmi? Fallo Laido cane merdoso!»
Scuotendo la testa spazientito Sanzanome si avvicinò al cavallo,
estrasse la basilarda e pose fine alle sue sofferenze, poi si rivolse all’uomo.
«Rainerio, dici tropo»
Gli puntò la spada sull’addome e vi si appoggiò, aumentando poco alla
volta il peso sul pomello, incurante delle urla dell’altro, finché la lama non
penetrò nella carne.
«Poti decidere di restarti quivi ad affocare in le tu’ istesse viscere,
o pure poto essere pietoso con te como sonolo stato con la tu’ bestia»
Lo sguardo strabuzzato dell’altro, il rivolo di bava e sangue a lato
della bocca gli confermarono che la trattativa stava procedendo in suo favore.
«Dicimi ov’è accampatosi Grigorio»
Il querceto diradò la sua cortina di tronchi addolcendosi assieme al
declino del colle e lasciando libera la visuale sulla pianura e sulla città che
la dominava. Alle spalle un bosco e davanti una selva turrita: Bologna la
dotta.
L’alba disegnò da prima i percorsi del Savena e del Reno, per poi
rifrangersi dall’acqua del fossato contro le mura, scorrendo il solido cassero
di ogni serraglio.
Più di sei anni erano passati da quando era stato costretto a lasciare
la sua città. Al tempo la cinta dei “torresotti” non era stata ancora
terminata; nata per proteggere e includere nella città anche i borghi sorti
fuori l’antica Bononia, ora lo rifiutava come cives e lo tenevano lontano come
un nemico, come un bandito.
«Se’ circato dalli sbirri dello potestà che continuiti a girare?» disse
Gilio all’uomo che era in fila davanti a lui.
«Guidotto è tardo ̶ rispose Pietro ̶
Controllo se giugne»
L’assenza del vecchio Montevegliese, non era motivo di scandalo:
scontroso ed eccentrico, era stato lasciato solo dai familiari da molto tempo,
ma Pietro era preoccupato per sé, non per lui. Odiava la selezione ad Brevia,
tutto quel tempo in fila per prendere un biglietto da un’urna gli sembrava un
modo stupido per eleggere gli ufficiali della guaita.
«E se piscassi io uno de’…?»
«Deo, Pietro! Sceglierai colui vo’ dare l’officio scrittoci sovra»
Pietro abbassò lo sguardo deglutendo a fatica.
Guidotto avrebbe dovuto posizionarsi in fila proprio davanti a lui,
invece c’era solo una spazio lasciato vuoto per scaramanzia. Attenzione inutile
ora che toccava a lui pescare.
Infilò la mano nel vaso, estrasse la striscia di pergamena, sussurrò una
preghiera, la aprì, sussurrò una bestemmia.
“Suprastante alli pozzi”: il breve che avrebbe dovuto pescare
Guidotto.
Mentre il ministrale uscente, da dietro l’urna gli faceva cenno di
lasciar scorrere la fila, Pietro guardò alla sua destra: Bonamoneta de Unzola
gli regalò il suo miglior sorriso da prestatore di denaro, “chello che t’ancide
d’innocenza” come diceva sua moglie. Pietro ricambiò il sorriso e si girò
rapidamente dall’altra parte, ma ad accoglierlo c’era il nobile Arduino de
Malaparte, ricco possessore di terre nel contado, in abiti luminosi e volto
scuro. Annuì senza ammettere repliche; Pietro annuì compiacente, poi riguardo
il breve con le lacrime agli occhi
«Suprastante li pozzi… ̶ disse Pietro guardando fuori dalla finestra,
mentre il clamore dei tafferugli andava placandosi ̶
potria fallo incidere sulla mea lapide»
Donna Gisla lo guardò accigliato «Deh! Scegli uno de chelli due
farabutti e chetati»
«Sì l’altro m’ammazza. Lasso sono»
«Deciditi lesto»
«A farmi ammazzare?»
«Chello che vo’, ma è la tercia notte che li sgherri di Malaparte
cavalcanoci sotto casa a fare danni. Sì non potesi avanzare»
«Lo maledetto sì dicemi che se no nomino lui m’aspetta una fine
virulenta. Ma preferrola all’infamia»
«Chell’usuraio malnato di Bonamoneta
̶ continuò Pietro indossando il
mantello sopra la guarnacca ̶ mandami a clamare ogne maitina dalli iudici,
che li danari per iniziare li processi no li mancano. Se no l’accomodo mi farà
bandire»
«Alotta affrontali»
«Se’ folle? Ho studiato da notaio, mica da berroviere»
«E mo’ dove ti va’?»
«In taverna, ̶ disse l’uomo
aggiustando il cappello di feltro sopra l’infula ̶ è
anco presto e colli romori della cavalcata ho perso lo sonno»
«Preferri arenaria o selenite?»
«Per cosa?»
«Per la lapide»
Mandando a quel paese la moglie con un gesto del braccio, Pietro scese
al piano terra della sua abitazione e si incamminò lungo la strada; cercando di
non pensare che in fondo preferiva l’arenaria per la sua lapide.
Le lacrime di Sanzanome lavarono la lastra di arenaria infissa nel
terreno; le mani pulivano delicatamente la pietra rivelando l’incisione “Berta
di Lisignolo di Bucatrave”.
Il primo nome giustificava il vuoto nel cuore: era la mancanza di sua
moglie. I nomi successivi, del padre e del nonno, identificativi della
famiglia, erano causa del peso sull’anima che sempre lo accompagna. Accusato di
aver ucciso Manverso, fratello di Berta, quando ancora era un giovane iroso che
frequentava lo studium, aveva dovuto lottare contro l’odio di lei, ma in
quell’odio lui aveva trovato l’amore per quel carattere fermo, per quell’animo
irrequieto, per quel corpo malato, già violentato da brutali attacchi di tosse.
Immerso nella luce del tramonto, i tratturelli nel cimitero della chiesa
di San Dalmasio gli ricordarono il cammino penitenziale che aveva fatto per
rivalutarsi ai suoi occhi, per tornare umano, per sposarla e per vincere la
fama, uscendo da essa con un’opera volontaria di damnatio memoriae, fino
a trovarsi privo di nome, erede solo di un cumulo di macerie: Sanzanome del
Guasto.
Nella notte che avanzava sentì il bisogno di cantare e di bere.
Non mancava molto al campana di compieta e nella taverna degli aserri
trovò un tavolo dove sedere da solo a sorseggiare del vino caldo e speziato e a
strimpellare la sua citola.
Dava l’idea di apprezzare il vino più di quanto gli altri ospiti della
taverna apprezzassero la sua musica; ore di allenamento distratto non erano
servite a eliminare la goffaggine delle sue dita. La citola era e rimaneva uno
strumento adatto a mani delicate, mani femminili o da giullare. Da una dama gli
era stata donata e un giullare gli aveva insegnato come muovere la penna sui
quattro cori, insieme gli avevano insegnato molti canti; ora ne stava cantando
uno allegro in lingua d’oc, accompagnato solo da un piccolo cane nero che
uggiolava infastidito sotto il suo tavolo.
«E cosa è…?» biascicò Pietro alzando la testa dal tavolaccio su cui si
era addormentato. Il vino rovesciato dal suo boccale si era sparso sul tavolo
inzuppando la roba che indossava: guardò gli abiti macchiati con rassegnazione
pensando ai rimproveri di Donna Gisla.
Cercò con lo sguardo appannato da bacco la fonte di quel fastidioso
stridolio. Un uomo dall’aspetto ruvido e trasandato, con le vesti cupe e l’equipaggiamento
di chi è a metà di un lungo viaggio. Era seduto in un angolo non molto
illuminato della taverna, intento a suonare malamente uno strumento troppo
aggraziato per combinarsi con il suo aspetto rude e vissuto; l’allegria della
voce stonava con il volto segnato dalla vita. Un volto nonostante tutto
familiare.
Pietro sgranò gli occhi esorcizzando del tutto lo spirito del vino.
«Lamberto…»
Pietro correva con la fantasia, progettando le sue prossime mosse.
Quando vide l’uomo dei suoi ricordi alzarsi, raccogliere le sue borse e uscire
dalla stanza semi buia, mandò giù il vino spumoso dal boccale appena riempito,
lasciò sul tavolo qualche monetina e lo seguì fuori dalla taverna.
Il passo dell’uomo era svelto, e la sua sagoma agile si confondeva in
lontananza con l’oscurità e l’umidità della notte. Pietro cercò di seguirlo
anche dopo che l'ultima campana ebbe smesso di suonare, ma poi ne perse le
tracce.
«Era comunque un’idea stolta» disse fermandosi in mezzo alla strada
deserta.
Nel girarsi andò a sbattere contro l’uomo che stava seguendo.
«Perocché seguitavimi?»
«Ah!» Pietro si guardò intorno.
«Io… t’ho recognosciuto»
Sanzanome rimase impassibile.
“Lamberto filio di Adalberto, cacciato da Bologna nell’anno 1200 per
avere acciso uno studente dello studium e non aver resposto allo bando»
Sanzanome fissò immobile il suo interlocutore, il quale deviò lo sguardo
sforzandosi di assumere un sorriso beffardo.
«Eravamo nella istessa societas iuvines, ma non mi hai mai considerato
molto. Comunque non dottare – continuò Pietro – non dicerò nulla cosa. Si tu
m’aterai a sbrigare una faccenda»
Il discorso, studiato al tavolo della taverna, recitato in modo
magistrale, aveva sortito il suo effetto, Lamberto non aveva scampo, era in suo
potere, ne era sicuro.
La sicurezza svanì assieme al sorriso quando Sanzanome cominciò a
muoversi con passo pacato verso di lui sfoderando la spada al suo fianco con
estrema lentezza.
Pietro correva per le strade di Bologna ingerate di fresco, sopperendo
allo stordimento del vino con una grande paura. Alle sue calcagna, Sanzanome
guadagnava terreno, impedito dell’equipaggiamento da viaggiatore, ma
decisamente più agile e prestante del notaio.
«Deo m’ati!» Pietro gridava sperando che gli uomini di guaita lo
udissero; una volta giunto a casa cosa avrebbe fatto? Donna Gisla aveva molti
tratti in comune con il demonio, ma dubitava che ciò potesse intimorire il
folle alle sue spalle.
Avvicinandosi a casa sua vide della luce contornare l’uscio della corte
di Guidotto, la porta era aperta e vi si infilò senza pensarci.
Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta entrato, ma di certo non si
aspettava di trovare il vecchio Guidotto riverso per terra in una pozza di
sangue rappreso.
Altrettanto sorpresi furono i tre uomini che stavano uscendo dalla corte
con diversi fagotti di refurtiva sulle spalle, ma la sorpresa durò poco: uno di
loro cercò di aggredire Pietro con il torcio che aveva in mano e il notaio
cominciò a fuggire in tondo imprecando e pregando.
Sanzanome irruppe dalla porta, fermandosi con aria stupita cercando di
decifrare la scena. Gli altri due uomini gettarono i fagotti e si diressero
verso di lui brandendo delle corte lame.
“Domineddio! Domineddio!” Pietro continuava la sua corsa scoordinata per
la corte, ma un sasso sporgente ebbe la meglio sulle sue calzabraghe suolate,
facendolo rovinare al suolo con al seguito il suo aggressore.
Il rumore di caduta consentì a Sanzanome di approfittare della
distrazione degli avversari, dando un calcio nei fondelli al primo e un colpo
in faccia con il pomello della spada al secondo. Giusto il tempo di liberarsi e
correre verso il terzo uomo, che appena rialzatosi vide bene di fuggire dalla
corte seguito dai suoi complici.
Pietro era a terra tremante e guardava sopra di lui l’uomo dal volto
impenetrabile che lo osservava serrando l’elsa della spada. Sanzanome allungò
il braccio porgendogli la mano aperta. Pietro svenne.
Quando Pietro rinvenne, Sanzanome ancora lo guardava, ma la situazione
era cambiata: si trovava comodamente adagiato sul suo letto, nella sua casa e
sua moglie che lo fissava con occhi da gorgone da un angolo della stanza.
«Tra una svenenza e l’altra se’ riuscito a dicermi ove abiti» disse
Sanzanome.
«Erhm… Grazie…»
«La dama m’ha…»
«Ho ricontatoli li guai che ti porti, bono pure a lordare le maniche
d’enchiostro!»
«Sì… E ho deciso d’atarti»
«Una bona occasione di redenzione…» disse Pietro sottovoce chiudendo gli
occhi.
«Como?»
«Nulla. Cheggevo che pensaviti di fare?»
«Restatevi» disse Donna Gisla «Prima vo’ savere chi è lo tuo cortese
salvatore, volgio nulla gentaccia in la mia casa»
«Io sono…»
«lo nepote di Guidotto!»
Sanzanome interrogò Pietro con lo sguardo, poi sorrise amabilmente verso
Donna Gisla.
«Ariperto di domino Guido. Nipote di Guidotto»
«Sìsì, boni viri, intendete me, chelli due userebbero bene di assaggiare
lo loro stessa medicina amara»
«Cominciamo da chello violento» si disse Sanzanome mentre veniva spinto
malamente avanti da due soldatacci dall’aria esperta che lo pungolavano con la
punta delle spade.
Aveva seguito il canale del Reno a ritroso fino all’imponente chiusa di
Casalecchio e da lì si era mosso verso Ceretolo come indicatogli da Rainerio.
Il fitto castagneto lasciò spazio a una piccola radura che ospitava
l’accampamento di una sordida masnada. Un uomo alto, muscoloso, con i capelli
screziati e l’aria pericolosa si avvicinò sorridente ai nuovi arrivati.
«Salve bastardo!» disse l’uomo sferrando un pugno al volto di Sanzanome,
il quale si piegò per il colpo e con lo stesso movimento sferrò una gomitata
all’addome di uno dei soldati che lo seguiva e un colpo alla gola dell’altro,
sottraendogli la spada e puntandola alla gola dell’uomo che lo aveva colpito.
«Salve Grigorio!»
Sul campo scese un pesante velo di tensione; i mercenari misero mano
alle else.
«Non uscerai vivo di chesto bosco, laido bastardo!»
«Sono quivi pe facerti una proposta»
«E tu pensati che vorriati sentire poscia chello che hai fatto?»
«Visto che hai una lama alla gola pensomi sì e comunque ho fattoti nullo
male»
«Nullo male? E lo modo como conciasti mio fratello?»
«Ho fattolo a lui, non a te. E tuo fratello era uno idiota»
Grigorio non trovò cosa opporre a questa logica. Con due dita abbassò la
lama che lo minacciava continuando a guardare Sanzanome negli occhi, il quale
sorrise.
«Credo che troveremo uno accordo»
«Quanto vale lo mio tempo, bastardo?»
«Quanto oro puotono portare li tuoi balordi?»
Pietro lasciò cadere per terrà un tozzo di pane dopo aver ripulito per
bene la scodella di zuppa.
«Finalemente una tranquilla sera in taverna sanza che Malaparte cavalcaci
sulle terga»
«Sa’ lo stupore de chello nobile borioso a trovarsi li mercenari a
svotarli li magazzini»
«Hai dettoli di gridare che mandavali Bonamoneta?»
«Certo»
«E cosa è? Uno servo di Bonamoneta lagnavasi ché stanotte qualcuno ha
saccheggiato anco li magazzini loro dicendo che mandavali Malaparte. Sì stamane
le parti di Bonamoneta e di Malaparte hannosi date battaglia pe le strade»
«Cose da fanti» disse Sanzanome facendo spallucce.
«Amen. Lo prossimo fatto?»
«Passiamo a chello furbo. Ma fammi conto: in che giogo tieneti?»
«È lo fratello dello presbitero Marco, cui ho confessato uno pesante
sicreto. Et ello ha rivelatolo a Bonamoneta, che ora ricattami»
«Nella pace dello sigillus confessionis…»
Essere svegliato nel cuore della notte da sussulti e gemiti femminili
doveva essere sembrato strano al prete Marco, ma evidentemente la sorpresa di
trovare nel suo letto due fanciulle nude che si trastullavano l’un l’altra
doveva essergli sembrata piacevole se aveva deciso di unirsi a loro in quel
sogno peccaminoso.
A spingerlo al peccato era stata la riflessione che in fondo ecclesia
de occultis non iudicat, ma quando entrarono nella stanza due spiriti, uno
tutto bianco, l’altro tutto nero, lottando tra di loro, gli riaffiorò alla
mente il passo della lettera ai romani in cui San Paolo dice che iudicabit
deus occulta hominum.
Le due fanciulle svanirono come gatti nell’ombra e Marco si strinse
nelle coperte mentre le due figure si affrontavano coperte di ampi manti.
«Giugno dall’inferi pe menare meco l’alma di chesto laido omo! ̶
disse lo spettro nero guardando Marco
̶ Ha tradito lo Signore e la
fidanza dell’omini che vennero a lui como pastore e guida. Falso e spergiuro»
Marco piagnucolava scuotendo la testa.
«In veritade e’ molto ha peccato
̶ disse lo spirito bianco – non è
omo allo mondo più bugiardo o criatura più atra»
Marco continuava a gemere annuendo ai propri peccati.
«È uno ‘nfame, indegno della misericordia ‘Iddio, una guazza merdosa…»
Lo spettro nero guardò la sua nemesi tossendo.
«Ah sì. ̶ riprese l’altro – E’ vive peggio d’uno
bestio, ma sono quivi pe salvare l’anima sua. Acciò scaccioti vasso dello
maligno!»
Fece un ampio gesto col braccio ammantato e lo spirito nero uscì dalla
stanza vorticando e maledicendo.
Poi si sedette sul bordo del letto.
«Confessa li peccata Marco, tuoi e delli tuoi parenti»
Marco uscì dalla canonica con aria sconvolta e semi svestito,
precipitandosi in strada alla ricerca di qualcuno.
Vedendolo, Sanzanome e Donna Maria si affrettarono a passargli davanti
con aria indifferente.
«Donatemi salute! ̶ disse il prete gettandosi ai loro piedi – Non
vo’ che li demoni portanomi via! Uno angelo ha parlatomi. Ha… ha dettomi di
confessare le mie culpe alli primi omini pe strada. Atatemi!”
I due si guardarono tra loro sorridendo e si prepararono a un racconto
molto interessante.
Pietro aspettava con ansia; il notaio e i testimoni della contrada erano
già pronti nella piazza di Santa Margherita per ricevere i nomi degli
ufficiali, compreso il soprastante ai pozzi che doveva nominare lui.
Vide arrivare Sanzanome e gli corse incontro.
«Deh. Alotta?»
«Restati cheto. Malaparte è tropo occupato a contare li danni e che
l’hanno furato dalli suoi magazzini per pensare a darti noia. E Bonamoneta non
ha multa volenza di far intendere in giro la sua simonia. L’officio dello
fratello l’ha comperato caro»
«Bene! – Pietro era contento come un bimbo con un dolce in mano ̶
Alotta domini presenti, volgio nominare suprastante alli pozzi della
contrada di Santa Margherita, Ariperto di domino Guido, nipote dello fue
Guidotto e rede delli suoi beni»
Mentre il notai rogava l’atto da consegnare al ministrale, Sanzanome si
avvicinò all’orecchio di Pietro.
«Levami una curiosità. Ma cosa hai confessato allo presbitero Marco sì
indicibile?»
Pietro si guardò attorno sospettoso, poi disse poche parole all’orecchio
del compagno.
Sanzanome spalancò gli occhi sconvolto.
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Racconto partecipante alla settima edizione di © Philobiblon (2010)
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