sabato 9 gennaio 2010

Bel cavaliere, per cui faccio suoni e motti...

Risalendo a ritroso nella storia del Monferrato dai giorni nostri fino al 1400, le vicissitudini che ne scandirono la vita sono ampiamente documentate. Dal 1400 al 1200 non sempre c’è concordia tra i tanti che ne hanno scritto, ma gli avvenimenti più importanti si possono ritenere abbastanza attendibili.
Volendo invece risalire ai secoli precedenti il tredicesimo, non è più così semplice distinguere la leggenda dalla storia. Molti hanno scritto di questo periodo, ma non si riesce sempre a comprendere se si tratta di leggende molto verosimili, oppure se sono gli avvenimenti reali ad assumere connotazioni leggendarie.
E leggendario fu Aleramo progenitore della dinastia dei primi marchesi di Monferrato.
Si racconta che Aleramo, scudiero alla corte di Ottone il Grande di Alemagna, fosse amato da Adelasia, bellissima figlia dell’Imperatore. Questo amore non era certo ben visto dal padre della fanciulla, dal momento che il pretendente non aveva nient’altro da offrire che due braccia possenti. Ai due innamorati non restò che la fuga. Dopo aver camminato e camminato arrivarono in vista del mar Ligure, dove vissero per anni nascosti in una grotta. Aleramo, dopo aver svolto i lavori più umili, ebbe l’occasione di andare a servizio dal Vescovo di Albenga il quale ben presto dovette partire per una guerra in Lombardia. Portò con se anche Aleramo che si comportò tanto valorosamente, durante l’assedio di Brescia, che l’eco delle sue gesta arrivò all’orecchio dell’Imperatore.
Quando il Vescovo di Albenga mise al corrente l’Imperatore dell’identità del valoroso combattente, dapprima Ottone andò su tutte le furie e scoppiò in invettive, quindi addivenne a più miti consigli e decise di premiare il coraggio di Aleramo investendolo del titolo di marchese e concedendogli quindi il dominio su un territorio i cui confini sarebbero stati determinati dallo stesso Aleramo. Avrebbe infatti avuto sovranità su tutte le terre che sarebbe stato in grado di circoscrivere con una cavalcata di tre giorni. Aleramo si procurò un veloce destriero e cavalcando giorno e notte, delimitò quelli che furono a quel tempo i confini dei suoi possedimenti e che corrispondono più o meno all’attuale Monferrato.
All’interno di questa storia, già di per se corredata di diversi elementi fantasiosi, si inserisce un’altra leggenda che riguarda il modo con cui questo territorio avrebbe assunto il nome con il quale ancora oggi è conosciuto.
Si racconta che durante la cavalcata il destriero avrebbe perso un ferro e, per guadagnare tempo, Aleramo avrebbe utilizzato un mattone per rimettere il ferro perduto al piede del cavallo.
Dal volgare mun che significa appunto mattone e frà che significa ferrare, sarebbe derivato mun-frà, cioè Monferrato in dialetto.
Pur con la consapevolezza che la realtà supera a volte la fantasia, ciò che fa credere essere quest’ultima una leggenda, è il fatto che sembra sia stata inventata da qualcuno che, scervellandosi e non riuscendo a capire da cosa potesse derivare l’etimologia Monferrato, trovò questa fantasiosa e poco logica definizione.
Molto più verosimili sono le ipotesi secondo le quali il nome possa derivare da mons-ferax, cioè monte fertile, riferita alla generosità del terreno di queste colline, oppure da qualche collina di aspetto rossastro che ricorda la ruggine e quindi una volgarizzazione di monte ferroso.
Ma perché non lasciarsi coinvolgere e trasportare dalle leggende, visto che da queste parti di leggende ne sono nate tante, tante ne sono state tramandate, alcune semplici e ingenue, altre poetiche e sagge. E ne sono nate tante fin dagli albori della storia del Monferrato.
Aleramo fu il mitico capostipite di una famiglia che senza dubbio divenne una delle più potenti ed illustri del Medioevo.
Come tale dette ospitalità e onorò tanti trovatori e giullari che presso i castelli del marchese e dei feudatari minori, raggiunsero grande fama e dignità. Insieme a tanti cantastorie popolari e di livello mediocre, si distinsero alcune figure che, pur con grandi meriti intrinseci, poi non hanno avuto posti di rilievo in quella che sarà la storia della letteratura italiana. I meriti, per intenderci, sono stati quelli di aver introdotto per la prima volta in Italia un particolare genere di poesia, la lirica, in un mondo poetico fino ad allora dominato dall'epica.
La maggior parte dei trovatori non erano altro che millantatori, mettevano la loro arte al servizio dei signori esaltandone oltre misura le doti cavalleresche allo scopo di ricavarne di che vivere bene presso le loro corti.
Cercavano poi di unire il dilettevole all’utile cantando la virtù delle dame che si concedevano loro, vuoi per sentirsi dedicare leggiadre canzoni che le adulavano, vuoi per evitare di essere oggetto delle più abbiette e ridicolizzanti vendette espresse in versi scurrili.
Il più affascinante e interessante dei trovatori provenzali, che mai utilizzò simili espedienti per guadagnarsi il pane e il companatico, fu senz’altro Rambaldo di Vaqueiras che dopo varie peregrinazioni, frequentò stabilmente le corti dei marchesi di Monferrato dove sinceramente cantò le gesta dei cavalieri e la leggiadrìa delle dame. Tra quest’ultime una su tutte, Beatrice, lo ispirò...
L'elegante incedere della ragazza che danzando si accostò al gruppo di dame e cavalieri che ascoltavano la musica di Rambaldo, fu per tutti una gradita novità che distrasse gli uditori.
Rambaldo, vedendo rompersi improvvisamente il cerchio di gente che lo stava ascoltando, ne fu ad un tratto sdegnato.
Ne aveva ben ragione. Era il più conosciuto, il più apprezzato dei trovatori che in quel periodo frequentavano le corti italiane. Aveva portato dalla Provenza una ventata di poesia e musica nuova nei castelli del marchese Bonifacio I° e non solo presso di lui.
Per Beatrice, Rambaldo aveva composto le liriche più elevate. In molte ammirevoli canzoni aveva fatto mille elogi della donna ammirata e amata sopra ogni cosa. Per lei aveva composto il “Carosello Amoroso” in cui narra della guerra mossa dalle più belle e nobili signore d’Italia a Beatrice. Le dame manifestavano la propria invidia perché Beatrice offuscava con i suoi pregi e il suo splendore ogni loro possibilità di emergere. Ne ha esaltato la femminilità e la grazia, ma non ha mancato nemmeno di farne una coraggiosa eroina, impareggiabile nel maneggiare la spada come un provetto cavaliere.
I versi e le canzoni che Rambaldo componeva per Beatrice hanno intensificato il loro rapporto innescando un crescendo continuo di reciproche emozioni. Più Rambaldo pensava a quella donna, più trovava in lei doti che non aveva visto prima. Da parte sua, Beatrice, si sentiva valorizzata e apprezzata nelle qualità che più riconosceva come sue, oltre la bellezza che nessuno le poteva negare.
Rambaldo ne cantava la cortesia e la grazia, era ispirato non solo dalla sua avvenenza fisica ma “da due occhi neri che scagliano quadrelli fusi al gioco d’amore contro cui non vale nessuno scudo”. In questo gioco Beatrice si sentiva gratificata e ricambiava l’amore di Rambaldo, ma non poteva fare nulla per non destare, anche nel cuore di altri cavalieri una pari ammirazione che li faceva sussultare al solo vederla, anche se poi non erano in grado di tramutare le sensazioni provate in dolci parole e melodiosa musica, come faceva Rambaldo.
Beatrice, non solo destava involontariamente forti emozioni negli altri ma distribuiva i lampi dei suoi occhi infuocati a molti cavalieri, destando in Rambaldo una gelosia sempre più difficile da controllare. Rambaldo, come succede a molti poeti, pensava di conquistare, con i suoi versi, tutto il cuore di Beatrice mentre la donna era di una tale esuberanza da sentirsi all’altezza di conquistare il cuore non solo di tutti i poeti ma di ogni cavaliere.
L’apparire di Beatrice sulla soglia e vedere trasferito l’interesse degli astanti dalle sue poesie alla persona amata, oltre a risvegliare la sua gelosia, gli fece montare la stizza e lo sdegno. Avvertiva l’importanza intrinseca dei suoi componimenti, era gratificato dall’attenzione dell’uditorio e, venendo questa distolta dal giungere di Beatrice, due fatti sgradevoli intervengono contemporaneamente a turbarlo.
D’altra parte Beatrice, toccata la soglia, sciolse e scosse una cappa di sciamito nero che avvolgeva tutta la sua persona e, gettatala su una panca, spiccò due graziosi salti in punta di piedi e, con estrema leggerezza, quasi il suo corpo fosse senza peso, apparve nel mezzo della stanza in tutto lo splendore della sua bellezza.
Nell’imponente ed austero salone si diffuse, come per incanto, un alone di dolcezza che si poteva respirare. Beatrice sapeva stare tra i nobili gentiluomini ma anche tra persone rozze e grette che, a quel tempo, erano numerose pure tra i frequentatori delle feste al castello.
Lei non era facilmente definibile. Forse Rambaldo conosceva gli aspetti della personalità di Beatrice verso i quali lei anelava, ma non era sicuro che fossero quelli che lei viveva.
Rambaldo, nel corso degli anni vissuti al castello di Bonifacio aveva avuto modo un giorno di scoprire, non visto, Beatrice nel salone delle armi vestire una pesante armatura da combattimento e maneggiare la spada opposta ad uno dei maestri d’armi di Bonifacio, comportandosi come un provetto cavaliere, meglio di un provetto cavaliere.
Lui che ne conosceva e cantava la femminilità fu non poco sconcertato vedendo un lato di lei decisamente, totalmente inaspettato. Metteva a dura prova l’abilità del maestro che si veniva sovente a trovare in difficoltà. Ogni tanto, dopo gli scambi più accesi, si toglieva con un gesto pieno di grazia il pesante copricapo metallico e i suoi lunghi capelli neri si scioglievano sulle spalle, quasi come se la gran massa fino a quel momento costretta, esplodesse.
Il viso appariva del colore rosso fuoco che Rambaldo conosceva bene. Era lo stesso che progressivamente colorava le sue guance durante i loro molto particolari colloqui amorosi.
La loro non era una naturale e normale relazione tra un cavaliere e una dama. Beatrice era sempre entusiasta e gratificata dalle canzoni e dai versi che Rambaldo le dedicava, mentre non sempre, anzi raramente accettava le sue attenzioni fisiche. In queste rare occasioni lei partecipava a modo suo ad un progressivo ed intrigante gioco che saliva d’intensità, fino a raggiungere le più alte vette di un piacere delicato e pervaso di mille emozioni. In questo gioco aveva certamente un grande peso l’effetto delle lodi che Rambaldo continuamente le rivolgeva, ben più numerose e intime di quelle che scriveva e cantava pubblicamente.
Durante questi colloqui d’amore e di poesia, Rambaldo si illudeva ogni volta di avere conquistato il cuore di Beatrice, si aspettava da Beatrice un coinvolgimento in un rapporto esclusivo, mentre il giorno dopo, poche ore dopo, la ritrovava impegnata in altri giochi intensi o banali, nella segreta arte della spada oppure intenta a scherzare e perfino ad accettare la pesante corte dei vari signorotti che erano disposti a tutto per un suo sorriso ...o forse per molto di più. A Rambaldo non era dato sapere fino a che punto si spingevano i suoi rapporti con gli altri, lui non l’avrebbe mai saputo.
Ma nonostante l’altalenante interesse che la donna sembrava dimostrargli, lui sentiva crescere per Beatrice un sentimento che non poteva essere altro che amore.
Beatrice però, non perdeva occasione per fargli intendere di avere ben più profondi interessi a cui teneva particolarmente e che lui, al massimo, poteva aspirare a riempire qualche vuoto nelle sue lunghe giornate e notti al castello.
Rambaldo, pur di starle vicino, imparò ad accettare questa situazione, tanto erano importanti per lui quelle poche occasioni che si presentavano per starle vicino.
Queste rare occasioni le erano sufficienti perché ogni volta si rinnovasse quel grande entusiasmo che Rambaldo provava quando poteva avere Beatrice solo per lui.
Ritornò sovente furtivo alla sala d’arme e numerose volte trovava Beatrice sempre più esperta nel maneggiare la spada. Fu l’unica persona, oltre naturalmente al maestro, a conoscere l’identità del “cavaliere straniero” che in un assolato pomeriggio d’estate sbaragliò tutti i partecipanti al torneo che si tenne in pompa magna sotto le mura del castello.
Compose la sera stessa una canzone in cui esaltava le qualità di spadaccino della fanciulla amata. Beatrice probabilmente non la apprezzò, non perché la composizione fosse liricamente disprezzabile, ma solamente perché vide svelato un segreto che mai avrebbe voluto rivelare a Rambaldo.
La festa al castello che vide concentrata l’attenzione di tutti i presenti all’ingresso di Beatrice, era di pochi giorni successiva al torneo e Rambaldo si vide ignorato totalmente da lei.
Non solo fu ignorato ma la donna invitò un giullare che Rambaldo pensava le fosse antipatico, a suonare la cornamusa. Si disse estasiata da quel dolce suono, modulato e continuo. Beatrice appassionò tutto l’uditorio che si dimostrò d’accordo con lei.
Rambaldo non riusciva più a sopportare il comportamento della donna. Se ne stava in un angolo assente e lontano dalla festa che, appena prima dell’ingresso di Beatrice, lo aveva visto al centro dell’attenzione.
Lo stesso Bonifacio, vedendolo così corrucciato, si avvicinò e iniziò a parlargli della sua imminente partenza per la quarta Crociata.
Nella notte Rambaldo fu tormentato dall’alternarsi nella sua mente dell’idea se seguire il marchese o se rimanere al castello.
Scrisse un’ultima canzone per Beatrice:
Bel cavaliere per cui faccio suoni e motti,
non so se restar per Voi o prender la croce;
ne so risolvermi a partire o rimanere
poiché tanto mi fa dolente la vostra bellezza
ch’io muoio per Voi se vi sto dappresso
e muoio se non vi posso vedere"
Rambaldo di fatto partì con il suo padrone e l’impegno per la nuova avventura fuori dalle mura del castello distolse i suoi pensieri dall’amata Beatrice.
L’investitura di Bonifacio come comandante degli eserciti che marciarono verso la Terrasanta valorizzò il suo fedele Rambaldo che divenne suo consigliere e amico.
La lontananza da Beatrice gli ridiede la serenità che aveva perduto, mentre si sentiva sempre più coinvolto in quelle che erano le imprese guerresche che stava affrontando insieme al marchese. Anche se la quarta crociata ebbe fortune alterne, il marchese Bonifacio I° fu sempre vittorioso e, in virtù del suo grande animo, non oppresse mai gli sconfitti. Rambaldo divenne ricco e potente. Ora cantava le imprese dei crociati e in particolare il valore del suo marchese. Attorno a lui si coagulò un gran numero di cavalieri che lui infiammava con le sue canzoni.
Nel cuore però gli si riaffacciava sovente il rimpianto di non avere più l’amore che lo facesse cantare come quando era alla impareggiabile corte di Monferrato.
Nel 1207 Bonifacio muore in uno scontro con i ribelli bulgari. Con lui muore Rambaldo, testimone fino in fondo di quell’ideale di fedeltà e coraggio che aveva sempre cantato.
La quarta crociata aveva portato via dal Monferrato con Rambaldo anche i giovani cavalieri più coraggiosi e Beatrice si ritrovò in un freddo castello in compagnia delle sempre ostili dame e degli uomini più pavidi e senza ideali.
Ma non era la fine della stagione delle “corti d’amore” ciò che le mancava maggiormente.
Ogni giorno sentiva sempre più crescere il freddo dentro al suo cuore e si rendeva conto che a scaldarlo era il suo Rambaldo.
Il suono della cornamusa ora non rappresentava più per lei il fluire continuo della vita ma una nenia triste e noiosa.
Ciò che prima la teneva viva erano i rari e intensi momenti vissuti con Rambaldo che, come una folata di vento riavvampa un tranquillo fuoco, avevano il potere di rialimentare il suo entusiasmo fino alla successiva folata.
Si può solo supporre come continuò e concluse la sua vita Beatrice. Probabilmente in un lento e progressivo spegnersi delle sue frenesie...
…si può solo supporre… nessuno più la cantò.
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Racconto di Elso Avalle partecipante alla quarta edizione di © Philobiblon (2009)

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