giovedì 20 gennaio 2011

Maxima cura

Un grande frastuono si udì nella stanza, quando il monaco aprì la grossa e gravosa porta della cella, con un gesto rabbioso e risoluto d’entrambe le braccia. La richiuse dietro di lui e portò il suo vecchio corpo sulla sedia dello scrittoio, sudava copiosamente e la visione della sera, della piccola finestra e della pioggia battente non faceva che peggiorare il suo stato emotivo.
Se fosse arrivata la sua ora forse sarebbe stato un bene per il suo secolo, ma il Fato aveva progetti migliori per questo vecchio.
La vita aveva preso tutto da lui la coscienza, la coerenza, i capelli, sì soprattutto i capelli, dannati capelli se solo ci fossero stati, non sarebbe stato internato in un monastero, come frutto irredento del peccato di una notte.
Si chiamava Raoul soprannominato “Il Glabro” per il suo terribile marchio, ovviamente identificato in quel periodo come segno del demonio e della fine dei tempi, di cui rappresentava quindi un “evidente” segnale.  Un’esistenza la sua, trascorsa a constatare il fatto che lui stesso era un’immagine della fine, e che non ci sarebbe stato inizio.
Dopo tutto, questo lo consolava, e lo faceva sentire importante. Quella sera di Aprile vigilia della Pasqua della Resurrezione dell’anno del Signore millesimoquarantesimoquinto,  la luce della candela che illuminava il suo minuto scrittoio, era fioca,  la cera tutta riversa nel tavolo costringeva il vecchio uomo ad alzare le sue stanche membra; del resto la luce era fondamentale, il calore che comunicavano le lunghe candele, compagno di mille serate insonni: insonni per riflettere, per chiedere perdono, per maledire la nascita e perché no anche il proseguo della vita.
Dopo essersi levato, scostò le numerose immagini del crocifisso e le nascose ai suoi occhi; ogni volta che camminava in quella stanza si sentiva infatti osservato da centinaia di occhi, cosa che faceva molto piacere all’abate di Saint Bénigne, dati i precedenti comportamenti del monaco Raoul, e soprattutto data la sua facies. Costui nella speranza di modificare la propensione alle perversioni della carne, alla fuga dagli obblighi religiosi (il vecchio glabro saltava sistematicamente le preghiere del pomeriggio) ed infine alla terribile riottosità, gli aveva posto due pesanti cilici sulle cosce, e collocato in seguito un imprecisato numero di crocifissi affinché lo ammonissero continuamente.  
Raoul era d’aspetto prestante, ancora imponente nonostante la vecchiaia, suscitava timore nei monaci più giovani per il suo sguardo truce, e l’assenza totale di sopracciglia nel volto. Ma quello che intimoriva, anzi forse è meglio dire terrorizzava di più gli altri, era la profonda violenza dei suoi modi. Non aveva assolutamente remore, in un corridoio affollato del monastero, a colpire e  spedire a terra tutti coloro che si ponevano di fronte alla sua strada, le sue risposte alle domande altrui erano più mugugni che altro, espressi prevalentemente con un misterioso corrugarsi della fronte e un lento digrignare dei denti.
Si vide inizialmente allo specchio, il suo aspetto sembrava diverso dal solito, non riusciva a riconoscersi e questo lo faceva stare ancora più male. Cominciò ad ansimare, sentiva un’aggressiva, bruciante e opprimente stretta all’addome, si gettò per terra e si mise steso con le ginocchia attaccate al petto, in quell’istante mentre l’uomo si allontanava dall’universo sensibile, gli tornò alla memoria quell’episodio, impossibile da dimenticare, quasi come fosse un fulmine sulla sua madida fronte. Il ragazzo giovane era seduto dirimpetto a lui, piuttosto basso di statura e corpulento, aveva vent’anni, occhi vivaci, fermi ma prepotenti, il suo atteggiamento molto singolare era costituito da un misto di estrema riflessione e furente aggressività, quasi come se le pause dai pensieri fossero caratterizzate da un’espressione fisica scioccante e dirompente per il suo interlocutore. 
Ed era proprio il vecchio Raoul l’interlocutore del giovane. A quel tempo il monaco si era imposto un sostanziale silenzio interiore, non aveva più nessuna intenzione di mettere in dubbio la sua vita monastica, le sue virtù spirituali e la missione che sentiva assegnatagli dal fato. Gli era stato affidato questo giovane proveniente da Regensburg, affinché lo restituisse al suo monastero come un homo novus, timorato di Dio e  dei suo confratelli, l’abate di Saint Bénigne a quel tempo pensava infatti che il caso di Raoul fosse recuperabile e che il monaco nonostante le sue intemperanze potesse cambiare e chissà perfino riabbracciare la normale vita ascetica, aiutando quel giovane novizio così simile e così diverso da lui.
«Come ti chiami?» alla domanda di Raoul non vi fu risposta, allora il monaco incalzò con una lunga serie di interrogativi: «Perché il tuo abito è stracciato? Cosa gli è accaduto? Perché quello sguardo così insistito? Ti ricordo che puoi parlare liberamente, siamo vincolati da Nostro Signore e le tue parole rimarranno nel mio cuore» il giovane allora si alzò: «Non hai cuore» il vecchio lo guardò sorpreso, «Te lo ripeto più forte, non hai cuore, e sai perché? Perché il tuo spirito è asservito a Dio, al tuo bel crocifisso che non può cambiare la storia del mondo, né tanto meno la mia o la tua. Tu non sei niente, sei solo un povero vecchio glabro ossessionato dai suoi demoni, che viene qui a generarne nuovi in me. Ma è così che funziona no? Voi generate mostri l’uno per l’altro, altrimenti il sistema crolla come un vecchio forte, sì come quella vecchia torre nell’ala Ovest dell’abbazia».
Il vecchio rimase molto turbato dalle parole del giovane, e non ribatté più nulla, passeggiò un po’ per la stanza guardando e per lo più osservando il ragazzo che rifletteva in un angolo, sembrava dai gesti nervosi e continui delle mani, che attendesse una possibile risposta. Certo non era facile trovare qualcuno in grado di sfidare non solo la religiosità della massa, ma anche i propri conflitti interiori, senza minimante badare alle conseguenze delle sue azioni, ponendosi in una sorta di luogo privo di qualsiasi riparo.
O si sta nel mondo, con i suoi Testamenti, le sue Dodici Regole, oppure si soccombe a se stessi, così vanno le cose, così devono andare. E a questo pensava il vecchio, mentre si avvicinava al giovane, gli metteva il braccio sopra il collo e gli diceva con aria paterna: «Così tu credi di poter opporti a tutto, di esser capace di controbattere qualsiasi regola, più o meno imposta, ma poniamo anche che tu riesca a sostenere le tue argomentazioni, poniamo perfino che siano valide, dopo aver demolito un sistema a cui tutti credono come pensi di poter fuggire da te stesso? Come curerai i tuoi demoni da solo, senza una guida? Il monastero, la preghiera, la ricerca della santità è l’unico rifugio per quelli come te e me, non abbandonare Dio, non è necessario e tantomeno opportuno, asseconda la fede che è dentro di te, nel tuo spirito», il giovane allora guardandolo intensamente rispose: «Mi assicuri che se agisco come quello che voi chiamate Dio vuole, tutto ciò che provo, questa rabbia, questa voglia di distruggere e essere distrutto smette?» il glabro ebbe un attimo d’esitazione, un attimo in cui ripensò a tutta la sua esistenza sofferta e sofferente, ma tuttavia rispose: «Sì». Il giovane scoppiò in un pianto dirotto, ed il vecchio si levò rapidamente non per soccorrerlo, ma per muovere i suoi passi ed uscire dalla stanza.
L’aveva condannato, con il suo abito, con la sua disponibilità, con la sua somiglianza, con la sua cieca persuasione, messo all’angolo senza una soluzione era ovvio che il giovane sarebbe crollato, non aveva alternative e Raoul lo sapeva bene, del resto non aveva avuto la forza di trovarle per se stesso, come avrebbe potuto trovarle per quel povero essere umano. Condannato, la parola si replicava come un’insistente e demolitrice preghiera nella mente del povero vecchio, privato di una vita reale, chiuso in quattro mura, costretto a convincersi che l’unica via percorribile è quella della “vera” fede, del Vangelo, dell’esemplificazione sulla terra del più puro e folle ascetismo. E ogni qual volta che tutti gli altri monaci si congratulavano con lui, anche il più piccolo gesto cerimonioso, che gli veniva tributato, contribuiva a renderlo più solo, più stanco, più vecchio.
Quando il ricordo, tanto potente da tramutarsi quasi in una visione, sparì, si alzò in piedi e esitante si guardò di nuovo allo specchio.
Effettivamente quella sera era diverso non era nemmeno lontanamente simile alla quotidiana figura di vecchio tirato, penitente, senza pace, era un uomo che nonostante tutte le privazioni, gli scarni pasti, la solitudine poteva considerarsi ancora tale. Un uomo, con tutta la forza  e la debolezza che la natura d’essere umano comporta.
Rifletteva di nuovo davanti alla sua immagine riflessa e una nuova visione  veniva generata, il volto del padre Eberardo di Auxerre compariva accanto al suo, per fargli notare prepotentemente quanto i loro occhi fossero simili, forse fin troppo. Quell’uomo tuttavia a differenza del figlio aveva potuto permettersi di amare e di essere amato, anche fugacemente, aveva avuto la possibilità di stare nel secolo, di goderlo appieno, per poi pentirsene e considerare il frutto (o forse sarebbe meglio dire “i”?) dei suoi peccati, colpevole quanto lui davanti a Dio e al prossimo, e a fare quello che Abramo non era riuscito a fare, sacrificare la sua vita alla divinità.
Raoul era quindi un apostolo forzato del Signore, un mercenario al soldo della Chiesa.
Aveva vissuto questa strana condizione con enormi sofferenze, la spinta a vivere, ad assaporare i piaceri, a sentire se stesso era sovente bloccata dalla necessità della preghiera, dalla possibilità che qualcuno di sconosciuto, mai visto prima, vivesse male le sue istanze, e lo punisse a morte. I sospetti del resto erano spesso avvalorati dai reali accadimenti della sua vita monastica, i cilici, le ore nella sala della cogitatio (una stanza oscura dove i monaci che avevano peccato pregavano per l’intera giornata digiunando; secondo l’abate era la concretizzazione più reale di un ipotetico e temerario Itinerarium mentis in Deum) le percosse ricevute, e le continue privazioni.
Ma lì davanti allo specchio in quella sera così tempestosa, quanto rivelatrice tutto era diverso.
Dopo quel ricordo così prepotente nella sua manifestazione era finalmente maturo, si sentiva stabile, equilibrato, freddo e perfino in alcuni frammenti del suo essere felice. Lo specchio non mascherava più l’uomo, ma lo dipingeva vivido e risoluto.
Perché c’era una possibilità, l’aveva intravista negli ultimi giorni, durante quell’Aprile così caldo, così solare nonostante le incombenti fatalità del creato, e le incombenze del Creatore. La possibilità era l’inequivocabile vizio nella sostanza aristotelica di tutti gli esseri viventi, amplificato mille volte in più nell’uomo. Il vizio, consisteva nel fatto che l’uomo poteva accettare se stesso, qualunque fosse la sua natura, il vizio era dunque un difetto, un piccolo difetto nel meccanismo punitivo che tutti avevano generato per loro stessi, era il difetto nello schema del millennio, e lui l’aveva capito.
Quindi si sedette sullo scomodo giaciglio che l’abate aveva predisposto per la sua cella e cominciò a riflettere. In quei lunghi istanti si rese perfettamente conto che era giunto il momento di agire, muoversi, fare qualcosa che portasse alla luce la sua scoperta e rivendicasse la sua esistenza. Mise  quindi in un piccola sacca diversi oggetti, vi erano degli indumenti, un martelletto, una spatola, un pennino, varie boccette d’inchiostro, alcune punte metalliche, un crocifisso, una tonaca nuova ed infine un codice adeguatamente miniato, dotato della pergamena più pura e preziosa che vi sia, quella del vitellino mai nato. Varcò la porta della propria cella, diverse ore dopo l’ora compieta, senza dubbio un tempo alquanto
stravagante per uscire, e cominciò ad attraversare il lungo corridoio dove si situavano le celle dei monaci.
Era questo un posto oscuro, si situava sull’ala  Nord del convento ed era teoricamente esposto alla luce esterna, ma il grande architetto che l’aveva progettato e fatto costruire, aveva accuratamente evitato di creare degli sbocchi d’aria ma soprattutto di luce. I monaci dovevano essere murati nella loro orante solitudine, loro stessi rappresentavano la luce del mondo, perciò non vi era nessuna necessità che questa entrasse e illuminasse i luoghi che abitavano, anzi poteva risultare persino fuorviante al loro cammino.  Ma ormai vi erano delle crepe nei progetti millenaristici, dell’uomo e di Dio stesso, il monaco con ridente risolutezza attraversava il corridoio nero come la pece senza neppure una candela, sapendo perfettamente come muoversi e dove andare. Incise il suo nome con il martelletto nell’ultima cella, la cella in cui dimorava l’abate di Saint Bénigne, e prese con sicurezza la via delle scale che portavano alla Chiesa.
Lì il monaco si spogliò, si mise nudo davanti a Dio e gli fece vedere quanto il suo corpo non fosse troppo diverso dal corpo del Figlio martoriato sulla Croce, e gli chiese provocatoriamente  se era quello che desiderava, se sperava che quella fosse la fine di tutti gli uomini. Strinse infine fra le mani il suo crocifisso così forte da imprimersi il segno sopra, e lo innalzò al cielo con un movimento rapido e sereno, e dopo tutto questo lo ripose nella sacca. Era  pronto a rivestirsi, la tonaca nuova e pulita gli dava un senso di benessere sconosciuto, e l’uomo scomodo per il monastero e per il mondo cominciava a divenire se stesso.
Si mosse velocemente con il cappuccio bianco in testa ed uscì che ormai era l’alba, senz’esser visto da anima viva; la luce del sole era già sorprendentemente forte e illuminava gli splendidi spazi verdi che circondavano Saint Bénigne, l’itinerario era ben chiaro nella testa del vecchio,  quanto era stato rivelatore il ricordo precedente.
Il suo compito era restituire a quel giovane ormai divenuto adulto, la speranza di una vita diversa lontana dalle braccia soffocanti dell’Abbazia di Sant’Emmeram, doveva redimere il suo peccato più grande cioè l’averlo trascinato nel baratro di una disperante solitudine ascetica, persuadendolo ad accettare le lusinghe della preghiera, convinto anch’egli del fatto che non vi fosse una strada alternativa, una via da percorrere nel mondo.
Ora che l’aveva trovata doveva informare quel monaco, tuttavia la distanza tra Digione e Regensburg era un problema insormontabile, il vecchio aveva ormai raggiunto il culmine della sua esistenza e non sarebbe riuscito a giungere nel territorio dell’Impero Germanico. Così si decise a pernottare  in una locanda situata poco al di fuori della città di Digione per decidere il da farsi.
La locanda, frequentata da diversi individui ben poco raccomandabili, offriva in compenso un giaciglio ben più comodo del terribile letto della cella monastica abitata da Rodolfo in precedenza. Del resto l’abate si era sempre raccomandato che i letti fossero rigidi quanto più possibile, poiché dovevano ricordare la pietra dove Giacobbe si era sistemato per dormire e che era stata rivelatrice mostrandogli la volontà di Dio.

Si stese e cominciò a cercare una soluzione ai suoi dilemmi guardando il soffitto, si mosse solo per riporre nella tavolozza di legno  il vecchio codice, che stava componendo per commissione congiunta del proprio monastero e del grande abate di Cluny Odilone. Era una cronaca che raccontava le vicende più recenti del suo tempo, le enormità dei conflitti che riempirono di pagine sanguinose il secolo, le croniche carestie, le inettitudini dei sovrani, il “notevole” contributo della chiesa nei suoi più eminenti esponenti, la rinascita delle abbazie e lo sviluppo di un nuovo e migliore spirito monacale, in definitiva l’arrivo e il superamento del millennio con le attese che tutto questo portava con se. L’abate che gliela aveva commissionata voleva un forte strumento d’ammonimento, che destasse negli uomini, un sentimento di reale penitenza, e per fare questo “consigliava” al vecchio monaco di non essere troppo ligio ai “fatti” ma ai “prodigi e ai miracoli di nostro Signore“; tuttavia il vecchio che era un grande storico amante del realismo di Tacito, mal sopportava le indicazioni eccessive relative alla stesura e stava scrivendo un’opera piuttosto dettagliata che guardasse agli eventi con relativa semplicità, scevra da ogni contenuto paranormale o peggio “millenaristico”. Il vecchio vedeva e rivedeva il lavoro, correggendone meticolosamente i punti di maggiore interesse, e ricaricava  i suoi vasetti d’inchiostro ogni giorno.

Riprese in mano il codice, lo lesse, lo rivide una volta, e poi ancora un’altra e una terza la sua brama nella lettura era stupefacente, divorava le pagine da lui stesso scritte, con voracità pari a quella d’una belva feroce che non si ciba da tempo, cercando minuziosamente all’interno del testo un aliquid, come se vi fosse una singolare connessione fra la soluzione dei suoi dilemmi e la fredda storicità del testo.

Non poteva arrivare a Regensburg, ma poteva far arrivare qualcosa a Regensburg, qualcosa che solo il giovane avrebbe potuto comprendere, un manoscritto contenente la loro vendetta ed assieme la loro redenzione. Ripensò in quell’istante alla voce dell’abate che con toni stentorei e suadenti per un animo sottomesso, suggeriva di raccontare come ogni meraviglia del mondo fosse riconducibile alla fine del mondo stesso, le bellezze e le storture erano delle fedeli alleate nella conclusione di questo incredibile universo, tutto doveva suggerirne la fine, e stimolare la volontà di penitenza.

Così all’improvviso il vecchio monaco glabro si mise a ridere fragorosamente, cominciò a prendere la spatola e raschiò tutto il contenuto del codice, lo raschiò perché lo strumento della sua ultio si trovava proprio nelle scellerate parole dell’abate. Avrebbe spaventato a morte tutti, del resto la sua esistenza era stata costellata da visioni più o meno terribili, li avrebbe terrorizzati mostrando loro piovre enormi che escono dal mare, draghi che eclissano il sole, lune che sanguinano, e avrebbe demolito totalmente la speranza che il loro Dio potesse far qualcosa di fronte alla Sua stessa volontà di distruzione.

Restava solo una cosa, inviare un messaggio chiaro al monaco tedesco: prese due boccette d’inchiostro, miniò la sua figura intenta a scrivere, la disegnò nella carta di guardia finale  prossima alla legatura,  assieme alle visioni più terribili che venivano narrate nel manoscritto, e alla figura del monaco da giovane sullo sfondo. Quello doveva essere il signum ed era sicuro che il monaco di Ratisbona l’avrebbe colto; poi pulì accuratamente il pennino, gli legò una punta metallica non bagnata da inchiostro, e cominciò ad incidervi le seguenti parole:

Homo, bos, leo et aquila ante ficum inter eos pugnabant,

sed duo nautae plenissimis velis in mare navigabant

per aspera ad astra.

Rimaneva un ultimo particolare da non trascurare, ricordava il volto, lo sguardo, gli occhi, la bocca, la gestualità, ma non rammentava per nulla il nome. Sollevò lo sguardo, e lo tenne lievemente inclinato in attesa di una risposta della sua memoria, e ancora una volta gli venne in aiuto l’abate di Saint Bénigne: <>. Un sorriso sincero si dipinse sul suo viso, e così concluse:

Otloni, maxima cura.

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Racconto partecipante alla quinta edizione di © Philobiblon (2010)

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