martedì 26 febbraio 2013

Lucilla, prigioniera del mercante di schiave

PROLOGO
Genova, Anno Domini 1177 – Giugno
La mia storia comincia a Ravenna, in una magnifica giornata di primavera di due anni fa.
La mia famiglia è quella dei Capeleti; il mio nome è Lucilla; anch’esso ha una storia.
Quando oramai mia madre sembrava destinata alla grande tristezza dell’infertilità, la Vergine esaudì le sue preghiere. In una radiosa mattina di giugno venni alla luce.
Era il 1161.
Fui portata al cospetto di mio padre Davide, che attendeva oltre la stanza da letto.
Un raggio di sole intenso illuminò il mio volto.
“Lucilla”, disse mio padre “Sì, sarà Lucilla. E’ un miracolo, dopo tutti questi anni. Il viso della piccola illuminato dal sole…è un segno divino”. E Lucilla fu. Mi venne anche messo il nome della Vergine: Maria, in segno di ringraziamento alla Madonna per aver esaudito le tante preghiere, portando una gioia immensa nella casa paterna.
Correva l’Anno del Signore 1175.
Ero allora una giovane adolescente, folti riccioli d’oro a cornice del volto grazioso e innocente. Il futuro era carico di promesse, proprio come i boccioli che lì, sui rami, promettevano uno splendido risveglio dopo il sonno invernale.
CAPITOLO I
Ravenna, Anno Domini 1175 – Marzo, primo pomeriggio
Dopo il pranzo, quando il tempo lo permetteva, la mia famiglia era solita sedersi in giardino, sul retro della casa. Giuseppe, il nostro giardiniere, aveva trasformato il rosaio in un paradiso di profumi e colori. Un vero artista!
Mio padre amava leggere storie di navigatori e mercanti. Angela, mia madre, ricamava ed io mi divertivo a cercare formicai; appena ne individuavo uno, ecco che le formiche iniziavano a disperdersi. Poverine! Prima tutte incolonnate come tanti schiavi, poi arrivavo io e zac…con uno stelo d’erba le disperdevo. Non volevo far loro del male; mi piaceva osservare come riuscivano a ricreare la colonna di partenza.
Se solo avessi saputo quale triste destino era in agguato, sicuramente avrei avuto maggiore rispetto per quelle piccole creature.
Ravenna, A.D. 1175 – Pomeriggio inoltrato
I miei genitori stavano rientrando in casa e la voce di mia madre giungeva alta. Invisibile ai loro occhi, ero nascosta dietro un cespuglio di viburno, cercando di catturare Batuffolo, la nostra gattina bianca e nera.
“Lucilla, fai presto, dove sei?”, continuava imperiosa la voce di mia madre.
Non riuscivo a trovare la gatta. Mi era parso di vederla correre oltre lo steccato. “Strano”, pensai “A quest’ora, in genere, Batuffolo è più ligia di me. Sa che, prima di cena, mia madre le da il suo ultimo pasto della giornata”.
Poi…tutto accadde in un istante!
CAPITOLO II
Ravenna, A.D. 1175 – Il Male è in agguato!
Sentivo i passi di mia madre. Il cancello posteriore era stranamente aperto. Avrei dovuto capire che c’era qualcosa d’insolito. La sventura era lì, pronta a catturarmi. 
Accelerai il passo. “Dov’era finita, Batuffolo?” pensai. Poi la vidi. Era impaurita.
Nell’istante in cui capii il perché, un sacco mi piombò addosso. Due mani forti e ruvide mi presero e m’impedirono di urlare.
Il panico più profondo in un istante trasformò un’adolescente in una giovane donna.
La mia vita a Ravenna era ormai terminata.
Non so dove, A.D. 1175 – Alcuni giorni dopo
Non so bene per quanto tempo viaggiai.
Terrore…ecco cosa avvertivo più di tutto.
Ricordo ancora i sobbalzi del carro su cui mi avevano caricato, ben nascosta sotto le coperte. Ogni volta che mi agitavo o cercavo di urlare, una mano mi picchiava.
Ci fermammo credo per tre notti.
In quelle condizioni, lo scorrere del tempo era più tiranno dei miei rapitori!
Sempre bendata, mi davano una ciotola con qualcosa di disgustoso da mangiare. Unico conforto era il calore del fuoco attorno a cui stavamo seduti. Dopo il pasto, gli uomini, con toni volgari, si raccontavano storie di scorribande e di violenze sulle donne.
Poi di nuovo sul carro, mentre il resto della banda dormiva.
L’ultima notte tentai di svincolarmi. Non l’avessi mai fatto! La punizione fu orribile.
Ancora oggi rimane indelebile nella mia mente.
Quell’essere volgare, che mi teneva a bada mentre gli altri riposavano, mi prese con una brutalità inaudita. Il dolore della violenza che subii fu atroce, così come la nausea che provai per il fetore che emanava quell’uomo.  
L’indomani il viaggio riprese e quando il carro si fermò, mi fecero scendere e mi tolsero la benda. Non sapevo dove fossi.
Una luce intensa mi sferzò gli occhi. Era il sole!
Dopo il buio, quella splendida chioma dorata rincuorò il mio animo ferito e il suo calore sembrò lenire i dolori del mio corpo.
Entrammo in un maniero. Scendemmo un’infinità di scale e poi camminammo per una serie di cunicoli sotterranei. Arrivammo dinanzi alla porta di una cella e, senza tanti complimenti, fui gettata dentro. Sbattei la testa.
Quell’enorme porta chiudeva un altro capitolo della mia vita.
Poi l’inferno s’impossessò di me.
CAPITOLO III
Torre Astura-Nettuno, A.D. 1175 – Una mattina di fine Maggio
Non mi fu fatto più del male.
Un donnone, dai modi rozzi ma buona di cuore, ogni giorno mi portava una ciotola con qualcosa da mangiare, un secchio ed una pezza per lavarmi.
Una mattina, di buon’ora, l’enorme porta si aprì e un giovane entrò nella mia misera cella. Era alto, bello e dai modi inaspettatamente gentili.
Un paio di stupendi occhi scuri iniziò a scrutarmi dall’alto al basso.
Provavo un profondo imbarazzo, come se mi stesse spogliando col solo sguardo!
La vita aveva già trasformato una fanciulla in donna e quella donna s’innamorò perdutamente del giovane dinanzi a lei.
Il suo nome era Aureliano, Messer Aureliano da Bardi.
S’inchinò e mi disse che sarei stata portata a Roma entro due mesi. Nel frattempo, avrei avuto al mio seguito una dama, una sarta mi avrebbe cucito nuovi abiti e una parrucchiera mi avrebbe rassettato giornalmente i capelli. Infine, avrei vissuto quelle ultime settimane in una bella stanza del maniero, con splendida vista sul mare.
Mi trovavo nella rocca di Astura, nei pressi di Nettuno, non lontano da Roma.
Non potevo credere alle mie orecchie. Tanta crudeltà prima e ora tanta gentilezza.
Cosa mai il futuro aveva in serbo per me? Perché chiusa in cella da oltre due mesi?
Non trascorse molto tempo, prima si saperlo!
Il giovane uscì ed io attesi ansiosa l’evolversi del mio destino.
CAPITOLO IV
Viaggio verso Roma, A.D. 1175 – Inizi di Agosto
Il viaggio da Astura verso Roma fu una delle cose più eccitanti della mia vita.
Ero ormai rassegnata al distacco dalla mia famiglia. Li avrei rivisti? Come stavano? Chissà il dolore che ancora provavano per il mio rapimento.
Messer Aureliano sedeva di fronte a me nella carrozza e sorrideva, lievemente, a ogni espressione di stupore che i miei occhi ingenui assumevano alla vista di paesaggi nuovi.
Era dolce con me. Ogni volta che i nostri sguardi s’incrociavano, una strana sensazione di calore pervadeva il mio corpo.
Era una sensazione nuova! Ed era inebriante!
Roma, A.D. 1175 – Inizi di Agosto, arrivo a Palazzo
Ci fermammo la notte presso una locanda e poi l’indomani raggiungemmo Roma.
Le sue strade erano uno spettacolo ai miei occhi!
Quando la carrozza si fermò, uno stuolo di servitori ci venne incontro. Il bel giovane, di cui ero oramai perdutamente innamorata, impartì loro una serie di ordini.
La mia dama, Monia, sembrava già conoscere il posto. I suoi occhi però celavano una strana malinconia, rispetto l’allegria che avevano avuto nei mesi trascorsi ad Astura.
Solo dopo compresi la ragione…e il mio triste destino associato a quell’elegante palazzo.
CAPITOLO V
Roma, A.D. 1175 – Settembre, metà mese
Dal nostro arrivo, le giornate si susseguirono tranquille, fino a una mattina di metà mese.
Un pallido raggio di sole stava facendo capolino tra le finestre.
Mi svegliai d’improvviso; un frenetico andirivieni di gente animava il cortile del palazzo.
Mi affacciai alla finestra e lo spettacolo che vidi mi sorprese non poco.
Circa una decina di giovanissime ragazze stavano entrando a palazzo.
Ero ancora in camicia da notte, in preda a vari dubbi e domande su ciò che stavo vedendo, quando la mia porta si aprì bruscamente.
Aureliano era lì, alto, fiero e consapevole del suo fascino.
Sbatté la porta, chiudendola, e mi si avvicinò.
C’era qualcosa di strano nel suo sorriso. Mi tese la mano come a voler prendere la mia. Gliela porsi. Fui strattonata e gettata sul letto.
Pensai fosse quello il modo in cui gli uomini prendono una donna.
Dopotutto, avevo avuto solo una tragica esperienza alcuni mesi prima.
Sentivo il suo respiro sempre più affannoso e le sue mani esplorare il mio corpo. Le sue labbra, prima posate sulle mie, iniziarono a baciare ogni centimetro della mia pelle.
Mi accorsi di essere nuda!
E poi mi prese… con desiderio e violenza. I miei sensi erano confusi!
Giacevamo uno accanto all’altra da pochi minuti, quando si alzò fulmineo.
Si rivestì e mi disse “Sii sempre pronta”.
Non capii, ma volli pensare che in lui si fosse accesa la fiamma dell’amore.
Mi dispiaceva quel rapido distacco.
La mia pelle era ancora calda e il suo odore, tra le lenzuola, m’inebriava la mente!
L’inferno, quello più nero, giunse dopo quel giorno.
CAPITOLO VI
Roma, A.D. 1175 – Il giorno dopo, mattino
Mi addormentai a fatica quella notte. Ero ancora eccitata per quanto mi era capitato la mattina precedente e al tempo stesso incuriosita da uno strano mormorio, misto a grida sommesse che si udiva nel palazzo, o così pensavo fosse. Il tutto era iniziato, il giorno prima, circa un paio d’ore dopo l’arrivo delle fanciulle. Si sentivano anche voci rozze di altre donne e volgari risa di uomini.
Che cosa stava succedendo a palazzo? Monia mi aiutò a lavarmi e vestirmi, poi andò via.
Roma, A.D. 1175 – Primo pomeriggio
Dopo alcune ore, Monia rientrò nella mia stanza con l’immagine del terrore disegnato in viso. Mi disse che ero attesa nella sala delle feste. Perché allora quel volto angosciato?
Non avevo mai visto nessuno a palazzo, ad esclusione del giovane Aureliano.
Chi mai poteva richiedere la mia presenza?
Fummo scortate da un energumeno nel salone più grande che avessi mai visto prima.
Aveva ampie finestre, un lungo tavolo e pareti adornate con magnifici arazzi dorati, su cui erano ricamate immagini che sembravano scene di caccia. C’era, però, qualcosa di strano su quei tessuti. Rimasi stupita…
A essere cacciati non erano animali…erano fanciulle!
Fui condotta dinanzi una specie di trono, riccamente intagliato, su cui sedeva un uomo, dal volto orribilmente sfregiato.
Penso avesse la stessa età di mio padre, ma la sua bruttezza e quegli occhi rosso fuoco come il Demonio, rendevano impossibile una stima degli anni.
Sembrava una creatura venuta dagli Inferi, al di fuori del tempo.
Accanto si ergeva, in tutta la sua bellezza, Aureliano.
Quell’accostamento, così contraddittorio, rendeva l’intera scena, che man mano si profilava davanti ai miei occhi, davvero assurda!
Improvvisamente ogni voce tacque e notai delle fanciulle, sicuramente le stesse del giorno prima.
Roma, A.D. 1175 – Umiliazione e paura
Al cospetto di quell’essere demoniaco, mi sentivo paralizzata dal terrore.
Mi osservava. I suoi occhi di fuoco si muovevano rapidamente: guardavano me, poi le giovani ragazze, poi di nuovo me…come se dovessero fare una scelta.
A un suo lieve cenno, Monia mi strappò la parte superiore della veste. “Cosa fai!”, furono le sole parole che, in preda alla vergogna e alla paura, riuscii ad emettere.
Aureliano pareva godere di quella scena. Nessuna difesa!
Quando tentai di coprirmi, lui addirittura bloccò le mie mani dietro la schiena.
Allora tutto mi fu chiaro.
Mi guardai attorno e vidi che anche le altre fanciulle erano nelle mie stesse condizioni.
Non capivo, però, come mai io fossi stata esclusa da quel gruppo, quasi come una “merce a parte”.
E merce di piacere…eravamo tutte in quella stanza!
Lo compresi più avanti.
Ero stata rapita per soddisfare le voglie di uomini che erano disposti a pagare somme ingenti pur di accaparrarsi giovani donne di buona famiglia. Per diventare più “remissive”, eravamo tenute prigioniere svariate settimane. La sferza della paura indeboliva e umiliava il nostro carattere.
Questo rendeva il divertimento più eccitante ai loro occhi perversi!
Lui mi scelse insieme con altre cinque ragazze. Sussurrò qualcosa all’orecchio di Aureliano che, per la prima volta da quando l’avevo conosciuto, rise in modo rozzo e fragoroso.
Il mio Aureliano!
Come poteva essere così stolto il cuore di una donna innamorata…
CAPITOLO VII
Roma, A.D. 1175 – In una fredda notte di Novembre
Quella notte…quella orribile notte…Orsini mi volle per sé.
Sento ancora le sue orribili mani toccare ogni parte del mio corpo.
Vedo ancora i suoi occhi mentre mi sovrasta e mi prende brutalmente.
Odo ancora le volgari risate durante i suoi perversi “giochi amorosi”.
Le mie narici percepiscono ancora l’odore nauseante della sua pelle.
La mia bocca ha ancora il sapore dei suoi baci lascivi!
I giorni che seguirono furono un tumulto d’incubi ad occhi aperti e chiusi.
Monia, un giorno, mi raccontò la verità di quell’orribile palazzo.
L’esponente di un ramo cadetto della famiglia Orsini, Roberto, per soddisfare la sua lussuria e la fame di soldi, aveva intrapreso il commercio di schiave. Si era avvalso della complicità di loschi individui, reclutati probabilmente tra alcune famiglie nobili decadute, i cui nomi erano segreti.
Le schiave dovevano essere fanciulle italiane di buona famiglia che venivano rapite e vendute al miglior offerente. Molte erano acquistate da Califfi arabi.
Spesso, Orsini ne teneva alcune per sé: “Carne fresca”…soleva definirle.
In passato Monia era stata una di loro. In seguito, le fu dato il compito di accudire alcune fanciulle “prescelte”. Ne ignorava il motivo.
“Ribellarsi? Impossibile! Pena la morte e nel peggiore dei modi”, mi disse rispondendo a una mia precisa domanda.
Mi raccontò di sua sorella, rapita con lei, e di quando tentò la fuga da questa prigione. Fu portata nelle segrete del palazzo e morì fra le più atroci sevizie, come le riferì, anni dopo, una guardia che si era impietosita per la sua sorte.
I giorni trascorrevano fra la mia stanza e quella di Orsini, mio aguzzino e padrone.
Cercai più volte di interrogare Monia sul giovane Aureliano, che oramai non mi degnava nemmeno di uno sguardo.
Lo vedevo tutti i giorni a pranzo e a cena, seduto al lungo tavolo nel salone da pranzo.
Roberto Orsini a un’estremità e al suo opposto stava sempre Aureliano. Io e Monia sedevamo timorosamente vicine.  
I pasti, degni di un re, erano l’unico piacere di quelle lunghe e orribili giornate.
Il mio cuore? Sebbene infranto e umiliato, era ancora tutto per lui!
CAPITOLO VIII
Roma, A.D. 1176 – Maggio, primo raggio di sole!
Era molto presto.
Dopo avermi aiutato a indossare gli abiti da giorno, Monia corse rapidamente via.
Trafelata, ma stranamente sorridente, fece ritorno nella mia stanza qualche ora dopo.
Prima che la porta si chiudesse, una giovane donna comparve alle sue spalle.
Lunghi capelli neri e penetranti occhi marroni: in lei qualcosa mi era familiare.
 “Anche lei è stata rapita, poco dopo di te”, mi disse Monia in modo furtivo, come se le pareti potessero sentirla.
“Ascoltala e saprai la verità. Stai finalmente per lasciare l’inferno alle spalle”.
Quella mattina, il primo sole di Maggio sembrava foriero di buoni presagi e quelle parole volevano quasi confermarmelo.
E la donna iniziò.
“Lucilla, non ascoltare il tuo cuore ferito e lascia che io ti racconti.
Colui che ci ha salvate, vuole che sia io ad iniziare. Tornerai a vivere. Sappi che la tua vita passata è oramai un mero ricordo. Un’altra è pronta per te. Ora lascia che ti spieghi chi sono realmente e ricorda queste mie parole: riapri le porte del tuo cuore!”.
Ero confusa! Le sue parole mi sembravano un indovinello.
Ciò che ascoltai fu peggiore di mille frustate!
CAPITOLO IX
Roma, A.D. 1176 – L’amara verità!
“Lucilla, il mio casato è quello dei Riboldi. Sì …sono tua cugina Ginevra, rapita subito dopo di te”.
Ecco la familiarità di quel volto, seppur visto in rare occasioni. Era più grande di me.
“Molti anni fa i nostri padri si macchiarono, per avidità, di un crimine efferato: il commercio di giovani fanciulle, ridotte poi in schiavitù. Erano il braccio destro di Roberto Orsini, il tuo aguzzino. Le nostre nobili casate erano oramai ridotte a poco più che uno stemma. Poi, d’un tratto, le cose mutarono. Ricchi banchetti, tanta servitù e bellissimi abiti. Ricordi il Natale del 1170? Tuo padre aveva organizzato, dopo tanti anni, una festa degna di un re. Tu eri piccola. Forse l’hai dimenticato. Percepii in quei giorni una strana intesa tra i nostri padri. Provavo come una forte sensazione di disagio. Anche mia madre non capiva da dove arrivasse tutto quel ritrovato benessere.
L’ho scoperto qualche ora fa! Una sua lettera mi è stata consegnata stamane.
Lucilla, entrambe siamo state tradite e vendute dalla stessa carne che ci ha generato. E’ l’orribile verità; ne erano all’oscuro anche le nostre madri.
C’era però un giovane...”.
“Assurdo”, pensai. “Venduta come schiava da mio padre!”. E Ginevra proseguì.
“Era bello e dal nobile aspetto. Di recente veniva a farmi visita. Tranne che in rare occasioni, il suo sorriso era l’unica cosa gentile tra tanta tristezza e orrore. Come te dovevo sottostare al volere e ai piaceri del mio padrone. Credo tu sappia chi sia questo giovane”.
Il cuore iniziò a battermi forte: Aureliano! Chi altri?
“Ciò che sconvolse maggiormente tua madre, dopo il rapimento, fu la mesta rassegnazione di tuo padre. Strana, per un uomo del suo rango! Mossa dal dolore, non si diede per vinta. Iniziò a chiedere ovunque notizie di te, pronta a ben ricompensare chiunque ti riportasse a casa. Disponeva ancora della terza parte della sua dote nuziale.
Un giorno, mentre tuo padre era a caccia, ricevette la strana visita di un giovane dall’elegante aspetto. Egli le rivelò ogni cosa.
Si era però innamorato di una fanciulla.
Le mostrò un tuo fazzoletto, raccolto nella cella di Torre Astura. Il giovane voleva interrompere quell’infame commercio. Così le rivelò il suo piano.
Tua madre gli parlò anche di me. Grazie a lui siamo salve, insieme a tante altre fanciulle”.
“Ginevra, perché i nostri padri hanno venduto anche noi?”, chiesi amaramente. E lei “Il tuo aguzzino, padrone indiscusso del commercio di schiave, ti volle per sé.
Nessun prezzo è stato pagato. A lui, nessuno poteva ribellarsi e nulla poteva essere negato. Poi vide me a una festa. Subii la tua stessa sorte”.
CAPITOLO X
Roma, A.D. 1176 – Una nuova vita!
Dopo una pausa che mi sembrò un’eternità, mia cugina aprì la porta.
“Lascia che sia io a continuare, Ginevra”, disse Aureliano entrando lentamente nella mia stanza…e per sempre nella mia vita!
“Le vostre famiglie e gli Orsini erano troppo potenti. Nulla le avrebbe ostacolate. Per porre fine a questo crimine si dovevano eliminare la mente e il braccio.
Le vostre madri, pur di sapervi in salvo e in buone condizioni, approvarono il mio piano. Apparentemente crudele, ma necessario per il bene più grande.
Ancora per un po’ dovetti far finta di continuare il gioco, mentre mettevo a punto ciò che avevo escogitato. Ecco perché fui costretto a cambiare il mio atteggiamento nei tuoi riguardi. Nemmeno tu avresti dovuto sospettare ciò che stavo facendo. Non ti ho potuto proteggere da Orsini, temevo di essere scoperto.
E’ stato il periodo più triste della mia vita, saperti tra le sue grinfie e non poter far nulla.
Per questa ragione, quella mattina di Settembre, volli che tu fossi mia prima di lui.
Mi servivano tempo, soldi e tanta cautela.
Ci sono riuscito!”.
Per un istante i nostri occhi si scontrarono come due onde in un mare in tempesta.
“Chi sei davvero?”, riuscii a dire con un fil di voce.
“Ero un nobile, mia Lucilla. Avido e perfido.
M’innamorai subito di te. Per la prima volta nella mia vita percepivo, con tristezza, la sofferenza altrui...la tua sofferenza!
Grazie a te capii quanto dolore in generale i nobili stavano arrecando alla città e alla sua gente. Una città corrotta, pervasa da bramosia di ricchezza e di lussuria.
Era giunta per me l’ora della redenzione. Tu... mi hai salvato l’anima, Lucilla!
Entrai nell’amministrazione del Comune Consolare, ostile al Papato e alla Nobiltà.
Solo così avrei potuto eliminare Orsini, vicino al Papa per legami di sangue, Riboldi e Capeleti, nobili intoccabili, e con loro il traffico delle giovani schiave. Volevo agire da solo. Io, crudele un tempo come loro, volevo ripagarli con la stessa moneta.
Ordii un finto rapimento: la figlia del Console Guastalla. E’ libera ora, non temere!
Con parecchio denaro, che tutto compra, reclutai falsi emissari. Avrebbero dovuto impersonare il ruolo dei traditori di Roberto Orsini e dei vostri padri. Il rapimento doveva sembrare opera loro. Il commercio delle giovani schiave è stato finalmente reso pubblico.
E’ appena terminato un processo popolare contro di loro. Questa mattina le carceri del Comune hanno spalancato loro le porte. Persino il Papa non ha potuto fare alcunché di fronte a tali “orrori”.
Le vostre madri sono state dichiarate innocenti, perché estranee ai misfatti dei propri mariti. Grazie a ciò potranno mantenere i gioielli di famiglia. Gli altri beni sono stati già confiscati.
Meglio non sfidare oltre la Fortuna. Sono riuscito a liberare tutte le giovani fanciulle che ho potuto. Temo però le ire di molti dei loro aguzzini, soprattutto qui a Roma.
Per tante altre…ahimè non c’è più nulla da fare. I Califfati sono fortezze inespugnabili!
Raggiungerete le vostre madri in una località sicura. Per la vostra incolumità, loro sono già in viaggio da sole. Fuori c’è una carrozza che vi attende. Fate presto!
Che Dio possa perdonarmi per aver partecipato a questo abominio!”
Si fermò.
Dopo qualche istante d’esitazione, iniziammo a uscire.
Fui bloccata.
Col suo sorriso, smagliante più del solito, Aureliano si rivolse a me…
“Fermati…mia Lucilla…abbiamo ancora tante cose da dirci!”
Mi strinse forte a sé e mi baciò fino a togliermi il respiro.
EPILOGO
Genova, Anno Domini 1177 – Giugno
Ed è così che io, Lucilla Capeleti, sto per sposare Messer Aureliano da Bardi nel giorno del mio sedicesimo compleanno, una radiosa mattina di Giugno.
Un raggio di sole sta illuminando il volto del mio amato sposo.
Che straordinaria coincidenza!
Lucilla, accarezzata da un “Raggio di Sole” subito dopo la nascita.
Aureliano, ovvero “Sole Splendente” della mia nuova esistenza.
Il Fato, artefice della nostra unione, certamente ordinò al Sole di vegliare su di noi.
La vita, che credevo persa per sempre in quel triste giorno di primavera di appena due anni fa, mi appare ora luminosa e piena di speranza!
Il Sole fa risplendere la Terra…come tu, Aureliano, fai risplendere l’Anima mia!
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Racconto partecipante alla settima edizione di © Philobiblon (2012)

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