Confini di Argo. 15 marzo dell’Anno del Signore 1450.
Il canto dell’allodola riecheggiò nel silenzio ovattato di un’alba di primavera, una lieve foschia avvolgeva l’accampamento.
Da qualche parte a nord ovest svettavano i minareti del Ri-bat di Haseeb Pascià, uno dei più temibili Rais di Murad II. L’Impero della Mezza Luna si avviava al culmine della sua potenza.
La brezza proveniente dal Golfo di Corinto lambì il volto abbronzato e tormentato di Filippo Corsi, nel pugno stringe-va un fazzoletto verde, l’unica cosa che gli restasse di E-lena.
Con lei riuscì per la prima volta ad immaginarsi vecchio do-po una vita da masnadiere al servizio del Conte Rodolfo Luz-zi.
Per nulla al mondo avrebbe rinunciato agli sprazzi di quiete che sapeva infondere nel suo animo quello sguardo innocente.
La sua disarmante grazia era una roccaforte in cui ripararsi quando le nubi dei vecchi ricordi iniziavano ad oscurare il cielo ed il suo amore era un faro verso cui dirigere il pen-siero.
Erano trascorsi diversi mesi dal sacco di Agropoli, quando Haseeb l’aveva sottratta al suo abbraccio.
Da allora era preda di una morsa atroce, che schiacciava il suo petto giorno dopo giorno, tanto da spingerlo ad interro-garsi sulla bontà dei disegni divini.
Chi avrebbe immaginato che la sua sola, flebile speranza sa-rebbe giunta da un passato che egli aveva ormai ripudiato.
Giurò ad Elena che non avrebbe mai più toccato una spada, tuttavia, un destino beffardo lo fece imbattere proprio ad Agropoli nel figlio di Rodolfo.
Angelo Luzzi lo aveva accolto a bordo della S. Giorgio, l’ammiraglia di una flotta gerosolimitana proveniente da Ge-nova e diretta a Rodi, la sola occasione per riscattare ciò che gli era stato sottratto con la viltà delle armi.
L’abitato di Argo era dominato da un’ampia fortezza veneziana posta sulla cima del colle di Larissa.
Torri di guardia erano raccordate da robusti muraglioni.
Ai piedi del colle, così come assicurato dal messo bizantino, già li attendevano i cambi e le vettovaglie.
Sulla via per Corinto s’imbatterono nelle placide acque di un fiume, proseguirono poi attraversando un ampio tratto di foresta oltre la quale, su un’altura, si rivelò loro l’incanto delle rovine di Micene.
Da lì in poi la via proseguì su erti sentieri montani. Durante l’estenuante cavalcata Filippo ebbe modo di discutere con Angelo riguardo Asbagh, l’amico berbero che in più di un occasione gli aveva salvato la vita.
L’episodio del bivacco in cui questi era stato provocato da Spallanzani, mentre pregava, l’aveva turbato profondamente.
Temeva che, prima o poi, si sarebbe cacciato in qualche guaio a causa della sua fede.
Anche Angelo si soffermò sulla vicenda, confessando a Filippo l’intento di concedere la libertà al berbero.
- Quanto ad Asbagh, non so che dirti. È sempre stato un tipo strano, seppure abbia dato prova di grande lealtà. Sulla S. Giorgio si è conquistato il rispetto ma, al di fuori della nostra cerchia, ciò che è accaduto al bivacco potrebbe ripetersi senza di noi a proteggerlo.
Orbene, potrebbe convertirsi...
Filippo sorrise.
- Non ci proverei, riuscirebbe a convincerti che sia più semplice convertire all’Islam tutta la S. Giorgio.
Angelo annuì, poi chiamò a sè il berbero, che li raggiunse al galoppo.
- Sahyid? Disse Asbagh affiancando Angelo.
- Ragionavo con Filippo circa la possibilità di affrancarti.
Conosco le vicende che ti hanno condotto alla mia Galea e voglio che tu sappia che puoi considerarti libero da ogni giogo.
Asbagh non accennò alcun turbamento.
- Con vostra licenza, sahyid, non sono certo le catene che fanno l’ uomo schiavo.
Non c’è giogo che possa cingere l’essenza profonda di un uomo, essa appartiene solo ad Allah il Misericordioso, che illumina i nostri passi con la Sua infinita saggezza, tuttavia, ora il mio spirito è ancor più libero.
Filippo guardò Angelo di sottecchi.
La Morea settentrionale mostrava ancora segni delle devastazioni apportate quattro anni prima dall’esercito di Murad.
Di alcuni insediamenti non restavano che spettrali rovine, abbandonate e razziate dai saraceni che, dopo la distruzione dell’Hexamilion di Corinto, erano calati come tempesta.
Lo strumento con cui il Sultano punì i Paleologhi, avevano osato tramare con la sconfitta Lega di Varna.
Qualche sparuta anima ancora si aggirava tra le vestigia, accogliendo il loro passaggio con la rassegnata indifferenza della pazzia.
Quando giunsero a Corinto, la vista dei resti della formidabile muraglia, dove solo le capre osavano inerpicarsi in cerca di qualche arida gramigna, suscitò nei Cavalieri di Rodi un senso di profondo sconforto.
- Questo è ciò che resta della gloria dell’Impero Romano d’Oriente, Filippo. Uno dei più maestosi baluardi della cristianità, l’Hexamilion, è preda di sterpaglie e dimora delle capre!
Ah quanto vana fu la sua gloria se ora anche il fratello dell’Imperatore deve pagar dazio al Sultano.
Una porta lasciata divelta!
Ecco cosa sono ora i bastioni di Corinto.
Disse Angelo, memore della perduta magnificenza.
Al porto li attendevano diverse cocche e navi destriere per trasportarli sull’altra sponda del Golfo.
Le galee di Tommaso Paleologo, il despota di Morea, li scortarono lungo le coste dell’Attica finchè, calata la sera, giunsero ad un promontorio nei pressi di Itea, lì sbarcarono in una rada riparata.
Ad ovest, il pattugliamento dei legni della mezza luna si era fatto oltremodo intenso.
Allestirono l’accampamento ai piedi di un basso colle e furono disposte sentinelle su tutto il perimetro.
La nottata trascorse tranquilla, tranne che per l’avvistamento di un legno transitato al largo della punta.
Abbandonati i bivacchi alle prime luci di un’alba nuvolosa, i giovanniti seguirono un sentiero che s’inerpicava lungo le pendici del Parnaso.
Gli effluvi dei rosmarini si mescolava all’inebriante aroma dell’origano.
Giunsero poi in vista di un villaggio indicato sulla mappa come Chrissos, poco distante dalla costa di Itea.
Dalle creste circostanti era possibile tenere sott’occhio tutta la valle che segnava il confine trai territori ottomani e quelli del Ducato di Atene.
Volgendo lo sguardo a settentrione già potevano scorgersi i minareti di Salona, rara perla incastonata tra le vette del Parnaso, ora appartenente ai domini del Sultano.
Poco più a sud la carta bizantina indicava la posizione del ribat di Haseeb, lungo il confine tra il Dar al Islam e i territori che i turchi consideravano ancora non del tutto assoggettati.
Angelo arrestò per un attimo la marcia.
Abbeverarono i cavalli ad uno dei numerosi ruscelli che bagnavano quei boschi lussureggianti.
- Dovremmo proseguire poche leghe verso occidente prima di giungere in vista del ribat, seguimi!
Disse Angelo a Filippo.
Cavalcarono verso uno sperone da cui potevano scorgere tutta la vallata.
- Ecco è lì... vedi? Quella fortificazione ad ovest. Oltre quel minareto c’è...
-... il suo palazzo!
Lo precedette Filippo che strinse le redini al punto da farne stridere il cuoio.
Il cuore iniziò a palpitare tanto da sentirlo quasi in gola. L’immagine di Elena balenò così chiara.
Il ribat parve dissolversi, il vento si placò e i nembi scomparvero.
La sua mente vagò come se non appartenesse più a quel tempo ne a quel luogo.
Ben presto, però, fu riportato alla realtà allorchè una nube di polvere catturò l’attenzione di Angelo.
- Cavalieri.
Osservò.
- Si dirigono verso il confine. Una razzia! Presto, raggiungiamo gli altri...
Aggiunse Angelo, voltando rapido la sua cavalcatura.
Filippo lo seguì prontamente.
Raggiunto il villaggio, attesero l’arrivo dei turchi all’ombra di un boschetto di platani.
Gli abitanti, intanto, erano in subbuglio.
Le campane già annunciavano l’imminente attacco.
Asbagh ora cavalcava accanto a Filippo, Giovanni Malaspina li affiancò con aria arrogante.
- Voglio proprio vedere se avrai il coraggio di combattere, saraceno! Quelli sono i tuoi fratelli o sbaglio?
Disse, dopodichè scoppiò a ridere.
Filippo sogghignò rivedendo, nella diffidenza del corsaro, se stesso quando incontrò Asbagh per la prima volta.
- L’uomo giusto osteggia il male, da qualunque parte esso giunga ad interrompere la pace. Tu, cavaliere, sei in grado di fare lo stesso?
Rispose Asbagh con la solita flemma.
A quel punto Giovanni smise di ridere ed il suo volto divenne dello stesso colore della rutilante barba.
Asbagh si rivolse poi a Filippo.
- Cavalcherò con te nella libertà anche se tu sai che libero lo sono sempre stato, Filippo, così come libera da ogni costrizione è l’amicizia che a te mi lega.
Filippo sorrise, era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo per nome.
- Desidero tu sappia che, quando sarà tutto finito, sarei felice se venissi con me ad Agropoli.
Aggiunse l’avventuriero.
- Agropoli? Imshallah, Filippo, Imshallah.
I cavalieri di Haseeb non si fecero attendere.
Piombarono sul villaggio con tutta la loro furia.
Anche Angelo non indugiò e lanciò l’attacco.
I cavalieri coprirono la distanza in un lampo, travolgendo i saraceni intenti a sfondare porte ed uccidere quegli abitanti che ancora non erano riusciti a chiudersi in casa.
La sorpresa si dipinse sui loro volti alla vista delle tuniche crociate tanto che, inizialmente, non riuscirono ad opporsi.
Ben presto, tuttavia, il Rais riuscì ad organizzare le fila e guidò un contrattacco, assalendo il fianco dello squadrone giovannita.
Le lame e le lance dei jenicer balenarono sulle teste dei cavalieri.
I turchi riuscirono respingerli fino alla periferia orientale di Chrissos.
Parte dello squadrone crociato si separò dallo schieramento riguadagnando terreno attraverso vie laterali.
Bloccarono l’avanzata turca tagliando a metà la loro cavalleria.
A quel punto un drappello di cinquanta cavalieri, guidati da Filippo e Giovanni Malaspina, riuscì ad aggirare il villaggio prendendo alle spalle il resto dei predoni.
Iniziò una mischia furibonda.
Si combattè senza seguire uno schema preciso, una zuffa colossale in cui il sangue iniziò a scorrere in rivoli lungo i canali di lato al lastricato a dorso di mulo.
Asbagh e Filippo restarono uniti, difendendosi l’un l’altro dagli assalti dei saraceni.
Molti crociati erano stati disarcionati ma continuavano a combattere come poterono, ostacolando i giannizzeri con pali e lance.
Ad un certo punto Filippo perse di vista Asbagh.
La presenza dei cavalieri, tuttavia, suscitò negli abitanti del villaggio un moto tale che, ben presto, molti si armarono e scesero in strada.
I villici balzavano inferociti sui predoni.
Alcuni di questi furono completamente circondati, disarcionati a forza di braccia e trucidati a furor di popolo.
Ciò consentì ai giovanniti di riorganizzarsi e prendere in mano le sorti dello scontro.
Calò nuovamente la quiete, ma le strade brulicavano di cadaveri e feriti.
Alcuni cavalli vagavano mesti, trascinando i corpi dei loro cavalieri staffati.
- Asbagh! Aasbagh!
Urlava Filippo ma non ebbe risposta.
Sopraggiunse intanto anche Angelo, il cui braccio, nonostante la cotta lo coprisse fino al gomito, era solcato da un taglio profondo.
Il suo sangue si confondeva con quello dei nemici sulla mano che ancora brandiva, trascinandola stancamente al suolo, la spada.
- Filippo, sia lodato il cielo, è fatta!
Disse.
- Hai veduto Asbagh? Dov’è?
Rispose lui, incurante dell’esito dello scontro.
- Tu come stai?
Filippo non rispose, non ne ebbe il tempo.
Riconobbe il volto dolorante del suo amico tra coloro che erano stati abbattuti.
Gli corse in contro gettando via la spada.
Lo sollevò, era ferito gravemente al torace.
- Asbagh! Amico mio...
Il berbero lo riconobbe e sorrise, nonostante sentisse la vita scorrergli via, come sabbia sottile del deserto tra le dita.
- Non piangere, Filippo. Allah (Sia lodato il Suo nome) ricompenserà il bene col bene... ricorda... coloro che credono e che compiono il bene avranno giardini in cui scorrono ruscelli e... in essi rimarranno immortali per sempre. Ricorda, amico, Egli è il misericordioso... ricordami...
Asbagh si spense con la serenità che aveva contraddistinto tutta la sua vita.
Filippo sollevò il corpo del berbero e lo portò all’ombra dei platani e lo seppellì assieme alla sua spada.
Raccolse un grosso sasso e, dopo aver inciso su di esso un unica parola, lo posò sul tumulo.
- Addio Asbagh. Ci rivedremo un tempo, imshallah.
Poi si voltò verso Angelo. Giovanni Malaspina, osservò tutta la scena, si avvicinò alla sepoltura e lesse sulla pietra.
- Amazigh. Che significa?
Si chiese a voce alta.
- Libero.
Rispose secco Filippo.
Malaspina fu il primo, tra i capitani, a tributare al berbero gli onori, prima di raggiungere i cavalli.
- Non arrenderti proprio ora. Non ora.
Disse Angelo, ma egli parve aver perduto quella tenacia da-tagli dal raggiungimento del suo obiettivo.
Tuttavia non era quello il momento, lui non voleva arrender-si, non poteva, non doveva.
- I prigionieri sono oltre quelle mura. Avremo più possibi-lità di prendere il Ribat ora che tutti questi giannizzeri giacciono sotto le nostre spade.
Aggiunse il capitano della S. Giorgio.
Filippo lo guardò e tentennò.
- Si tratta pur sempre di mura alte e spesse. Se il coraggio e la spada possono sconfiggere centinaia di giannizzeri, pressochè nulla possono contro i bastioni.
Disse, sorridendo amaramente nel ricordo delle parole di Giorgio Castriota, il principe d’Albania che un giorno lo aveva accolto trai suoi guerrieri.
- Poco o nulla certo. Non possiamo di sicuro cingerli d’assedio nel loro territorio. Verremmo sbaragliati dalle truppe in arrivo da nord.
Aggiunse Angelo, mentre Filippo parve ora sovrapensiero, continuava ad osservare la bussola donatagli da Asbagh.
Poi il suo sguardo indugiò sul corpo di uno dei saraceni.
Un lampo balenò nella sua mente illuminandola con un idea assurda quanto ardita.
- Poco o nulla a meno che... potremmo varcare quelle mura a cavallo e senza perdere un solo uomo.
Disse, suscitando lo stupore di Angelo.
- Che intendi?
Gli chiese l’ammiraglio.
Filippo si chinò sul cadavere del turco ed iniziò a spogliarlo, indossò poi il turbante, le braghe e raccolse una sciabola.
- Un giorno un grande Principe mi disse che esistono diversi modi per conquistare una fortezza e, talvolta, l’astuzia si rivela assai più efficace della spada.
Quando ci vedranno arrivare, crederanno di aprire le porte ai loro cavalieri!
Disse prima di montare a cavallo.
- Che aspettate? Forza! Indossiamo i loro abiti!
Ordinò Angelo.
In men che non si dica uno squadrone di finti giannizzeri cavalcò deciso verso il Ribat e presto furono a ridosso delle mura barbaresche.
La fortificazione era potenziata con torrioni presenti ogni cinquanta passi.
Oltre la prima cinta si potevano scorgere altre torri.
La grata del portale d’ingresso si sollevò con una lentezza che parve infinita, mentre rivoli di sudore percorrevano le tempie dei cavalieri, inermi al tiro degli arcieri, ma le sentinelle furono ingannate.
Riuscirono così a raggiungere a cavallo la cerchia interna, meno presidiata, ed oltrepassarono la porta che immetteva nell’ampio cortile del Ribat.
Erano giunti fin quasi all’Imaterem quando un gruppo di giannizzeri andò loro in contro.
Uno di questi, intravista la croce sotto la tunica di uno dei cavalieri, fiutò l’inganno.
- Hristiyan!
Urlò ai compagni sugli spalti.
A quel punto i cavalieri estrassero le spade e li uccisero prima che riuscissero ad opporsi, ma l’allarme era stato dato.
Giannizzeri iniziarono a spuntare da ogni anfratto del porticato.
Un picchiere turco riuscì a disarcionare Angelo colpendolo il suo cavallo con la lancia.
L’ammiraglio si rialzò rapido e parò i colpi con la sua spada, tuttavia la stanchezza era tale che fu costretto a brandire l’arma con entrambe le mani.
- Sövalye Hristiyan!
Urlavano i turchi dai bastioni, esortando gli arcieri del perimetro esterno a raggiungere la cerchia più interna di mura.
Filippo, intanto, si accorse delle difficoltà di Angelo e subito accorse balzando sui mori dalla groppa del suo cavallo.
Con una spallata atterrò un giannizzero armato di sciabola poi parò il colpo di un altro.
Il suo affondo, rapido e spietato, non lasciò scampo all’avversario.
Angelo si occupò del turco atterrato dallo spintone di Filippo ma presto vennero assaliti da altri nemici.
Un fendente portato all’altezza del volto andò a vuoto, per la prontezza di Filippo, ma fischiò sopra la sua testa facendo volar via l’elmo col turbante, scoprendo il fazzoletto verde che gli cingeva la fronte.
Il colpo fu portato con tale forza che il turco si sbilanciò e cadde in avanti, divenendo facile vittima del morso della sua lama.
- Presto, Filippo, al palazzo! Svelto! Li teniamo a bada noi!
Urlò Angelo. Filippo si diresse verso l’Imaterem, seguito da un manipolo di cavalieri.
Attraversò dei porticati che formavano una selva di colonne maiolicate, oltre le quali una porta ad arco immetteva in un altro cortile.
L’ingresso era sorvegliato da due imponenti guardie che subito si avventarono su di lui assieme ad altri uomini della milizia del Pascià.
I cavalieri riuscirono a spingerli all’interno del cortile ma uno dei due eunuchi si frappose con decisione tra Filippo e la via verso i porticati interni alla corte.
La larga scimitarra guizzò verso il suo fianco ma egli riuscì a parare il fendente, la cui violenza lo sbalzò di lato.
Ogni stoccata indebolì progressivamente la sua capacità di contrattacco e, ad un certo punto, si ritrovò per terra, esausto e disarmato.
L’eunuco si preparò a vibrare il colpo di grazia ma egli lanciò instintivamente verso il suo volto una manciata di pietrisco colpendolo negli occhi e lasciandolo un attimo in-certo.
L’esitazione gli fu fatale, poiché Filippo scivolò verso la sua spada. In un sol gesto la raccolse e vibrò un fendente che raggiunse il fianco dell’eunuco, aprendo una breccia che fece emettere a quell’uomo un urlo straziante prima di crol-lare.
Proseguì da solo, mentre i cavalieri continuarono a tener testa alla guardia di Haseeb.
Si diresse verso la parte opposta del cortile, incurante delle frecce che saettavano dalle strette feritoie delle torri.
Dall’Imaterem sopraggiunse anche Angelo con il resto dei ca-valieri i quali, sopraffatti gli uomini del Ribat, circonda-rono anche le guardie del palazzo.
Filippo non si avvide di ciò, continuò a correre tra i por-tici in cerca di Elena.
Percorse ogni angolo del cortile fino a scontrarsi con una guardia che sbucò da una scalinata interna.
In preda all’ira l’avventuriero si avventò su di lui e, con l’ultimo residuo di forza, gli puntò la lama alla gola prima che l’uomo potesse estrarre la spada.
- Gli schiavi! Dove sono gli schiavi!
Sibilò a denti stretti.
La guardia tentennò.
- Esir!
Ringhiò Filippo, spingendo con più forza la lama contro il suo collo, a quel punto l’uomo indicò il pianerottolo oltre la rampa di scale.
Sottrattagli la spada, lo tramortì sbattendolo contro il muro, poi si precipitò su per le scale irrompendo nell’atrio degli alloggi riservati agli schiavi.
- Elenaa!
Urlò, scrutando una per una le donne che si ritrovò di fronte.
Le schiave, intimorite dal sangue che imbrattava la sua giubba di cuoio, si raccolsero in un angolo.
Un velo scuro ne copriva il volto scoprendo solo gli occhi.
Le loro urla lo confusero.
- Elenaaa... dove sei, Elena!
Cercava negli occhi di ognuna di quelle donne lo stesso sguardo che aveva fatto di lui un uomo migliore ma non vi fu risposta.
- Sono io, Filippo.
Cadde in ginocchio, vinto dalla morsa che strinse il suo cuore fino alla fine di un viaggio che lo aveva condotto ben oltre i confini della sua immaginazione, una morsa che parve annientare ogni suo residuo spirito combattivo.
Le spade che brandiva si fecero pesanti, tanto da scivolargli via dalle mani tremanti.
- Elena...
Continuava a ripetersi.
Nella sua mente riecheggiarono le parole di Asbagh.
- Ricorda, Filippo, Egli è il Compassionevole, il Misericordioso...
- Asbagh.
Sussurrò in lacrime.
Due mani si posarono sulle sue spalle.
Finalmente si arrese alla volontà di un Dio che aveva trovato l’espiazione più amara per tutti i suoi peccati.
Tuttavia quelle mani lo aiutarono a sollevarsi e, quando si voltò, si specchiò in occhi pietosi e grati, quegli stessi occhi che tormentavano i suoi sonni agitati.
La donna gli sfilò dalla fronte il fazzoletto verde e, quando scoprì il suo volto dal velo nero, il cuore di Filippo fu di nuovo libero.
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Racconto di Vincenzo Cortese partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)
Il canto dell’allodola riecheggiò nel silenzio ovattato di un’alba di primavera, una lieve foschia avvolgeva l’accampamento.
Da qualche parte a nord ovest svettavano i minareti del Ri-bat di Haseeb Pascià, uno dei più temibili Rais di Murad II. L’Impero della Mezza Luna si avviava al culmine della sua potenza.
La brezza proveniente dal Golfo di Corinto lambì il volto abbronzato e tormentato di Filippo Corsi, nel pugno stringe-va un fazzoletto verde, l’unica cosa che gli restasse di E-lena.
Con lei riuscì per la prima volta ad immaginarsi vecchio do-po una vita da masnadiere al servizio del Conte Rodolfo Luz-zi.
Per nulla al mondo avrebbe rinunciato agli sprazzi di quiete che sapeva infondere nel suo animo quello sguardo innocente.
La sua disarmante grazia era una roccaforte in cui ripararsi quando le nubi dei vecchi ricordi iniziavano ad oscurare il cielo ed il suo amore era un faro verso cui dirigere il pen-siero.
Erano trascorsi diversi mesi dal sacco di Agropoli, quando Haseeb l’aveva sottratta al suo abbraccio.
Da allora era preda di una morsa atroce, che schiacciava il suo petto giorno dopo giorno, tanto da spingerlo ad interro-garsi sulla bontà dei disegni divini.
Chi avrebbe immaginato che la sua sola, flebile speranza sa-rebbe giunta da un passato che egli aveva ormai ripudiato.
Giurò ad Elena che non avrebbe mai più toccato una spada, tuttavia, un destino beffardo lo fece imbattere proprio ad Agropoli nel figlio di Rodolfo.
Angelo Luzzi lo aveva accolto a bordo della S. Giorgio, l’ammiraglia di una flotta gerosolimitana proveniente da Ge-nova e diretta a Rodi, la sola occasione per riscattare ciò che gli era stato sottratto con la viltà delle armi.
L’abitato di Argo era dominato da un’ampia fortezza veneziana posta sulla cima del colle di Larissa.
Torri di guardia erano raccordate da robusti muraglioni.
Ai piedi del colle, così come assicurato dal messo bizantino, già li attendevano i cambi e le vettovaglie.
Sulla via per Corinto s’imbatterono nelle placide acque di un fiume, proseguirono poi attraversando un ampio tratto di foresta oltre la quale, su un’altura, si rivelò loro l’incanto delle rovine di Micene.
Da lì in poi la via proseguì su erti sentieri montani. Durante l’estenuante cavalcata Filippo ebbe modo di discutere con Angelo riguardo Asbagh, l’amico berbero che in più di un occasione gli aveva salvato la vita.
L’episodio del bivacco in cui questi era stato provocato da Spallanzani, mentre pregava, l’aveva turbato profondamente.
Temeva che, prima o poi, si sarebbe cacciato in qualche guaio a causa della sua fede.
Anche Angelo si soffermò sulla vicenda, confessando a Filippo l’intento di concedere la libertà al berbero.
- Quanto ad Asbagh, non so che dirti. È sempre stato un tipo strano, seppure abbia dato prova di grande lealtà. Sulla S. Giorgio si è conquistato il rispetto ma, al di fuori della nostra cerchia, ciò che è accaduto al bivacco potrebbe ripetersi senza di noi a proteggerlo.
Orbene, potrebbe convertirsi...
Filippo sorrise.
- Non ci proverei, riuscirebbe a convincerti che sia più semplice convertire all’Islam tutta la S. Giorgio.
Angelo annuì, poi chiamò a sè il berbero, che li raggiunse al galoppo.
- Sahyid? Disse Asbagh affiancando Angelo.
- Ragionavo con Filippo circa la possibilità di affrancarti.
Conosco le vicende che ti hanno condotto alla mia Galea e voglio che tu sappia che puoi considerarti libero da ogni giogo.
Asbagh non accennò alcun turbamento.
- Con vostra licenza, sahyid, non sono certo le catene che fanno l’ uomo schiavo.
Non c’è giogo che possa cingere l’essenza profonda di un uomo, essa appartiene solo ad Allah il Misericordioso, che illumina i nostri passi con la Sua infinita saggezza, tuttavia, ora il mio spirito è ancor più libero.
Filippo guardò Angelo di sottecchi.
La Morea settentrionale mostrava ancora segni delle devastazioni apportate quattro anni prima dall’esercito di Murad.
Di alcuni insediamenti non restavano che spettrali rovine, abbandonate e razziate dai saraceni che, dopo la distruzione dell’Hexamilion di Corinto, erano calati come tempesta.
Lo strumento con cui il Sultano punì i Paleologhi, avevano osato tramare con la sconfitta Lega di Varna.
Qualche sparuta anima ancora si aggirava tra le vestigia, accogliendo il loro passaggio con la rassegnata indifferenza della pazzia.
Quando giunsero a Corinto, la vista dei resti della formidabile muraglia, dove solo le capre osavano inerpicarsi in cerca di qualche arida gramigna, suscitò nei Cavalieri di Rodi un senso di profondo sconforto.
- Questo è ciò che resta della gloria dell’Impero Romano d’Oriente, Filippo. Uno dei più maestosi baluardi della cristianità, l’Hexamilion, è preda di sterpaglie e dimora delle capre!
Ah quanto vana fu la sua gloria se ora anche il fratello dell’Imperatore deve pagar dazio al Sultano.
Una porta lasciata divelta!
Ecco cosa sono ora i bastioni di Corinto.
Disse Angelo, memore della perduta magnificenza.
Al porto li attendevano diverse cocche e navi destriere per trasportarli sull’altra sponda del Golfo.
Le galee di Tommaso Paleologo, il despota di Morea, li scortarono lungo le coste dell’Attica finchè, calata la sera, giunsero ad un promontorio nei pressi di Itea, lì sbarcarono in una rada riparata.
Ad ovest, il pattugliamento dei legni della mezza luna si era fatto oltremodo intenso.
Allestirono l’accampamento ai piedi di un basso colle e furono disposte sentinelle su tutto il perimetro.
La nottata trascorse tranquilla, tranne che per l’avvistamento di un legno transitato al largo della punta.
Abbandonati i bivacchi alle prime luci di un’alba nuvolosa, i giovanniti seguirono un sentiero che s’inerpicava lungo le pendici del Parnaso.
Gli effluvi dei rosmarini si mescolava all’inebriante aroma dell’origano.
Giunsero poi in vista di un villaggio indicato sulla mappa come Chrissos, poco distante dalla costa di Itea.
Dalle creste circostanti era possibile tenere sott’occhio tutta la valle che segnava il confine trai territori ottomani e quelli del Ducato di Atene.
Volgendo lo sguardo a settentrione già potevano scorgersi i minareti di Salona, rara perla incastonata tra le vette del Parnaso, ora appartenente ai domini del Sultano.
Poco più a sud la carta bizantina indicava la posizione del ribat di Haseeb, lungo il confine tra il Dar al Islam e i territori che i turchi consideravano ancora non del tutto assoggettati.
Angelo arrestò per un attimo la marcia.
Abbeverarono i cavalli ad uno dei numerosi ruscelli che bagnavano quei boschi lussureggianti.
- Dovremmo proseguire poche leghe verso occidente prima di giungere in vista del ribat, seguimi!
Disse Angelo a Filippo.
Cavalcarono verso uno sperone da cui potevano scorgere tutta la vallata.
- Ecco è lì... vedi? Quella fortificazione ad ovest. Oltre quel minareto c’è...
-... il suo palazzo!
Lo precedette Filippo che strinse le redini al punto da farne stridere il cuoio.
Il cuore iniziò a palpitare tanto da sentirlo quasi in gola. L’immagine di Elena balenò così chiara.
Il ribat parve dissolversi, il vento si placò e i nembi scomparvero.
La sua mente vagò come se non appartenesse più a quel tempo ne a quel luogo.
Ben presto, però, fu riportato alla realtà allorchè una nube di polvere catturò l’attenzione di Angelo.
- Cavalieri.
Osservò.
- Si dirigono verso il confine. Una razzia! Presto, raggiungiamo gli altri...
Aggiunse Angelo, voltando rapido la sua cavalcatura.
Filippo lo seguì prontamente.
Raggiunto il villaggio, attesero l’arrivo dei turchi all’ombra di un boschetto di platani.
Gli abitanti, intanto, erano in subbuglio.
Le campane già annunciavano l’imminente attacco.
Asbagh ora cavalcava accanto a Filippo, Giovanni Malaspina li affiancò con aria arrogante.
- Voglio proprio vedere se avrai il coraggio di combattere, saraceno! Quelli sono i tuoi fratelli o sbaglio?
Disse, dopodichè scoppiò a ridere.
Filippo sogghignò rivedendo, nella diffidenza del corsaro, se stesso quando incontrò Asbagh per la prima volta.
- L’uomo giusto osteggia il male, da qualunque parte esso giunga ad interrompere la pace. Tu, cavaliere, sei in grado di fare lo stesso?
Rispose Asbagh con la solita flemma.
A quel punto Giovanni smise di ridere ed il suo volto divenne dello stesso colore della rutilante barba.
Asbagh si rivolse poi a Filippo.
- Cavalcherò con te nella libertà anche se tu sai che libero lo sono sempre stato, Filippo, così come libera da ogni costrizione è l’amicizia che a te mi lega.
Filippo sorrise, era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo per nome.
- Desidero tu sappia che, quando sarà tutto finito, sarei felice se venissi con me ad Agropoli.
Aggiunse l’avventuriero.
- Agropoli? Imshallah, Filippo, Imshallah.
I cavalieri di Haseeb non si fecero attendere.
Piombarono sul villaggio con tutta la loro furia.
Anche Angelo non indugiò e lanciò l’attacco.
I cavalieri coprirono la distanza in un lampo, travolgendo i saraceni intenti a sfondare porte ed uccidere quegli abitanti che ancora non erano riusciti a chiudersi in casa.
La sorpresa si dipinse sui loro volti alla vista delle tuniche crociate tanto che, inizialmente, non riuscirono ad opporsi.
Ben presto, tuttavia, il Rais riuscì ad organizzare le fila e guidò un contrattacco, assalendo il fianco dello squadrone giovannita.
Le lame e le lance dei jenicer balenarono sulle teste dei cavalieri.
I turchi riuscirono respingerli fino alla periferia orientale di Chrissos.
Parte dello squadrone crociato si separò dallo schieramento riguadagnando terreno attraverso vie laterali.
Bloccarono l’avanzata turca tagliando a metà la loro cavalleria.
A quel punto un drappello di cinquanta cavalieri, guidati da Filippo e Giovanni Malaspina, riuscì ad aggirare il villaggio prendendo alle spalle il resto dei predoni.
Iniziò una mischia furibonda.
Si combattè senza seguire uno schema preciso, una zuffa colossale in cui il sangue iniziò a scorrere in rivoli lungo i canali di lato al lastricato a dorso di mulo.
Asbagh e Filippo restarono uniti, difendendosi l’un l’altro dagli assalti dei saraceni.
Molti crociati erano stati disarcionati ma continuavano a combattere come poterono, ostacolando i giannizzeri con pali e lance.
Ad un certo punto Filippo perse di vista Asbagh.
La presenza dei cavalieri, tuttavia, suscitò negli abitanti del villaggio un moto tale che, ben presto, molti si armarono e scesero in strada.
I villici balzavano inferociti sui predoni.
Alcuni di questi furono completamente circondati, disarcionati a forza di braccia e trucidati a furor di popolo.
Ciò consentì ai giovanniti di riorganizzarsi e prendere in mano le sorti dello scontro.
Calò nuovamente la quiete, ma le strade brulicavano di cadaveri e feriti.
Alcuni cavalli vagavano mesti, trascinando i corpi dei loro cavalieri staffati.
- Asbagh! Aasbagh!
Urlava Filippo ma non ebbe risposta.
Sopraggiunse intanto anche Angelo, il cui braccio, nonostante la cotta lo coprisse fino al gomito, era solcato da un taglio profondo.
Il suo sangue si confondeva con quello dei nemici sulla mano che ancora brandiva, trascinandola stancamente al suolo, la spada.
- Filippo, sia lodato il cielo, è fatta!
Disse.
- Hai veduto Asbagh? Dov’è?
Rispose lui, incurante dell’esito dello scontro.
- Tu come stai?
Filippo non rispose, non ne ebbe il tempo.
Riconobbe il volto dolorante del suo amico tra coloro che erano stati abbattuti.
Gli corse in contro gettando via la spada.
Lo sollevò, era ferito gravemente al torace.
- Asbagh! Amico mio...
Il berbero lo riconobbe e sorrise, nonostante sentisse la vita scorrergli via, come sabbia sottile del deserto tra le dita.
- Non piangere, Filippo. Allah (Sia lodato il Suo nome) ricompenserà il bene col bene... ricorda... coloro che credono e che compiono il bene avranno giardini in cui scorrono ruscelli e... in essi rimarranno immortali per sempre. Ricorda, amico, Egli è il misericordioso... ricordami...
Asbagh si spense con la serenità che aveva contraddistinto tutta la sua vita.
Filippo sollevò il corpo del berbero e lo portò all’ombra dei platani e lo seppellì assieme alla sua spada.
Raccolse un grosso sasso e, dopo aver inciso su di esso un unica parola, lo posò sul tumulo.
- Addio Asbagh. Ci rivedremo un tempo, imshallah.
Poi si voltò verso Angelo. Giovanni Malaspina, osservò tutta la scena, si avvicinò alla sepoltura e lesse sulla pietra.
- Amazigh. Che significa?
Si chiese a voce alta.
- Libero.
Rispose secco Filippo.
Malaspina fu il primo, tra i capitani, a tributare al berbero gli onori, prima di raggiungere i cavalli.
- Non arrenderti proprio ora. Non ora.
Disse Angelo, ma egli parve aver perduto quella tenacia da-tagli dal raggiungimento del suo obiettivo.
Tuttavia non era quello il momento, lui non voleva arrender-si, non poteva, non doveva.
- I prigionieri sono oltre quelle mura. Avremo più possibi-lità di prendere il Ribat ora che tutti questi giannizzeri giacciono sotto le nostre spade.
Aggiunse il capitano della S. Giorgio.
Filippo lo guardò e tentennò.
- Si tratta pur sempre di mura alte e spesse. Se il coraggio e la spada possono sconfiggere centinaia di giannizzeri, pressochè nulla possono contro i bastioni.
Disse, sorridendo amaramente nel ricordo delle parole di Giorgio Castriota, il principe d’Albania che un giorno lo aveva accolto trai suoi guerrieri.
- Poco o nulla certo. Non possiamo di sicuro cingerli d’assedio nel loro territorio. Verremmo sbaragliati dalle truppe in arrivo da nord.
Aggiunse Angelo, mentre Filippo parve ora sovrapensiero, continuava ad osservare la bussola donatagli da Asbagh.
Poi il suo sguardo indugiò sul corpo di uno dei saraceni.
Un lampo balenò nella sua mente illuminandola con un idea assurda quanto ardita.
- Poco o nulla a meno che... potremmo varcare quelle mura a cavallo e senza perdere un solo uomo.
Disse, suscitando lo stupore di Angelo.
- Che intendi?
Gli chiese l’ammiraglio.
Filippo si chinò sul cadavere del turco ed iniziò a spogliarlo, indossò poi il turbante, le braghe e raccolse una sciabola.
- Un giorno un grande Principe mi disse che esistono diversi modi per conquistare una fortezza e, talvolta, l’astuzia si rivela assai più efficace della spada.
Quando ci vedranno arrivare, crederanno di aprire le porte ai loro cavalieri!
Disse prima di montare a cavallo.
- Che aspettate? Forza! Indossiamo i loro abiti!
Ordinò Angelo.
In men che non si dica uno squadrone di finti giannizzeri cavalcò deciso verso il Ribat e presto furono a ridosso delle mura barbaresche.
La fortificazione era potenziata con torrioni presenti ogni cinquanta passi.
Oltre la prima cinta si potevano scorgere altre torri.
La grata del portale d’ingresso si sollevò con una lentezza che parve infinita, mentre rivoli di sudore percorrevano le tempie dei cavalieri, inermi al tiro degli arcieri, ma le sentinelle furono ingannate.
Riuscirono così a raggiungere a cavallo la cerchia interna, meno presidiata, ed oltrepassarono la porta che immetteva nell’ampio cortile del Ribat.
Erano giunti fin quasi all’Imaterem quando un gruppo di giannizzeri andò loro in contro.
Uno di questi, intravista la croce sotto la tunica di uno dei cavalieri, fiutò l’inganno.
- Hristiyan!
Urlò ai compagni sugli spalti.
A quel punto i cavalieri estrassero le spade e li uccisero prima che riuscissero ad opporsi, ma l’allarme era stato dato.
Giannizzeri iniziarono a spuntare da ogni anfratto del porticato.
Un picchiere turco riuscì a disarcionare Angelo colpendolo il suo cavallo con la lancia.
L’ammiraglio si rialzò rapido e parò i colpi con la sua spada, tuttavia la stanchezza era tale che fu costretto a brandire l’arma con entrambe le mani.
- Sövalye Hristiyan!
Urlavano i turchi dai bastioni, esortando gli arcieri del perimetro esterno a raggiungere la cerchia più interna di mura.
Filippo, intanto, si accorse delle difficoltà di Angelo e subito accorse balzando sui mori dalla groppa del suo cavallo.
Con una spallata atterrò un giannizzero armato di sciabola poi parò il colpo di un altro.
Il suo affondo, rapido e spietato, non lasciò scampo all’avversario.
Angelo si occupò del turco atterrato dallo spintone di Filippo ma presto vennero assaliti da altri nemici.
Un fendente portato all’altezza del volto andò a vuoto, per la prontezza di Filippo, ma fischiò sopra la sua testa facendo volar via l’elmo col turbante, scoprendo il fazzoletto verde che gli cingeva la fronte.
Il colpo fu portato con tale forza che il turco si sbilanciò e cadde in avanti, divenendo facile vittima del morso della sua lama.
- Presto, Filippo, al palazzo! Svelto! Li teniamo a bada noi!
Urlò Angelo. Filippo si diresse verso l’Imaterem, seguito da un manipolo di cavalieri.
Attraversò dei porticati che formavano una selva di colonne maiolicate, oltre le quali una porta ad arco immetteva in un altro cortile.
L’ingresso era sorvegliato da due imponenti guardie che subito si avventarono su di lui assieme ad altri uomini della milizia del Pascià.
I cavalieri riuscirono a spingerli all’interno del cortile ma uno dei due eunuchi si frappose con decisione tra Filippo e la via verso i porticati interni alla corte.
La larga scimitarra guizzò verso il suo fianco ma egli riuscì a parare il fendente, la cui violenza lo sbalzò di lato.
Ogni stoccata indebolì progressivamente la sua capacità di contrattacco e, ad un certo punto, si ritrovò per terra, esausto e disarmato.
L’eunuco si preparò a vibrare il colpo di grazia ma egli lanciò instintivamente verso il suo volto una manciata di pietrisco colpendolo negli occhi e lasciandolo un attimo in-certo.
L’esitazione gli fu fatale, poiché Filippo scivolò verso la sua spada. In un sol gesto la raccolse e vibrò un fendente che raggiunse il fianco dell’eunuco, aprendo una breccia che fece emettere a quell’uomo un urlo straziante prima di crol-lare.
Proseguì da solo, mentre i cavalieri continuarono a tener testa alla guardia di Haseeb.
Si diresse verso la parte opposta del cortile, incurante delle frecce che saettavano dalle strette feritoie delle torri.
Dall’Imaterem sopraggiunse anche Angelo con il resto dei ca-valieri i quali, sopraffatti gli uomini del Ribat, circonda-rono anche le guardie del palazzo.
Filippo non si avvide di ciò, continuò a correre tra i por-tici in cerca di Elena.
Percorse ogni angolo del cortile fino a scontrarsi con una guardia che sbucò da una scalinata interna.
In preda all’ira l’avventuriero si avventò su di lui e, con l’ultimo residuo di forza, gli puntò la lama alla gola prima che l’uomo potesse estrarre la spada.
- Gli schiavi! Dove sono gli schiavi!
Sibilò a denti stretti.
La guardia tentennò.
- Esir!
Ringhiò Filippo, spingendo con più forza la lama contro il suo collo, a quel punto l’uomo indicò il pianerottolo oltre la rampa di scale.
Sottrattagli la spada, lo tramortì sbattendolo contro il muro, poi si precipitò su per le scale irrompendo nell’atrio degli alloggi riservati agli schiavi.
- Elenaa!
Urlò, scrutando una per una le donne che si ritrovò di fronte.
Le schiave, intimorite dal sangue che imbrattava la sua giubba di cuoio, si raccolsero in un angolo.
Un velo scuro ne copriva il volto scoprendo solo gli occhi.
Le loro urla lo confusero.
- Elenaaa... dove sei, Elena!
Cercava negli occhi di ognuna di quelle donne lo stesso sguardo che aveva fatto di lui un uomo migliore ma non vi fu risposta.
- Sono io, Filippo.
Cadde in ginocchio, vinto dalla morsa che strinse il suo cuore fino alla fine di un viaggio che lo aveva condotto ben oltre i confini della sua immaginazione, una morsa che parve annientare ogni suo residuo spirito combattivo.
Le spade che brandiva si fecero pesanti, tanto da scivolargli via dalle mani tremanti.
- Elena...
Continuava a ripetersi.
Nella sua mente riecheggiarono le parole di Asbagh.
- Ricorda, Filippo, Egli è il Compassionevole, il Misericordioso...
- Asbagh.
Sussurrò in lacrime.
Due mani si posarono sulle sue spalle.
Finalmente si arrese alla volontà di un Dio che aveva trovato l’espiazione più amara per tutti i suoi peccati.
Tuttavia quelle mani lo aiutarono a sollevarsi e, quando si voltò, si specchiò in occhi pietosi e grati, quegli stessi occhi che tormentavano i suoi sonni agitati.
La donna gli sfilò dalla fronte il fazzoletto verde e, quando scoprì il suo volto dal velo nero, il cuore di Filippo fu di nuovo libero.
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Racconto di Vincenzo Cortese partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)
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