Correva l’anno 1334, quando il nobile Teodosio, impegnato un lungo viaggio in Oriente, sposò la sorella di un ricco mercante francese, Ginevra dal volto di cherubino, pallida come la luna ed esile e pudica come una cerbiatta. Ad un’unione forzata seguì tuttavia una convivenza affettuosa e colma di reciproco rispetto, in cui nacquero due eredi sani e vigorosi, i fratellastri del figlio ormai adulto di Teodosio, nato dal suo giovane amore con la sua prima consorte, una battagliera principessa di parto perita, chiamato Ippolito. La giovinezza egli aveva trascorso tra caccia e preghiera, e la sua severa integrità aveva da sempre colmato d’onore il padre, e la seconda madre. Cacciati in iniquo esilio da insidiose invidie dalla patria di Ginevra, Teodosio e i familiari si misero in viaggio alla volta di Venezia, terra natia di Teodosio, da lui abbandonata per ricercarsi in gioventù gloria e famiglia. Così giunsero, in una deviazione, in Friuli, in visita alla nobile famiglia di Prampero, cui erano legati da un vincolo di antica ospitalità e amicizia.
Sorgeva il castello alto e glorioso sul colle avvolto da alberi scuri, ed emanava dalle sue mura, nella luce fiammeggiante del tramonto, sparsa nel cielo limpido, una sicurezza di paterna protezione sul piccolo borgo ai suoi piedi, tra i colli boscosi. Lì Teodosio avrebbe supplicato rifugio e sollievo dal faticoso viaggio, che ancora innumerevoli giorni sarebbe dovuto durare.
Il sole dorato brillava generoso nel cielo terso, scaldando con gli ardenti raggi quella fresca alba d’inverno. Ippolito levò la ghirlanda verso di esso, sorridendo lievemente nel guardarne i bianchi fiori, candidi come la neve, finalmente sbocciargli tra le mani, nella luce vivificante. Ancora si sentiva nell’aria il profumo della neve, che si scioglieva pian piano tra gli alberi che avvolgevano la chiesetta, quando spinse il suo sguardo severo oltre la soglia, superati gli stipiti della porta di scuro legno, fino all’altare, velato da un telo che lo proteggesse dalla polvere. Là, di fronte all’effige della Santa Margherita ornata di giglio e vittoriosa sul drago, avrebbe posato la ghirlanda, dopo i lunghi mesi di restauro della chiesa.
Con lo sguardo perso nella luce divina che irrompeva dall’alto del cielo oscuro, nell’istante stesso in cui la vergine si chinava a incrociare gli occhi purpurei del drago, vinto dalla santa fede, Ippolito sentiva la gioia della sua lontananza dal volgo, da quelle frotte turbolente e sensuali, incatenate dalla forza di “Amore”, così lo chiamavano, dall’impulso al piacere fisico…lui invece non aveva che Amore celeste. Afrodite Urania gli avevano insegnato in gioventù, e lui ne aveva distillato solo il nettare più dolce e buono, solo i pensieri più alti esso stimolasse nella sua mente, solo Dio nel suo cuore. Disprezzava le donne come tordi volubili, gli uomini come cacciatori svagati sempre e solo sulle loro tracce, la Chiesa come meretrice corrotta schiava del potere temporale, china anch’essa verso terra, non per desiderio di “Amore”, ma di sfarzo. “Lo sfarzo delle chiese rincuora il fedele, mostrandogli quanto le preghiere vengano da Lui esaudite!” gli aveva sussurrato più di una volta suo padre pieno di fastidio, e insieme di timore paterno, quando, ancora potente signore, lo portava con sé alle messe, quando lui, ancora piccolo, rideva con precoce crudeltà di fronte alle vesti ricamate dei potenti chierici.
Il gaudio crudele di quella risata, Ippolito col tempo l’aveva cancellato, perché gli provocava uno strano piacere, che, tra le fitte dei sensi di colpa, aveva chiamato “ipocrisia”; ma quell’ aspra ironia, allora incredula di fronte a tanta ricchezza infusa in una semplice veste, per di più appartenente ad un servitore di Cristo, che avrebbe dovuto perseguirne l’insegnamento pauperistico…quell’ amara ironia s’era inasprita ulteriormente, e freddo e distante Ippolito stava da ogni umana forma di associazione, che fosse una festività in paese, un matrimonio dinastico, od una cerimonia.
Rifuggiva ogni luogo d’aggregazione, immerso nella profonda ricerca di verità che lo avvicinassero a Dio più di quanto potesse fare la sola elevazione dell’animo nella contemplazione della Sua sublime creazione.
Rifuggiva ogni rifugio di caotiche folle, eccetto la chiesa. La schietta semplicità, sobria, rinfrescata dalla quieta penombra, filtrata da pochi, occasionali luccichii di candele, discreta anche, di quella piccola chiesetta, quella sua modestia, insieme elegante, e quasi celata al peccato comune, lo commuoveva. Rinfrancato dalla pace di quell’unica navata, acquietato il tormento di quello che a tratti si faceva vero e proprio odio per quell’ umanità dedita all’amore della carne, taciuto lo sdegno di fronte agli amori tra i suoi coetanei, sin dall’arrivo della sua famiglia in quel paese egli si ritirava là, in preghiera.
Teso in ogni sua fibra nello sforzo di esprimere tutto l’Amore spirituale che poteva colmargli il cuore, disperando con tutto se stesso di cogliere di rimando il soffio divino attorno a sé, pregava Ippolito anche quel mattino, inginocchiato sul nudo pavimento.
Così lo vide Ginevra, con lo sguardo usualmente gelido e severo ora addolcito, con quel tanto sbandierato “Amore celeste” dispiegatoglisi sul volto, con le mani, dalle lunghe dite affusolate mai sfiorate dalla stretta di alcuno, fuorché quella paterna, giunte in preghiera, in una bellezza altera ora scomposta in un accenno di serena, così lui l’avrebbe detta, “debolezza”, e sentì il suo cuore lacerarsi in due lembi, all’improvviso, imprevedibilmente.
Nel tentativo di muoversi, picchiò in un tocco leggero il piede sul pavimento di cotto, ed Ippolito, sussultato, si voltò verso di lei, con gli occhi nuovamente seri e, lei li sentì, spietati, infastidito. Ginevra arrossì di mortificazione, e percepì ancora la vertigine che l’aveva colta mentre alzava lo sguardo dai ciottoli del sagrato agli abiti scuri di Ippolito.
-Perdonatemi, vostro padre mi ha inviata presso di voi per un colloquio che ci permetta una reciproca conoscenza “ben più approfondita”- precisò, ripetendo le parole di Teodosio, -“di quella permessa da una semplice presentazione ufficiale”…- sussurrò infine, sempre più afflitta dall’umiliazione e dall’infiammata ferita scavatasi nel suo petto: -Ed io avrei davvero un enorme piacere se potessi conoscere il mio giovane…
-Figliastro- concluse brusco Ippolito, alzatosi in piedi con le bianche guance rosse d’imbarazzo: -Signora, non vi siete fatta accompagnare da qualche dama della famiglia che generosamente ci ospita, per meglio conoscere anche lei? E il vostro capo, ditemi, come mai non è velato, come invece è da sempre uso tra le fedeli? Per rispetto di quest…- balbettava impertinente nei confronti della sua matrigna, soffocato dall’impertinenza di quella femmina che era lì irrotta senza grazia per imporgli la sua presenza.
Ginevra tremò, ormai accecata dal bruciore della piaga che nutriva in seno, contemplando stupefatta i meravigliosi occhi lucidi d’odio del giovane figlio del suo sposo, dell’azzurro vicino al grigio delle acque di un oceano che lei ormai non vedeva da tempo…Sentì chiara e distinta la passione colpevole ed adultera sporcare le sue candide vesti nuziali, e fuggita in cerca di riparo nel castello dei suoi ospiti pianse per l’orrore di dover giacere ancora nel letto matrimoniale, con l’animo caldo di un tormento che fin dal primo sintomo aveva in lei corrotto ogni tenero affetto prima nutrito per il suo nobile marito.
-Amore corrotto e incestuoso appesta il mio cuore di novella moglie: posso ben dire che fuggire dalle nozze mi avrebbe salvato l’anima, ma ora è troppo tardi…vedo quel volto stravolto da veneranda passione religiosa senza pari, e tremo al terrore che essa si traduca in vita monastica di solitario rigore…invece di esserne fiera in quanto madre!Aver di fronte tanta devozione m’infonde invidia e gelosia malata per il Creatore di tanta bellezza!Non Lo amo per avermi donato in una vita così colma di gioia un figlio –figliastro, sì…- così nobile, da spronare ed educare alla vita più retta! No, io Ne sono gelosa, poiché Egli è l’unico destinatario di tale nobiltà!- piangeva senza pentirsi Ginevra, nascosta nella torre, sgranando in preda alla febbre il rosario di corallo donatole al battesimo. Da lì scorgeva il paese sottostante, immerso nella familiare serenità di un anno di buon raccolto e molti nati, e sospirava senza riuscire a distogliere lo sguardo ferito dalla chiesetta, sognando di essere lì congiunta in matrimonio a suo figlio. L’empietà di tal desiderio la nauseò e scosse, e singhiozzando Ginevra si scusò, senza cercare di placare la sua passione. Quando la porta cigolante si spalancò di colpo, e la sua anziana ancella entrò, all’ansiosa ricerca della gentile padrona, la vide scossa da quel pianto colpevole, e strettala a sé come in passato, quando l’abbracciava per rincuorarla di fronte alle paure dell’infanzia, nel tentativo di calmarla apprese tutta la verità, e materna le garantì il suo aiuto.
Tornata in sé, Ginevra pianse ancor, sommessamente, per aver esternato una colpa che aveva sperato di poter seppellire dentro di sé con menzogna e falsità. Ma la vecchia era ormai scomparsa.
-Il suo animo è tormentato, e non posso sopportare la sua sofferenza. Vi prego di non dire nulla a nessuno, di ciò che vi dirò, mio…
-Non so di chi parli, donna, né credo che bene mi porterebbe saperlo. Di chi sei messaggera, ancella?- la interruppe frettoloso Ippolito, con parole taglienti e acide. Il suo viso era stravolto ancora da una luce inquieta, teso come nella premonizione di una rivelazione orrenda.
-Oh no, signore, vengo in segreto e vi prego di mantenere anche voi il segreto…
-Concludi, forza- intervenne ancora, sempre più gelido e ansioso, Ippolito.
-Si tratta della mia padrona, mio signore, ella è innamorata di voi. Vi prego di…- inutilmente l’ancella riversava vuote parole di supplica, per rendere il giovane bendisposto verso la sua amata Ginevra, ma lui non sentiva più nulla.
Ippolito sentiva le strette viscide spire di quell’ amore avvolgere con soffocante pesantezza il suo corpo, stritolandolo nel suo abbraccio morboso. Incesto, adulterio, abuso…egli sentì nausea ed orrore salirgli in gola, e soffocato rimase in silenzio di fronte agli occhi dell’esitante nutrice.
-Che rivolga le sue libidinose voglie a chi vuole soddisfarle. Non osi mai più avvicinarsi a me, sporca traditrice in nobili nozze. Come osa abbandonare il marito per scegliere da sé i suoi compagni di letto? Come può imporre il suo desiderio precipitando nella vergogna chi a scelto la purezza e l’unico Amore che non porta colpa? La tua padrona è egoista e lussuriosa, come lo è ogni donna, e tuttavia riesce ad abbassarsi ancora, oltraggiando il marito che aveva…oh, giurato di “amare”, per sempre, cercando di realizzare il contenuto di un patto stretto davanti a Dio, non semplicemente con un qualunque altro uomo, ma addirittura col figlio cui diceva di essersi legata per sempre! Disonore di un sesso spregevole, instabile fogliolina secca, spazzata qua e là dal vento! Io spero solo che la tua padrona…si getti ai piedi di mio padre implorando da lui la morte- mormorò tra le labbra esangui, appoggiandosi al tronco contro cui aveva posato arco e frecce. L’ancella l’aveva impedito nella caccia, seguendolo tra gli alberi mentre cercava di scendere verso il torrente che circondava le cinte murarie del castello.
L’ancella abbassò umiliata gli occhi sul petto ansante del giovane e con la gola chiusa dal pianto si allontanò, il capo chino sull’erbetta del sentiero. Sentì tra le fronde la presenza di un’ombra, subito dissoltasi per sfuggire al so sguardo, e pianse la passione dell’amata padrona. Ginevra aveva sentito ogni cosa.
La corda cigolava, tesa nell’aria immobile e calma, ondeggiando ancora lentamente nella luce calda e malinconica di un tramonto di fuoco che ricordava le dolci sere d’estate. Come il silicio bianco bruciava e feriva le carni dei monaci in penitenza, così il laccio scorreva per il lieve moto del corpo, che privo di vita penzolava appeso al ramo. Fuggita lontano, verso quell’ Oriente da cui era venuta, Ginevra si era data la morte in un bosco deserto, violentata dal figliastro crudele e folle.
Questo aveva scritto nella lettera cadutale di mano mentre la vita l’abbandonava, e così leggeva Teodosio. Il bel collo bianco che la moglie aveva dalle nozze ornato di ori e gemme era ora arrossato ed arso dalla corda, e il suo bel corpo giovane e fresco pendeva ora verso il terreno, tendendo col suo corpo il suo laccio di morte.
Teodosio guardava quel corpo violato, tempio di un’anima gentile offesa dai bassi appetiti di un carnefice che lui stesso aveva generato…sentiva l’angoscia della sua colpa, l’orrore di aver cresciuto un figlio destinato a perdere all’improvviso il suo alto onore macchiandosi di violenza, e insieme la meraviglia per la sua sorte futura. Era una prova provvidenziale per testare il suo onore? Aveva il dovere di padre, di re e di ospite di fugare il miasma di quel duplice mortal peccato. Doveva dare la morte a chi aveva dato dolore, umiliare chi aveva insultato. Era stato un incesto che gettava sulla famiglia l’ombra del disonore per la perversione. Che suo figlio scegliesse di godere di una donna era insolito, naturale e legittimo; che la violentasse, assurdo, brutale, purtroppo concesso da una tacita, vigliacca consuetudine contro cui nessuno aveva mai obiettato; che scegliesse e violentandola godesse della sposa del padre, abusando della matrigna e disprezzando l’autorità parentale, era impensato, crimine e scempio ad una nobile famiglia. Teodosio pianse, fermamente consapevole della pena esemplare che avrebbe dovuto infliggere al figlio.
Non poteva tuttavia lui stesso macchiarsi del sangue fresco del giovane che aveva generato, cresciuto ed amato perché Dio gliel’aveva vent’ anni prima donato, e lui, in quanto creatura di Dio a lui più vicina, aveva più di se stesso curato, con affetto profondo e orgoglio sorridente di padre, stupefatto di fronte a tanta virtù. Ora doveva però ucciderlo, per sopprimere la colpa che avrebbe reso ridicola e vana l’autorità sua e dei suoi ospiti. Colpa certa e fondata, Teodosio non dubitava, perché mai in vita quella donna degnissima aveva dato motivo di dubbio.
Quel drago, che minaccioso la guardava, accucciato ai suoi piedi come un cane ormai mansueto, come la santa aveva vinto, dissolvendo nella luce divina quella feroce insidia, così quell’ indegna matrigna avrebbe dovuto acquietare, recidendo di netto il capo della mostruosa belva che sentiva come nutrirsi dentro di lei. Così pensava Ippolito, nascosto tra i fedeli all’ultima messa, con la mente tesa alle parole dell’omelia, e gli occhi fissi sulla pala d’altare. “Oh, è così bello” nessuna mai prima aveva osato pensare, scacciando nel cuore ogni tentazione allo stesso modo in cui lui, le fanciulle del paese lo sapevano fin dal suo arrivo, aveva per sempre scacciato ogni Amore. Egli era bello oltre ogni illusa negazione, ma ogni devozione aveva con devota gratitudine rivolto a Dio, escludendo ogni altro.
Finita la messa, sarebbe partito in un viaggio notturno verso Aquileia, inviato dal padre, forse per recare omaggio al patriarca, Bertrando di Saint Geniès. Scese dal pendio della chiesetta e salutò con un cenno silenzioso il padre, sollevato nello scoprire che era senza moglie al seguito, quella sera. Lui era rimasto immobile e cupo, assorto anch’egli nella predica, e non una volta s’era voltato a guardarlo. Credendolo malinconico per la sua partenza, Ippolito non intese prolungargli quella tristezza oltre, e percorso il sentiero che dal colle portava al paese montò a cavallo, sul destriero che un garzone aveva lì condotto su suo precedente ordine, e partì. Un lungo viaggio lo attendeva, ma Ippolito era più felice su quel cavallo, scuro come l’ebano, in una via ormai buia, solo nelle strade deserte, che in una corte festosa sotto gli occhi di una matrigna viziosa.
All’alba, le frecce acuminate degli arcieri del signore suo padre trafissero il suo petto freddo, e solo il suo cuore si salvò da quegli artigli feroci. Cadde a terra come un puledro stanco, e rimase sul terreno fangoso e nero, sotto gli occhi tristi dei suoi cacciatori, fino all’arrivo del loro mandante.
Suo padre abbassò gli occhi umidi sul corpo sanguinante di Ippolito, senza abbassarsi a toccarlo.
-Perché?- chiese il giovane, e dalla sua bocca uscirono parole e sangue. Il profumo ferroso della lenta morte del figlio ferì Teodosio, che con la voce rotta infine dal pianto, allontanati i suoi con un cenno, rispose:-Perché voi, un tempo nobile e retto giovane, avete voluto disonorare a tal punto e in tal modo la nostra stirpe? Avete costretto vostra madre- -…matrigna…-gemette Ippolito –ad uccidersi, e vostro padre ad uccidervi. Il sangue è colato a bagnare le radici della nostra famiglia, d’ora in poi per sempre indicata come perversa e violenta contro sé e il prossimo…Ippolito, tra tutte le donne che…potevi…scegliere come moglie, perché proprio la moglie di tuo padre?
Ippolito, vincolato dal tacito patto di silenzio impostogli da quella vecchia ambasciatrice (o mezzana, pensò tra le fitte ai muscoli che il veleno delle frecce gli procurava) in silenzio rimase, e, sdegnato e chiuso nei suoi pensieri come era stato in vita, morì.
Tornato Teodosio al castello, con il volto pallido e le mani macchiate di un sangue che solo il perdono divino poteva lavare, vide la vecchia nutrice vegliare il corpo senza vita della padrona suicida, adagiato nella bara, e piangere alla vista del suo signore omicida. –Ippolito è innocente- sussurrò, sapendo bene che lui era già stato ucciso. –voi, mio signore, siete stato l’unico che Ginevra abbia mai conosciuto- disse a malincuore, perché odiava Ippolito poiché non aveva amato Ginevra, ma doveva odiare anche Ginevra perché aveva finto che invece fosse stato così –lo giuro sulla fede che porto alla vostra famiglia sin dall’infanzia.
Teodosio seppe che non mentiva, e lasciò cadere a terra la croce dorata che aveva tolto al figlio, macchiata di sangue avvelenato, bagnata dalle lacrime piene di quella che aveva creduto debole viltà, ma che ora scopriva essere empia colpa crudele contro il suo primogenito.
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Racconto di Costanza De Cillia partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)
Sorgeva il castello alto e glorioso sul colle avvolto da alberi scuri, ed emanava dalle sue mura, nella luce fiammeggiante del tramonto, sparsa nel cielo limpido, una sicurezza di paterna protezione sul piccolo borgo ai suoi piedi, tra i colli boscosi. Lì Teodosio avrebbe supplicato rifugio e sollievo dal faticoso viaggio, che ancora innumerevoli giorni sarebbe dovuto durare.
Il sole dorato brillava generoso nel cielo terso, scaldando con gli ardenti raggi quella fresca alba d’inverno. Ippolito levò la ghirlanda verso di esso, sorridendo lievemente nel guardarne i bianchi fiori, candidi come la neve, finalmente sbocciargli tra le mani, nella luce vivificante. Ancora si sentiva nell’aria il profumo della neve, che si scioglieva pian piano tra gli alberi che avvolgevano la chiesetta, quando spinse il suo sguardo severo oltre la soglia, superati gli stipiti della porta di scuro legno, fino all’altare, velato da un telo che lo proteggesse dalla polvere. Là, di fronte all’effige della Santa Margherita ornata di giglio e vittoriosa sul drago, avrebbe posato la ghirlanda, dopo i lunghi mesi di restauro della chiesa.
Con lo sguardo perso nella luce divina che irrompeva dall’alto del cielo oscuro, nell’istante stesso in cui la vergine si chinava a incrociare gli occhi purpurei del drago, vinto dalla santa fede, Ippolito sentiva la gioia della sua lontananza dal volgo, da quelle frotte turbolente e sensuali, incatenate dalla forza di “Amore”, così lo chiamavano, dall’impulso al piacere fisico…lui invece non aveva che Amore celeste. Afrodite Urania gli avevano insegnato in gioventù, e lui ne aveva distillato solo il nettare più dolce e buono, solo i pensieri più alti esso stimolasse nella sua mente, solo Dio nel suo cuore. Disprezzava le donne come tordi volubili, gli uomini come cacciatori svagati sempre e solo sulle loro tracce, la Chiesa come meretrice corrotta schiava del potere temporale, china anch’essa verso terra, non per desiderio di “Amore”, ma di sfarzo. “Lo sfarzo delle chiese rincuora il fedele, mostrandogli quanto le preghiere vengano da Lui esaudite!” gli aveva sussurrato più di una volta suo padre pieno di fastidio, e insieme di timore paterno, quando, ancora potente signore, lo portava con sé alle messe, quando lui, ancora piccolo, rideva con precoce crudeltà di fronte alle vesti ricamate dei potenti chierici.
Il gaudio crudele di quella risata, Ippolito col tempo l’aveva cancellato, perché gli provocava uno strano piacere, che, tra le fitte dei sensi di colpa, aveva chiamato “ipocrisia”; ma quell’ aspra ironia, allora incredula di fronte a tanta ricchezza infusa in una semplice veste, per di più appartenente ad un servitore di Cristo, che avrebbe dovuto perseguirne l’insegnamento pauperistico…quell’ amara ironia s’era inasprita ulteriormente, e freddo e distante Ippolito stava da ogni umana forma di associazione, che fosse una festività in paese, un matrimonio dinastico, od una cerimonia.
Rifuggiva ogni luogo d’aggregazione, immerso nella profonda ricerca di verità che lo avvicinassero a Dio più di quanto potesse fare la sola elevazione dell’animo nella contemplazione della Sua sublime creazione.
Rifuggiva ogni rifugio di caotiche folle, eccetto la chiesa. La schietta semplicità, sobria, rinfrescata dalla quieta penombra, filtrata da pochi, occasionali luccichii di candele, discreta anche, di quella piccola chiesetta, quella sua modestia, insieme elegante, e quasi celata al peccato comune, lo commuoveva. Rinfrancato dalla pace di quell’unica navata, acquietato il tormento di quello che a tratti si faceva vero e proprio odio per quell’ umanità dedita all’amore della carne, taciuto lo sdegno di fronte agli amori tra i suoi coetanei, sin dall’arrivo della sua famiglia in quel paese egli si ritirava là, in preghiera.
Teso in ogni sua fibra nello sforzo di esprimere tutto l’Amore spirituale che poteva colmargli il cuore, disperando con tutto se stesso di cogliere di rimando il soffio divino attorno a sé, pregava Ippolito anche quel mattino, inginocchiato sul nudo pavimento.
Così lo vide Ginevra, con lo sguardo usualmente gelido e severo ora addolcito, con quel tanto sbandierato “Amore celeste” dispiegatoglisi sul volto, con le mani, dalle lunghe dite affusolate mai sfiorate dalla stretta di alcuno, fuorché quella paterna, giunte in preghiera, in una bellezza altera ora scomposta in un accenno di serena, così lui l’avrebbe detta, “debolezza”, e sentì il suo cuore lacerarsi in due lembi, all’improvviso, imprevedibilmente.
Nel tentativo di muoversi, picchiò in un tocco leggero il piede sul pavimento di cotto, ed Ippolito, sussultato, si voltò verso di lei, con gli occhi nuovamente seri e, lei li sentì, spietati, infastidito. Ginevra arrossì di mortificazione, e percepì ancora la vertigine che l’aveva colta mentre alzava lo sguardo dai ciottoli del sagrato agli abiti scuri di Ippolito.
-Perdonatemi, vostro padre mi ha inviata presso di voi per un colloquio che ci permetta una reciproca conoscenza “ben più approfondita”- precisò, ripetendo le parole di Teodosio, -“di quella permessa da una semplice presentazione ufficiale”…- sussurrò infine, sempre più afflitta dall’umiliazione e dall’infiammata ferita scavatasi nel suo petto: -Ed io avrei davvero un enorme piacere se potessi conoscere il mio giovane…
-Figliastro- concluse brusco Ippolito, alzatosi in piedi con le bianche guance rosse d’imbarazzo: -Signora, non vi siete fatta accompagnare da qualche dama della famiglia che generosamente ci ospita, per meglio conoscere anche lei? E il vostro capo, ditemi, come mai non è velato, come invece è da sempre uso tra le fedeli? Per rispetto di quest…- balbettava impertinente nei confronti della sua matrigna, soffocato dall’impertinenza di quella femmina che era lì irrotta senza grazia per imporgli la sua presenza.
Ginevra tremò, ormai accecata dal bruciore della piaga che nutriva in seno, contemplando stupefatta i meravigliosi occhi lucidi d’odio del giovane figlio del suo sposo, dell’azzurro vicino al grigio delle acque di un oceano che lei ormai non vedeva da tempo…Sentì chiara e distinta la passione colpevole ed adultera sporcare le sue candide vesti nuziali, e fuggita in cerca di riparo nel castello dei suoi ospiti pianse per l’orrore di dover giacere ancora nel letto matrimoniale, con l’animo caldo di un tormento che fin dal primo sintomo aveva in lei corrotto ogni tenero affetto prima nutrito per il suo nobile marito.
-Amore corrotto e incestuoso appesta il mio cuore di novella moglie: posso ben dire che fuggire dalle nozze mi avrebbe salvato l’anima, ma ora è troppo tardi…vedo quel volto stravolto da veneranda passione religiosa senza pari, e tremo al terrore che essa si traduca in vita monastica di solitario rigore…invece di esserne fiera in quanto madre!Aver di fronte tanta devozione m’infonde invidia e gelosia malata per il Creatore di tanta bellezza!Non Lo amo per avermi donato in una vita così colma di gioia un figlio –figliastro, sì…- così nobile, da spronare ed educare alla vita più retta! No, io Ne sono gelosa, poiché Egli è l’unico destinatario di tale nobiltà!- piangeva senza pentirsi Ginevra, nascosta nella torre, sgranando in preda alla febbre il rosario di corallo donatole al battesimo. Da lì scorgeva il paese sottostante, immerso nella familiare serenità di un anno di buon raccolto e molti nati, e sospirava senza riuscire a distogliere lo sguardo ferito dalla chiesetta, sognando di essere lì congiunta in matrimonio a suo figlio. L’empietà di tal desiderio la nauseò e scosse, e singhiozzando Ginevra si scusò, senza cercare di placare la sua passione. Quando la porta cigolante si spalancò di colpo, e la sua anziana ancella entrò, all’ansiosa ricerca della gentile padrona, la vide scossa da quel pianto colpevole, e strettala a sé come in passato, quando l’abbracciava per rincuorarla di fronte alle paure dell’infanzia, nel tentativo di calmarla apprese tutta la verità, e materna le garantì il suo aiuto.
Tornata in sé, Ginevra pianse ancor, sommessamente, per aver esternato una colpa che aveva sperato di poter seppellire dentro di sé con menzogna e falsità. Ma la vecchia era ormai scomparsa.
-Il suo animo è tormentato, e non posso sopportare la sua sofferenza. Vi prego di non dire nulla a nessuno, di ciò che vi dirò, mio…
-Non so di chi parli, donna, né credo che bene mi porterebbe saperlo. Di chi sei messaggera, ancella?- la interruppe frettoloso Ippolito, con parole taglienti e acide. Il suo viso era stravolto ancora da una luce inquieta, teso come nella premonizione di una rivelazione orrenda.
-Oh no, signore, vengo in segreto e vi prego di mantenere anche voi il segreto…
-Concludi, forza- intervenne ancora, sempre più gelido e ansioso, Ippolito.
-Si tratta della mia padrona, mio signore, ella è innamorata di voi. Vi prego di…- inutilmente l’ancella riversava vuote parole di supplica, per rendere il giovane bendisposto verso la sua amata Ginevra, ma lui non sentiva più nulla.
Ippolito sentiva le strette viscide spire di quell’ amore avvolgere con soffocante pesantezza il suo corpo, stritolandolo nel suo abbraccio morboso. Incesto, adulterio, abuso…egli sentì nausea ed orrore salirgli in gola, e soffocato rimase in silenzio di fronte agli occhi dell’esitante nutrice.
-Che rivolga le sue libidinose voglie a chi vuole soddisfarle. Non osi mai più avvicinarsi a me, sporca traditrice in nobili nozze. Come osa abbandonare il marito per scegliere da sé i suoi compagni di letto? Come può imporre il suo desiderio precipitando nella vergogna chi a scelto la purezza e l’unico Amore che non porta colpa? La tua padrona è egoista e lussuriosa, come lo è ogni donna, e tuttavia riesce ad abbassarsi ancora, oltraggiando il marito che aveva…oh, giurato di “amare”, per sempre, cercando di realizzare il contenuto di un patto stretto davanti a Dio, non semplicemente con un qualunque altro uomo, ma addirittura col figlio cui diceva di essersi legata per sempre! Disonore di un sesso spregevole, instabile fogliolina secca, spazzata qua e là dal vento! Io spero solo che la tua padrona…si getti ai piedi di mio padre implorando da lui la morte- mormorò tra le labbra esangui, appoggiandosi al tronco contro cui aveva posato arco e frecce. L’ancella l’aveva impedito nella caccia, seguendolo tra gli alberi mentre cercava di scendere verso il torrente che circondava le cinte murarie del castello.
L’ancella abbassò umiliata gli occhi sul petto ansante del giovane e con la gola chiusa dal pianto si allontanò, il capo chino sull’erbetta del sentiero. Sentì tra le fronde la presenza di un’ombra, subito dissoltasi per sfuggire al so sguardo, e pianse la passione dell’amata padrona. Ginevra aveva sentito ogni cosa.
La corda cigolava, tesa nell’aria immobile e calma, ondeggiando ancora lentamente nella luce calda e malinconica di un tramonto di fuoco che ricordava le dolci sere d’estate. Come il silicio bianco bruciava e feriva le carni dei monaci in penitenza, così il laccio scorreva per il lieve moto del corpo, che privo di vita penzolava appeso al ramo. Fuggita lontano, verso quell’ Oriente da cui era venuta, Ginevra si era data la morte in un bosco deserto, violentata dal figliastro crudele e folle.
Questo aveva scritto nella lettera cadutale di mano mentre la vita l’abbandonava, e così leggeva Teodosio. Il bel collo bianco che la moglie aveva dalle nozze ornato di ori e gemme era ora arrossato ed arso dalla corda, e il suo bel corpo giovane e fresco pendeva ora verso il terreno, tendendo col suo corpo il suo laccio di morte.
Teodosio guardava quel corpo violato, tempio di un’anima gentile offesa dai bassi appetiti di un carnefice che lui stesso aveva generato…sentiva l’angoscia della sua colpa, l’orrore di aver cresciuto un figlio destinato a perdere all’improvviso il suo alto onore macchiandosi di violenza, e insieme la meraviglia per la sua sorte futura. Era una prova provvidenziale per testare il suo onore? Aveva il dovere di padre, di re e di ospite di fugare il miasma di quel duplice mortal peccato. Doveva dare la morte a chi aveva dato dolore, umiliare chi aveva insultato. Era stato un incesto che gettava sulla famiglia l’ombra del disonore per la perversione. Che suo figlio scegliesse di godere di una donna era insolito, naturale e legittimo; che la violentasse, assurdo, brutale, purtroppo concesso da una tacita, vigliacca consuetudine contro cui nessuno aveva mai obiettato; che scegliesse e violentandola godesse della sposa del padre, abusando della matrigna e disprezzando l’autorità parentale, era impensato, crimine e scempio ad una nobile famiglia. Teodosio pianse, fermamente consapevole della pena esemplare che avrebbe dovuto infliggere al figlio.
Non poteva tuttavia lui stesso macchiarsi del sangue fresco del giovane che aveva generato, cresciuto ed amato perché Dio gliel’aveva vent’ anni prima donato, e lui, in quanto creatura di Dio a lui più vicina, aveva più di se stesso curato, con affetto profondo e orgoglio sorridente di padre, stupefatto di fronte a tanta virtù. Ora doveva però ucciderlo, per sopprimere la colpa che avrebbe reso ridicola e vana l’autorità sua e dei suoi ospiti. Colpa certa e fondata, Teodosio non dubitava, perché mai in vita quella donna degnissima aveva dato motivo di dubbio.
Quel drago, che minaccioso la guardava, accucciato ai suoi piedi come un cane ormai mansueto, come la santa aveva vinto, dissolvendo nella luce divina quella feroce insidia, così quell’ indegna matrigna avrebbe dovuto acquietare, recidendo di netto il capo della mostruosa belva che sentiva come nutrirsi dentro di lei. Così pensava Ippolito, nascosto tra i fedeli all’ultima messa, con la mente tesa alle parole dell’omelia, e gli occhi fissi sulla pala d’altare. “Oh, è così bello” nessuna mai prima aveva osato pensare, scacciando nel cuore ogni tentazione allo stesso modo in cui lui, le fanciulle del paese lo sapevano fin dal suo arrivo, aveva per sempre scacciato ogni Amore. Egli era bello oltre ogni illusa negazione, ma ogni devozione aveva con devota gratitudine rivolto a Dio, escludendo ogni altro.
Finita la messa, sarebbe partito in un viaggio notturno verso Aquileia, inviato dal padre, forse per recare omaggio al patriarca, Bertrando di Saint Geniès. Scese dal pendio della chiesetta e salutò con un cenno silenzioso il padre, sollevato nello scoprire che era senza moglie al seguito, quella sera. Lui era rimasto immobile e cupo, assorto anch’egli nella predica, e non una volta s’era voltato a guardarlo. Credendolo malinconico per la sua partenza, Ippolito non intese prolungargli quella tristezza oltre, e percorso il sentiero che dal colle portava al paese montò a cavallo, sul destriero che un garzone aveva lì condotto su suo precedente ordine, e partì. Un lungo viaggio lo attendeva, ma Ippolito era più felice su quel cavallo, scuro come l’ebano, in una via ormai buia, solo nelle strade deserte, che in una corte festosa sotto gli occhi di una matrigna viziosa.
All’alba, le frecce acuminate degli arcieri del signore suo padre trafissero il suo petto freddo, e solo il suo cuore si salvò da quegli artigli feroci. Cadde a terra come un puledro stanco, e rimase sul terreno fangoso e nero, sotto gli occhi tristi dei suoi cacciatori, fino all’arrivo del loro mandante.
Suo padre abbassò gli occhi umidi sul corpo sanguinante di Ippolito, senza abbassarsi a toccarlo.
-Perché?- chiese il giovane, e dalla sua bocca uscirono parole e sangue. Il profumo ferroso della lenta morte del figlio ferì Teodosio, che con la voce rotta infine dal pianto, allontanati i suoi con un cenno, rispose:-Perché voi, un tempo nobile e retto giovane, avete voluto disonorare a tal punto e in tal modo la nostra stirpe? Avete costretto vostra madre- -…matrigna…-gemette Ippolito –ad uccidersi, e vostro padre ad uccidervi. Il sangue è colato a bagnare le radici della nostra famiglia, d’ora in poi per sempre indicata come perversa e violenta contro sé e il prossimo…Ippolito, tra tutte le donne che…potevi…scegliere come moglie, perché proprio la moglie di tuo padre?
Ippolito, vincolato dal tacito patto di silenzio impostogli da quella vecchia ambasciatrice (o mezzana, pensò tra le fitte ai muscoli che il veleno delle frecce gli procurava) in silenzio rimase, e, sdegnato e chiuso nei suoi pensieri come era stato in vita, morì.
Tornato Teodosio al castello, con il volto pallido e le mani macchiate di un sangue che solo il perdono divino poteva lavare, vide la vecchia nutrice vegliare il corpo senza vita della padrona suicida, adagiato nella bara, e piangere alla vista del suo signore omicida. –Ippolito è innocente- sussurrò, sapendo bene che lui era già stato ucciso. –voi, mio signore, siete stato l’unico che Ginevra abbia mai conosciuto- disse a malincuore, perché odiava Ippolito poiché non aveva amato Ginevra, ma doveva odiare anche Ginevra perché aveva finto che invece fosse stato così –lo giuro sulla fede che porto alla vostra famiglia sin dall’infanzia.
Teodosio seppe che non mentiva, e lasciò cadere a terra la croce dorata che aveva tolto al figlio, macchiata di sangue avvelenato, bagnata dalle lacrime piene di quella che aveva creduto debole viltà, ma che ora scopriva essere empia colpa crudele contro il suo primogenito.
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Racconto di Costanza De Cillia partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)
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