Abbazia di Vezzolano |
Sella di Vezzolano, un tramonto
d’inizio inverno, A.D.1110.
La vista necessitò di qualche
attimo per abituarsi a sopportare il contrasto tra il rossore accecante
dell’ultimo sole e il buio alle loro spalle. Stagliandosi sul valico, tre
uomini a cavallo contemplavano il congedo del giorno. Nel freddo pungente, il
vapore dalle narici e il movimento pigro delle code degli animali erano l’unica
animazione di quel palco sospeso nel cielo.
Per la prima volta dopo molto
tempo le Alpi si svelavano loro circondandoli. Le mani impugnavano giunte
l’elsa delle spade mentre respiravano l’odore di sottobosco, neve e legno. La
croce rossa sulla veste bianca copriva le loro cotte in maglia di ferro
accomunandone i destini.
Il profumo di un camino nelle
vicinanze anticipava che dopo una giornata intera di cavalcata avrebbero
trovato un rifugio coperto.
La via dalla Terra Santa era
stata lunga. Non avevano mai abbassato la guardia. Fino a quel punto non
avevano fatto soste se non per i brevi riposi notturni.
Scesero a piedi la breve
mulattiera tra il passo e l’abbazia tenendo le redini. Bussarono sul portone a
destra della chiesa. Il doppio colpo del guanto sul legno ruppe il silenzio
della vallata con due suoni secchi.
La pesante anta cigolò sui cardini
fino a lasciare un passaggio. I due cavalieri più giovani seguirono il frate
puntando alle stalle per ricoverare i cavalli.
Il terzo attraversò lo spiazzo in
direzione dell’edificio a due piani. Aveva un’età difficile da definire. Le
rughe del viso e la barba davano al volto la maturità di una corteccia provata dalle intemperie di molte stagioni.
Non era vecchio ma tutto del suo portamento raccontava di un’educazione lontana
votata alla resistenza. Era originario delle terre al di là dei Pirenei, dove
gli avevano insegnato a combattere i saraceni. Poi, conoscendoli, aveva
iniziato ad apprezzarne la cultura e da loro aveva anche imparato a fare di
conto e leggere il cielo.
Per la sua età, maggiore degli
altri due, e per la statura imponente l’aragonese era identificato spesso come
la guida dei tre. In realtà era come se pensassero con un’unica mente, ben
consci che nessuna singola parte di una testa prevale sulle altre parti.
Piuttosto ogni porzione interviene nella magica sintonia che l’anima richiede.
E quei tre si comportavano davvero come sfumature diverse di una sola anima.
Quella sera nel convento, a
vederlo camminare di spalle tra i frati,
il cavaliere più anziano pareva una montagna di carne. La coperta tolta
dal retro della sella era appoggiata sulla sua spalla destra mentre la mano
avvolgeva la forma di croce della grande spada. Sotto l’altro braccio, una tela
marrone affiancata al coltello avvolgeva un oggetto grande quanto lo zoccolo di
un cavallo.
Accompagnato nella foresteria
scelse le tre brande più appartate.
Attese gli altri due e insieme si
presentarono al refettorio. Il
servizio era già iniziato quando entrarono nel locale richiamando l’attenzione
di tutti. Il rumore delle stoviglie scemò sulle due lunghe tavolate lasciando
udire solo i passi dei loro pesanti stivali.
Il tepore del locale era un
sollievo al freddo della notte piemontese. Dopo aver appoggiato sul tavolo
l’involucro che scortavano, si sedettero.
Consumata la cena si trovarono a
fissare ognuno la piccola coppa in coccio dove avevano bevuto. La fissarono.
Poi, senza dire nulla, si guardarono e si voltarono in direzione del tavolo
dell’abate. L’aragonese annuì e, appena i frati iniziarono ad alzarsi, si
diresse verso la guida spirituale del convento.
L’alba fu anticipata dal lontano
latrato di un cane nei campi. Uscirono sull’aia. Quel che rimaneva delle nebbie
della notte era rimasto aggrappato alle parti ombrose delle colline mentre sui
pianori del fondovalle la tavola morbida della foschia si lasciava bucare dalle
cime degli alberi.
Il priore lo aveva informato che
dalle abbazie della Novalesa e della valle di Aosta erano arrivate notizie che
i passi per la Francia erano ormai chiusi. In più, tutta la regione era
infestata da soldataglie, sbandati e briganti.
La giornata trascorse tranquilla.
Mentre i frati erano intenti nelle loro attività, il più giovane dei cavalieri
aveva raggiunto la stalla e stava controllando la zoccolatura dei destrieri.
Arrivava dalla Cornovaglia e aveva la passione per i cavalli. Strigliava
personalmente il suo e trascorreva
con lui talmente tanto tempo che i compagni pensavano seriamente riuscisse
perfino a parlargli. Sapeva che, dopo un viaggio tanto lungo, un maniscalco non
avrebbe nuociuto alla zoccolatura delle bestie.
Il secondo dei crociati aveva invece seguito i
frati nel bosco. Gli servivano rami dritti adatti a ricavare frecce. Un grande
frassino in cima al pascolo sembrava perfetto. Vi si arrampicò e colse il
necessario aiutandosi col pugnale. Non era consuetudine per un cavaliere usare
l’arco, ma, nella contea dove era nato, l’arte del tiro era praticata anche dai
nobili, che si distinguevano dagli arcieri comuni per il marchio rosso
pennellato su ogni dardo.
Quando decise di abbandonare la
patria alla volta della Terra Santa, il genitore fece confezionare al figlio un
arco di dimensioni tali da essere agilmente impugnato anche in sella. Assieme
gli diede una polvere rossa che avrebbe potuto utilizzare per marchiare le
frecce e continuare a distinguersi.
Si unì agli altri due durante la
difesa da un assalto di una delle bande di delinquenti che infestavano le vie
per Gerusalemme.
Nonostante quel che si raccontava
in Europa, col trascorrere dei mesi in oriente avevano constatato che la città
del Santo Sepolcro era in quel tempo un esempio di accettabile convivenza tra
musulmani, cristiani ed ebrei. Le minacce per i pellegrini erano piuttosto
sulle strade, dove bande feroci razziavano ogni bene e non esitavano a uccidere
chiunque apparisse vulnerabile, senza distinguere la fede.
Capitò che i tre difesero dai
banditi una carovana di arabi tra le colline della Galilea. La notizia,
rafforzata dal fatto che da soli riuscirono a disperdere almeno una ventina di
assalitori, fece presto il giro dei mercati di ogni città facendo guadagnare
loro il rispetto di tutti e il
titolo di “compagnia della freccia rossa” per la inconsueta dotazione d’arma di
uno di loro. Poi, essendo uno dei superstiti un confidente del re di
Gerusalemme, il racconto delle gesta arrivò a corte e furono convocati.
Quando si trovarono scortati
dalla guardia reale pensarono semplicemente a un banchetto in loro onore, nulla
di più.
Giunti a palazzo, invece, il
sovrano lasciò subito la sala del trono per accompagnarli in una stanza
appartata. Lo spazio era fastosamente decorato e aveva al centro una specie di
altare. Quando lo scatto della chiave aprì l’unico sportello, i tre rimasero
delusi dal contenuto.
Le pareti d’oro riflettevano solo
un modesto vaso in terracotta.
Si domandarono la ragione di
tanto sfarzo per un oggetto di così poco valore.
Nessuno ribatté e passò qualche
secondo prima che il sovrano continuasse, rivolgendosi a loro.
Si congedarono dopo aver ricevuto
il prezioso oggetto, avvolto in un sacco di tela. Non avevano un’idea chiara
sulla destinazione, ma convenirono che l’Europa, con le sue storie di santi e
reliquie, sarebbe stata la loro meta finale.
Il franco, dalla cima del grande
albero dove si era arrampicato, si guardò attorno riflettendo su come quelle
colline tanto pacate nei movimenti ricordassero quelle della Galilea. Pensando
alle parole dell’abate, fu colpito anche dalla similitudine delle minacce che
gravavano sugli indifesi. Erano forse quelli due segnali sulla possibile
destinazione che stavano cercando? Ne parlò agli altri due e convennero che, se
era una coincidenza, era ben strana. E se non lo era, allora avevano trovato la
loro meta.
Avrebbero dunque aspettato il
corso degli eventi nella zona. In ogni caso non si poteva rischiare di mettere
a repentaglio il tesoro.
L’indomani, dopo aver preso
congedo dal convento, si diressero oltre il valico in direzione della grande
città sul Po, che avrebbero raggiunto da sud. Torino era stata decantata loro
per la sua importanza e soprattutto per la presenza tra le mura di reliquie.
Arrivarono in cima ad un colle
dal quale la vista spaziava in direzione del mezzogiorno. La linea
dell’orizzonte era ancora una volta un susseguirsi di boschi. Poco più avanti
notarono che, rispetto alla quiete che fino a quel momento li aveva
accompagnati, si sentivano grida, nitriti e colpi di ferro.
Nella radura appena oltre la
discesa un uomo a cavallo stava resistendo a un gruppo di assalitori armati di
lance e mazze. I tre corpi dei soldati che forse erano la sua scorta giacevano
a terra attorno ad un carro. Il cavaliere era stato colpito sul volto e nella
sua spalla destra era conficcata una freccia. Nonostante le ferite continuava a
battersi con energia.
Senza neppure guardarsi, i tre
dalla cima si lanciarono contemporaneamente al galoppo. Lo scalpitio sullo
sterrato investì gli assalitori sorprendendoli con l’intensità di un acquazzone
improvviso. Il sibilo delle lame estratte dai foderi precedette di pochi
istanti l’attacco. Gli aggressori si resero conto delle insegne crociate solo
quando i due che brandivano la spada li stavano sovrastando impennando i
destrieri.
Colti dal panico erano sul punto
di disperdersi quando, dalla direzione opposta della strada, un gruppo di altri
sei in sella stava già caricando in rinforzo.
Mentre i due crociati si
preparavano alla nuova ondata, una seconda freccia rossa colpì un altro
facendolo scivolare.
Allo scontro tra i due gruppi, la
lama dell’aragonese saettò sul collo del primo capitato a tiro senza che questo
avesse il tempo di accorgersene. Un vortice di sangue punteggiò di una scia color
rubino il prato innevato mentre la testa orfana del corpo roteava nell’aria per
schiantarsi a molte braccia di distanza.
In breve i colpi di spada nella
radura risuonavano sospesi sordamente nell’aria secca mentre la neve attutiva
il calpestio degli zoccoli. Nel teatro di una battaglia senza eco, una cerchia
di alberi scheletrici testimoniava la ferocia di un inferno soffice e senza
clamori.
L’inglese stava resistendo a
malapena ad altri due quando nella spalla di uno si materializzò con un tonfo
preciso un dardo rosso. Il crociato approfittò della distrazione
dell’aggressore più vicino per allungare la lama nel fianco dell’avversario.
Mentre il ferro misurava la carne in profondità, lo strazio di un gutturale
lamento di morte lacerò l’alchimia di colpi di spada, zoccoli e nitriti. Come
frastornati, i pochi assalitori rimasti scelsero la fuga dileguandosi in
pochissimo.
Si concentrarono sul cavaliere
ferito. I corvi iniziarono a gracchiare volteggiando in attesa del banchetto
che presto avrebbero consumato su quel che rimaneva dello scontro.
Sdraiarono il superstite
all’interno del carro. Era più grave di quanto credessero.
Non sapendo cosa li aspettasse
oltre la strada, decisero di tornare a Vezzolano.
Appena il ferito e il carro
furono affidati alla custodia dei frati, i tre si recarono dall’abate, che
aveva assistito al rientro.
Guardò fuori dalla finestra.
< È Andrea da Chieri, figlio
del podestà locale. Nei momenti più duri del nostro inverno gira con un carro
di vivande cercando di alleviare i disagi dei poveri. Chi ha ordinato l’assalto
lo conosce bene. Probabilmente non era neppure distante da voi. Forse è rimasto
nascosto nel bosco mandando avanti i suoi scagnozzi …
… ma vi hanno sottovalutato.>
L’abate si avvicinò intanto alla
tavola e versò in tre coppe un dito di liquido trasparente.
Bevendo, il franco e l’inglese
avvertirono una colonna di fuoco vivo bruciare nelle loro viscere e
strabuzzarono gli occhi accennando un colpo di tosse.
L’aragonese, più avvezzo ai
prodigi dei frati, abbassò lo sguardo celando un sorriso.
Un rumore di passi si avvicinò
dal corridoio. Un giovane frate bisbigliò all’orecchio del superiore. Poi
questi si rivolse nuovamente a loro.
L’aragonese stava fissando il
crocifisso sopra la parete e avvertì gli occhi dei compagni su di lui.
Si girò verso di loro e, con un cenno
del viso, fece segno di passargli il sacco della reliquia dal quale non si
erano mai separati.
Scesero le scale e raggiunsero la
stanza del cerusico dove il corpo del giovane giaceva ricoperto da un saio fino
all’altezza del torace. Tremante e madido di sudore era in preda ad una forte
febbre. Fissava il soffitto e sussurrava versi indistinguibili. La lama era
stata estratta dal corpo ma la spalla e la fronte lacrimavano sangue fresco.
L’aragonese iniziò a svolgere il
panno che rivestiva il calice quando la mano del priore appoggiata sul suo
braccio lo frenò.
Il cavaliere annuì.
Le torce sul muro diffondevano la
luce facendo vibrare la superficie in mattoni. Solo gli occhi acquitrinosi del
morente e il sangue delle ferite restituivano un tenue bagliore. Il più anziano
dei cavalieri, dopo che gli fu riempito il calice, si avvicinò al corpo ormai
immobile. Rovesciò il liquido sulla prima ferita, poi sulla seconda.
Intanto il cavaliere della
freccia rossa fissava l’azione. Pensava che quel corpo, pur martoriato, non
mancasse di grazia e fascino.
Più volte, aiutandolo con una
mano sotto la nuca, lo aiutò a bere. Rimase al suo fianco sentendolo respirare
a fatica. La notte trascorse tra i deliri che la sofferenza portava.
Quando Andrea si risvegliò, i tre
uomini erano al suo capezzale. Attraverso le palpebre appena socchiuse mise a
fuoco sulla parete buia le figure illuminate di traverso.
Il rosso della croce e il bianco
sui pettorali risaltavano sotto le barbe che ricoprivano i volti.
Sussurrò un grazie con un filo di
voce e richiuse gli occhi lasciandosi scivolare nel sonno ristoratore ormai
lontano dal confine con la morte.
Giudicandolo ancora troppo debole
per spostarsi, decisero di lasciarlo in custodia dei frati per qualche giorno.
Il franco sarebbe rimasto a vigilare mentre l’aragonese e l’inglese si
sarebbero mossi alla volta di Chieri. Ne avrebbero approfittato per riferire la
buona sorte e guardarsi attorno.
Giunsero in vista della città dal
suo margine settentrionale. Il pendio digradava in direzione della pianura
invernale e di un’isola compatta di edifici. Le mura serravano le falde dei
tetti che sfaccettavano come un mosaico la luce pallida del giorno. Da un bosco
di comignoli, rami di fumo si levavano dritti verso il cielo spento. Sul blocco
uniforme delle case torreggiavano la collina e il castello.
Il loro passaggio richiamò lungo
le vie due ali di curiosi.
Giunti al palazzo, il padre di
Andrea ascoltò la storia senza mai interrompere.
Rinunciando a ogni una parola si
inginocchiò tra i cavalieri, ne prese le mani e le baciò.
Pregò i salvatori del figlio di
considerarsi a casa propria e di approfittare del suo tetto per tutto il tempo
che desideravano. Dispose poi che un plotone raggiungesse Vezzolano.
Prima della partenza dei soldati,
il podestà si accertò che accompagnasse il gruppo un carro ben fornito di
farina, sale e carne per i frati. Considerati i rischi e il pericoloso
precedente su quella strada, i due crociati chiesero di mettersi alla testa del
convoglio.
Il viaggio trascorse in realtà
senza rischi e quando giunsero all’abbazia scorsero il franco e Andrea nel
cortile illuminato da un tiepido sole.
Il crociato stava facendo provare
al giovane il suo arco.
I compagni si compiacquero della scena, notando con
soddisfazione che il ferito si reggeva sulle proprie gambe. In quanto alla
cicatrice sul volto, era scomparsa.
Ognuno dei cavalieri si era
trovato già nelle condizioni di appoggiare le sue labbra a quel modesto coccio.
Ora, giunti in quei luoghi, quanto avevano veduto li persuase che forse erano
alla meta.
Chiesero e ottennero dal signore
di Chieri di risiedere in città e di poter custodire in una segreta del palazzo
il loro tesoro. Domandarono anche che nessun documento riportasse la
concessione. In questo modo solo loro avrebbero deciso quando e come rendere
pubblica la reliquia e i suoi straordinari poteri.
Andrea, intanto, continuò a
frequentare i crociati. Fu ammesso alla loro intimità. Ne apprese l’educazione
alla cavalleria. Dal cavaliere della freccia rossa imparò a tirare con l’arco e
a confezionarsi personalmente i dardi.
Quando li vedeva insieme,
l’aragonese non mancava di intenerirsi. Pensava al giorno lontano in cui anche
lui accompagnava un cavaliere più anziano, un uomo che non gli aveva nascosto
nulla, di sé e della vita. Provò una sensazione di calore, un piacevole affetto
per i compagni di cammino, vecchi e nuovi.
Nelle stagioni successive
sventarono altri agguati e smorzarono molte prepotenze. Nel tempo, la loro fama
rese più tranquillo il Monferrato e superò di gran lunga i confini delle terre
di Torino.
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Racconto partecipante alla sesta edizione di © Philobiblon (2011)
Racconto partecipante alla sesta edizione di © Philobiblon (2011)
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