giovedì 23 febbraio 2023

Una storia d'amore

Una pagina di The Dream of The Road
 Una storia d'amore

La mia relazione con il Medioevo iniziò quando ero all’incirca a metà della terza media. Feci la sua prima conoscenza dopo che la mia compagna di banco, per dimostrare ai professori quanto era brava e volenterosa, si imparò a memoria per filo e per segno la traduzione italiana del poemetto The Dream of The Rood. Per carità, non chiedetemi dove l’avesse trovato. Credeva che fosse una specie di Divina Commedia inglese, ma le fu presto chiaro che non lo avremmo mai studiato in nessuna materia, che non le sarebbe servito con nessun professore e che non poteva nemmeno scriverci sopra la tesina. Così non trovò niente di meglio da fare che ricopiarlo sul mio diario durante un’ora buca.
Anche a me fu subito chiaro che era un poema pesante, ripetitivo, antiquato e sconosciuto ai più. Ma io avevo un carattere diverso: per me, questa era un’opportunità. Il testo medievale divenne il mio rifugio: una poesia scritta per me, che solo io conoscevo, che solo io potevo leggere e rileggere. Un mio mondo inaccessibile dove rifugiarmi, e dove sognare. Sognavo di vedere anch’io una strana croce e di sedermi ad ascoltare la storia della sua vita (possibilmente un po’ più allegra, ma ugualmente ottimista), e di diventare la depositaria di grandi segreti della storia umana.
A partire da Il sogno della Croce, iniziai a frequentare il Medioevo. Ascoltai ogni lezione reperibile di Alessandro Barbero, guardai Vikings dal primo all’ultimo episodio, lessi voracemente Le cronache di fratello Cadfael, I pilastri della Terra e Il nome della rosa. Cercavo sul dizionario una parola su due, ma non importava. Il Medioevo era affascinante, avventuroso, poetico, vivace, sempre pieno di storie da raccontare, allo stesso tempo carico di sovrastrutture mentali e spontaneo come un bambino. I suoi gesti erano densi di affetto e di significato, le sue parole calibrate e potenti. Si sforzava di continuo di interpretare la realtà, ma ne era un fedelissimo osservatore. Era un grande idealista, sebbene spesso mancasse della praticità necessaria a compiere le sue imprese. Anzi, non era raro che fallisse negli obiettivi che si prefiggeva e che invece riuscisse in imprese grandiose che non riteneva nemmeno importanti. Nonostante un catastrofismo cronico che gli faceva credere di essere ormai alla fine del mondo, le sue azioni erano impregnate di iniziativa e vitalità. Nella sua bidimensionalità stilizzata, non gli mancavano mai né le vesti sgargianti, né i capelli dorati, né il sorriso semplice, né soprattutto le guance rosse.
Quando iniziai il liceo, eravamo arrivati a trascorrere più tempo insieme che separati. Passavamo pomeriggi a leggere in biblioteca, serate a guardare film e serie TV, fine settimana con gli amici ad assistere a festival, rievocazioni, spettacoli di sbandieratori e via dicendo. Era un idillio, un sogno bellissimo e soltanto mio, proprio come quello dell’anonimo narratore di Il sogno della Croce.
Finché non si ruppe. La prima crisi seria della nostra relazione avvenne quando partecipai a un concorso letterario a tema storico. Mi iscrissi con entusiasmo e senza pensarci due volte, accantonando per un attimo la gelosia che di solito mi rendeva assai riluttante ad esternare eccessivamente la mia travolgente passione (insomma, il sognatore non aveva ascoltato la Croce in mezzo a una folla di persone, no?). Tanto, si trattava solo di un racconto, e io ero anche bravina a scrivere. Eppure, quella volta mi bloccai. Ogni volta che mettevo in scena un nuovo personaggio – un cavaliere in partenza per la Crociata, un mercante alla ricerca di identità, un vassallo che presta omaggio a più signori, un laico che impara a leggere – mi chiedevo: ma avrebbero davvero pensato questo? Avrebbero agito proprio così? Questo dettaglio appartiene alla mia vita o alla loro? Non starò forse mettendo le mie idee nella loro testa? Avevo creduto di conoscere il Medioevo a un livello di grande intimità, ma mi sbagliavo. C’erano molte cose che non sapevo. E se mi avesse nascosto qualcosa? E se la Croce avesse rivelato la sua vera vita a qualcuno che non ero io? Questo dubbio mi riempiva di angoscia.
Ma non è forse vero che in ogni vita e in ogni storia, d’amore e non d’amore, ciò che non uccide fortifica? Nel frattempo ero cresciuta, e potevo permettermi di approfondire a un livello più serio. Passai ad autori come Huizinga, Bloch, Le Goff, Pastoureau, Cardini, Frugoni. Pur senza abbandonare le rievocazioni (mai!) e le rivisitazioni trash e poco fedeli per il grande e il piccolo schermo (anche quelle, come farne a meno?), aggiunsi qualche gita ad abbazie, musei, borghi, cattedrali. E piano piano imparai ad accettare che il Medioevo era sì un’epoca di crociate, eresie, economie viziose e inquinamento olfattivo, ma a parte questo aveva anche… dei difetti. Più che difetti, anzi, erano veri e propri squilibri mentali. Ad esempio, perché diavolo aborriva l’accostamento del verde e del giallo? Perché la sua emotività era così sregolata? Dove pensava che stesse l’utilità di scomunicare in massa le cavallette? Inoltre, si credeva di essere al centro dell’universo ed era pieno zeppo di pregiudizi. Memorabile poi la storia dell’ascia e della sega: secondo lui, l’ascia è uno strumento buono perché attacca direttamente, agisce con la forza, è maschio; la sega invece gioca d’astuzia, come le donne, e nella sua lentezza ruba il tempo che è proprietà di Dio. Assurdo ragionatore e maledetto maschilista! E io che pensavo che almeno un po’ di rispetto per me in quanto donna lo nutrisse… Invece, sentite cosa fa affermare a Dante nel De vulgari eloquentia (parafraso): chi è stato il primo a parlare? Secondo la Bibbia (fonte già discutibile, ma passi), Eva. Ma Eva era una donna, quindi per forza è stato Adamo!
Sì, faceva ridere… ma questa in fondo è una grande qualità in un partner.
Lo amavo sempre di più.
Dopo il liceo, con grande sorpresa di tutti gli amici, parenti e conoscenti, non mi iscrissi a storia. A me invece non stupiva affatto: va bene che il nostro amore era solido, ma portare il Medioevo in una facoltà piena di spasimanti era una zappata sui piedi. Io, pur godendo anche dei momenti di compagnia, ricercavo sempre l’intimità del sogno: ero convinta che i segreti fossero svelati solo a un poeta in ascolto, nel silenzio. Il Medioevo era il mio mondo, mio e soltanto mio, fin da quell’ora buca della terza media. Per di più, il Medioevo era troppo, troppo vivo per me per poter accettare di confinarlo in un’aula. Così mi immatricolai a Beni Culturali, in modo da tenerlo comunque sempre in vista.
Fu una scelta che si dimostrò non solo azzeccata, ma anche in perfetta sintonia con i progetti del Medioevo per il futuro. Infatti un giorno – in faccia a tutti coloro che pensavano che il mio fosse un amore non troppo corrisposto – il Medioevo mi propose il matrimonio.
Avvenne per bocca di un frate. A quel tempo avevo iniziato a frequentare la chiesa di San Francesco, da poco restaurata. Era un gioiellino gotico aperto solo durante le funzioni religiose, e per questo non me ne perdevo una. Mentre tutti gli astanti mi scambiavano per una ragazza pia e devota, io studiavo attentamente ogni singolo mattone. Studiavo con gli occhi quando ero là, e studiavo a casa su guide e opuscoli. Studiai così tanto che la mia passione traboccò da me, esondando dagli occhi, dai gesti, perfino dai capelli quando non la lasciavo uscire dalla bocca, finché una domenica mattina, finita la Messa, un frate di cui ormai avevo fatto conoscenza non mi abbordò e mi disse: «A breve apriremo la chiesa al turismo e cerchiamo guide volontarie. So che studi Beni Culturali, ti andrebbe?»
Risposi di sì.
Il frate mi donò un anello col rosario.
Il matrimonio cambiò tutto, perché un matrimonio sterile e chiuso in se stesso è come un affresco imbiancato, come un castello disabitato, come un sogno al risveglio se non viene raccontato. Mi ero preparata per spiegare ai visitatori l’evoluzione nel tempo della chiesa, i vari artisti che dedicarono agli affreschi le loro mani anonime, i principi architettonici che reggevano la struttura. Ma una parte di me voleva solo dire loro: «Chi ha iniziato quest’opera sapeva che non l’avrebbe vista finita. Ma si è fidato delle generazioni future, e ha iniziato un progetto più grande di se stesso»; e ancora: «Chi ha costruito questa chiesa non era un architetto, era una comunità. C’era chi progettava, chi finanziava, chi solo sbozzava le pietre, ma tutti partecipavano»; «Considerate la pazienza di chi ha posto mattone su mattone, ed è arrivato fin qui»; «Osservate i contrafforti, quanto sono possenti: quanto valore dato alla materia, al lavoro dell’uomo, portato qui, offerto a Dio come strumento di riscatto!». Volevo far respirare loro la spiritualità nell’aria, far vivere loro il percorso dal buio alla luce avanzando verso l’altare, volevo che leggessero le figurine degli affreschi come una lingua, e che si facessero raccontare…
Dovetti ammetterlo: desideravo che ciascun visitatore diventasse un poeta-sognatore e ascoltasse dalla Croce la propria storia. Altrimenti, la mia guida non avrebbe avuto un senso.
Divisa tra quel fortissimo istinto all’apertura e la mia solita gelosia, quella sera rilessi Il sogno della Croce. E alla fine trovai:

“Ed ora ti ingiungo, o mio caro,
che tu racconti questa visione ai mortali,
che tu riveli con le parole che questo è l’Albero della Gloria
su cui Iddio onnipotente soffrì
per i molteplici peccati degli uomini
e per l’antica azione di Adamo”.

Non ebbi più dubbi. Fino ad allora avevo sempre trascurato quella parte, tutta presa dal fatto che mi (lo) stesse chiamando “mio caro”. In quel momento però non lessi altro che l’invito, l’ingiunzione. Avvenne con estrema naturalezza. Tutto cambiò, e tutto rimase uguale. Fu come quando un tintore estrae un tessuto dal suo calderone maleodorante, e quello in un attimo muta colore. Una magia, sì.
Quel volontariato divenne un lavoro. Dall’unione fra me e il Medioevo nacquero innumerevoli nuovi appassionati. La condivisione riesumava nuove storie, e le storie creavano nuova condivisione. Conseguii ogni sorta di brevetto da guida in ogni singola regione. Continuai ad accompagnare visitatori e turisti, poi classi, scuole, club, gruppi di stranieri, perfino gente proveniente da luoghi che in una mappa T-O avrebbero dovuto trovarsi nell’altra pagina.
Quando infine andai in pensione, sapevo che non avrei mai conosciuto del tutto il Medioevo. Però avevo la certezza non solo di amarlo, ma anche che lui non mi avrebbe mai abbandonata. Perché era dovunque: nelle fondamenta delle case e nelle costellazioni, nel patrimonio culturale e in quello genetico, nella guerra e nell’amore, nelle bandiere e nelle staffe, nella puzza di letame e nel profumo del pane.

di Akeesandra Visioli
 
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Racconto partecipante alla diciassetesima di © Philobiblon (2022)

 

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